Napoli 1giu2016: Con la Rivoluzione Bolivariana hasta la Victoria Final!

da Rete Caracas ChiAma

Il nascente Movimento Internazionale Antifascista (MIA) nato dalla spinta delle lavoratrici immigrate in Campania provenienti dai paesi dell’Ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche insieme alle compagne ed i compagni di ‘ALBAinformazione – per l’amicizia e la solidarietà tra i popoli’ di ANROS-Italia nell’ottica dell’internazionalismo proletario invita tutti i sinceri antifascisti e i democratici conseguenti ad intervenire al presidio di solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana insieme alla Rete “Caracas ChiAma” a Napoli per esprimere il proprio affetto, il proprio sostegno, la propria vicinanza al popolo venezuelano e al governo del compagno operaio e presidente Nicolás Maduro Moros in questo duro frangente in cui l’imperialismo USA, UE ed il sionismo sono impegnati senza risparmiare colpi nella loro guerra di discredito, terrorismo mediatico, economica, diplomatica e politica contro una delle esperienza di punta del progressismo internazionale e per l’integrazione latinoamericana. Una guerra che l’imperialismo ha iniziato contro la direzione di Chávez, oggi, a maggior ragione, contro Maduro.

Le nuove rivoluzioni democratiche nei paesi bersaglio dell’imperialismo sono ferocemente colpite dai movimenti reazionari, e non a caso, dal Brasile all’Ecuador, dal Venezuela all’Argentina, e in ogni angolo del mondo.

Le lavoratrici immigrate, la classe operaia in Italia, si stringono con i propri fratelli di classe dell’America latina e del mondo, oggi più che mai!

¡La lucha todavía es dura pero la victoria del socialismo está segura!

La lotta è ancora dura ma la vittoria del socialismo è sicura!

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Nasrallah: l’asse della Resistenza non sarà mai sconfitto

da lantidiplomatico 

Il segretario generale del Movimento della Resistenza Islamica (Hezbollah), Seyed Hassan Nasrallah, ha detto che l’asse della resistenza non sarà sconfitto e sarà vittorioso in questa battaglia nella regione e la causa palestinese sarà al centro del conflitto vero e proprio.
In un discorso televisivo per celebrare il 16° anniversario della liberazione del Libano meridionale dal regime di occupazione israeliano, durato 18 anni, Nasrallah ha ricordato come Hezbollah ha costretto Israele a lasciare il Libano nel 2000.
 
Nasrallah ha ricordato i massacri commessi dall’occupazione israeliana contro il popolo palestinese, e come la responsabilità ricade su tutti coloro che hanno a che fare con l’entità israeliana e la sua occupazione della Palestina.
 
Egli ha anche avvertito che gli eventi nella regione e l’ideologia wahhabita, minacciano i paesi, le società ed i popoli in tutta la regione e oltre a realizzare gli interessi delle grandi potenze del mondo.
 
Nasrallah ha predetto “tempi caldi” in Medio Oriente nei prossimi mesi prima delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, perché l’amministrazione Usa vuole “rovesciare sangue nelle urne” e che la fine del gruppo terroristico ISIS (Daesh, in arabo) “è molto vicina”.

 

 

 

Iran e Nord Corea sostengono la Siria contro il terrorismo

da lantidiplomatico 

L’Iran ha condannato fermamente, oggi, gli attacchi terroristici che hanno scosso la città di Jableh e Tartus, uccidendo decine di persone innocenti, e ha espresso la sua profondo dolore per il governo e il popolo siriano, in particolare le famiglie dei martiri e feriti.
 
Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha dichiarato che il terrorismo e l’estremismo rappresentano una grave minaccia per tutti i popoli della regione e per la pace e la sicurezza internazionale, che richiede alla comunità internazionale di assolvere ai suoi compiti e responsabilità sia legale che morale, in una campagna globale contro questo fenomeno disumano.
 
Pyongyang ribadisce la solidarietà con il popolo siriano contro il terrorismo
 
Il Ministero degli Esteri della Corea del Nord ha dichiarato che gli attacchi terroristici che hanno avuto luogo nelle città di Jableh e Tartus sono un prodotto delle trame sporche dei terroristi e delle forze che li supportano, ribadendo la solidarietà di Pyongyang con la giusta lotta del popolo e del governo siriano contro il terrorismo.

Un portavoce del ministero degli esteri della Corea del Nord ha ribadito il sostegno e la solidarietà con la giusta lotta del popolo e del governo della Repubblica araba siriana per contrastare le attività ostili.
 
Egli ha aggiunto che “questi atti terroristici sono stati il risultato di trame sporche dei terroristi e delle forze che sono dietro di loro per ostacolare il processo di risoluzione della crisi in Siria.”
 
Infine, la Corea del Nord ha ribadito la sua ferma posizione che rifiuta ogni forma di terrorismo.

 

Il fantasma del Comandante Mozgovoi nella morsa della guerra

di Maurizio Vezzosi – lantidiplomatico.it
 
Ad un anno dall’uccisione del Comandante Alexey Mozgovoi della Brigata Prizrak (in russo: Fantasma) riproponiamo questo racconto a lui dedicato scritto a pochi giorni dalla sua uccisione e originariamente pubblicato da Carmilla on-line. Ad introdurlo alcune delle sue parole sulla lotta contro le oligarchie, dentro una guerra che con il benestare dell’Occidente insangua il Donbass e l’Ucraina da quasi due anni.
 
 
Coloro che hanno volontà, cercano una via! Quelli che non ce l’hanno, cercano una scusa! […] Non siete stanchi della corruzione? Tangenti negli ospedali, tangenti nelle scuole, negli asili, tangenti in qualsiasi struttura pubblica. Non siete stanchi dell’illegalità nel governo – a tutti i livelli, dai funzionari locali al presidente? Non siete stanchi di lavorare per un pugno di briciole, quando i cosiddetti “padroni” delle fabbriche e delle miniere, costruite dai vostri padri nel periodo sovietico hanno sempre le mani in pasta e comprano qualunque cosa a chiunque vogliano? E tu devi vivere dentro il recinto che loro hanno stabilito? Non siete stanchi di questo? 
[…] Pensate che il sistema scolastico funzioni bene? Non credo. Ed è così dappertutto. Per quanto tempo ci siamo lamentati contro le pratiche scorrette della polizia? Nessun risultato. Fino a quando non cominceremo per davvero a combattere contro tutto questo, non cambierà nulla. Continueremo a parlarne a tavola, incolpando il governo per questo o per quello… Ma se non agiamo, il governo continuerà solo ad annuire e a farsi gli affari propri. […] Mentre la gente comune… non se la passa così bene. Così, signori intelligenti e colti, che pensate alle nostre idee come un’utopia – unitevi a noi. E datevi almeno un pochino da fare per renderle realtà. Così che questa idea non scompaia senza lasciare traccia. Per questo – non abbiamo bisogno di discussioni teoriche sul fatto che siano o meno utopia, ma di un sacco di duro lavoro. E dovete combattere, come stiamo combattendo ora. 
 
Alexey Mozgovoi 
3 Aprile 1975, 23 Maggio 2015 
 
 
I fantasmi del Donbass nella morsa della guerra
 
In quest’angolo di Europa i tempi che corrono sembrano quelli dell’Operazione Barbarossa.

Scuole e ospedali bombardati, villaggi in fiamme, interi centri abitati cancellati, di fatto, dalle cartine geografiche: migliaia di vite spezzate.

Niente di nuovo da queste parti, niente di diverso da quanto messo in atto da quegli “uomini in divisa dal colore dei lupi” ormai più di settant’anni or sono.
Niente di nuovo muove la furia dei battaglioni punitivi dell’operazione ATO dei golpisti di Kiev: odio razzista, anticomunismo, violenza cieca.

Niente di nuovo, niente di diverso anima la determinazione di chi vi si oppone: fermare il fascismo. E’ questo l’imperativo dei partigiani che, insorgendo, hanno proclamato la nascita delle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk.
Una storia per certi aspetti già vista, che quasi non si dovrebbe aver bisogno di raccontare.

Sono i primi giorni di Aprile, e nevica. L’asfalto è ghiacciato, e camminare all’aperto senza scivolare è davvero difficile.

Scriviamo da Kommissarovka, nella Repubblica Popolare di Lugansk. Un piccolo villaggio a qualche chilometro dal fronte, molto vicino a Debalstevo: qui si è svolta una battaglia fondamentale dove le milizie popolari hanno piegato i battaglioni punitivi di Kiev costringendo alla resa oltre mille soldati e facendo man bassa di mezzi e armamenti.

Qui, in un vecchio carcere ex sovietico – e poi ucraino – c’è una della basi della Brigata Prizrak (in russo: fantasma) il cui comandante, Alexey Mozgovoy, è stato di recente vittima di un attentato che non gli ha lasciato scampo.

Proprio a Kommissarovka lo abbiamo incontrato per la prima volta insieme all’addetta stampa della Brigata Anna Aseeva e agli uomini della scorta, vittime a loro volta di uno dei tanti crimini che la giunta golpista di Kiev ha sul proprio conto.

Una passeggiata nei corridoi di questo complesso carcerario farebbe ricredere forse persino i più ostinati denigratori della resistenza portata avanti dalle milizie popolari.

All’ex carcere si accede attraversando la soglia di un massiccio cancello blindato e lambendo un profondo fossato utilizzato per le ispezioni dei controlli di sicurezza. Il filo spinato circoscrive il perimetro della base insieme a muri di cemento armato e torrette di avvistamento.

Il cannone di un imponente T-64 di produzione sovietica dà il benvenuto a chi varca il cancello: fissata alla sua torretta sventola una bandiera rossa con una falce e martello.

“Dobro pagialovat”, ci dicono i miliziani. Benvenuti, benvenuti nella casa dei fantasmi.

Fuori l’aria è gelida, e la nebbia fittissima ci permette a malapena di scorgere la cima di un traliccio per le trasmissioni radio, qualche metro oltre le mura della base.

Camminare nella campagna circostante non è affatto una buona idea: il rischio di urtare accidentalmente ordigni inesplosi o di innescare mine è decisamente concreto.

Varcando il cancello e la spessa coltre di nebbia spostata dal vento finiamo per essere inghiottiti da un’ acre nube di fumo. A ridosso di una delle tante mura di recinzione di questo ex carcere un miliziano è alle prese con un fuoco alimentato da legna zuppa e da vecchi mobili fatti a pezzi alla meglio. Da un lato una pila di fascicoli di carta fradicia: un via vai di gente giovane, e meno giovane, si dà da fare per prendere nei vecchi uffici devastati dai combattimenti le carte della polizia ucraina in modo da dare animo alle fiamme. Cani e gatti, che hanno trovato riparo in questa vecchia prigione, osservano sotto una tettoia.

L’umidità della legna, ma anche il metodo – non esattamente scientifico – utilizzato per alimentare il fuoco appestano l’aria che respiriamo. Sono le dieci, ma già un pentolone, annerito come le rughe dei più indaffarati, bolle sul fuoco per cuocere il pranzo della brigata.

Dopo quattro, cinque rampe di scale percorriamo alcuni corridoi interminabili e angusti, verniciati dalla polizia ucraina con un fastidioso smalto celeste.

 

A terra ancora i segni dei feroci combattimenti a cui le milizie sono state costrette per liberare il complesso dai battaglioni punitivi: attraversiamo una stanza dove venivano fatti i colloqui tra detenuti e familiari. Gli scarponi dei miliziani spezzano il tappeto di bossoli e di vetri che circoscrivevano gli spazi di detenzione.


Poco più in là c’è una stanzetta, nel centro di un altro corridoio che quasi non riceve luce naturale. In alto disegni di cani, gatti e fantasiose creature ci fanno intuire che quello spazio dovesse essere destinato agli incontri tra genitori detenuti e figli. Ma un gran trambusto non permette di rifletterci molto. Alcuni pentoloni ammaccati e fumanti vengono rapidamente disposti in un angolo della stanzetta e in un baleno compare di fianco al muro una fila di miliziani che attendono di buon grado il proprio turno.

Il posto a sedere per tutti non c’è, e di conseguenza qualcuno mangia in piedi, qualcun altro sposta il fucile per fare spazio al proprio compagno. Ci si stringe.

Chi ha finito si alza e fa sedere gli altri. Nelle scodelle dei miliziani ci sono sempre – più o meno – le stesse cose: pasta cotta fino a farla diventare un’indistinta poltiglia, un brodo da versarci sopra, con qualche pezzo di carne.
Tre fette di pane. E una tazza di tè. Ma a volte ci sono anche marmellata, burro e sottaceti, ci assicurano.


Anche questa è la guerra. Diamo il buon appetito a tutta la compagnia. Qualcuno rimane indifferente, altri ricambiano rispondendo in italiano, altri – forse i più sinceri – sgranano gli occhi e alzando i sopraccigli ridimensionano il nostro zelo.

I più disinvolti vengono da noi e si meravigliano, anche con una certa insistenza, del fatto che degli italiani accettino di mangiare – persino sorridendo – qualcosa che, lontano dalla guerra, si guarderebbero bene di avvicinare alla bocca. “Korrispondent” ci chiamano, ma non passa qualche ora che siamo già diventati “gli italiani”, i compagni italiani.

Su indicazione del comandante alcuni miliziani ci mostrano quella che per alcuni giorni sarà la nostra sistemazione: una stanzetta a cui si arriva facendosi largo tra vetri in frantumi, vecchi mobili, polvere e spazzatura. A parte due vecchie brande sradicate dalle celle, nella stanza non c’è nient’altro. Una stufetta elettrica non ha la meglio sul freddo che nei corridoi soffia come soffia nella campagna circostante. Come chiunque abbia dormito qui per qualche giorno, siamo costretti ad arrangiarci andando alla ricerca di quello che ci serve, a volte chiedendolo ai miliziani, a volte rovistando tra i cumuli di spazzatura e cianfrusaglie a cui sono ridotte le stanze dell’edificio.
Diamo una mano a spaccare la legna per il fuoco, e il nostro impegno viene apprezzato molto.

Qualcuno ci offre delle caramelle. Altri del latte condensato. Qualcuno ci porta un’altra stufa elettrica, o del tè, che molti ci invitano a consumare nelle loro camerate dove, seduti sulle brande, si cerca di combattere il freddo: avvolgendo con le mani una tazza d’alluminio rovente, ascoltiamo i racconti della vita di questi ragazzi venuti a combattere qua da ogni angolo dell’ex Unione Sovietica. Dalla Moldova alla Kamchatka. Spesso fanno lavori semplici, semplici come il loro modo di fare, che a volte può sembrare scontroso. Ma ci si rende conto ben presto che il fare brusco, senza fronzoli, non è che l’irruenza della sincerità di cui è impregnato ogni loro singolo sguardo.

Molti sono convintamente comunisti: alcuni in modo riservato, senza far rumore, altri rivendicandolo a piena voce e sfoggiando orgogliosamente cimeli sovietici nelle loro camerate e nelle loro uniformi, che spesso di uniforme hanno ben poco.

Nella sua stanza il comandante, un quarantenne ucraino dagli occhi di ghiaccio, ha disposto con cura bandiere rosse e un gagliardetto con il volto di Lenin.

Altri, comunisti non sono, e non lo so mai stati. Ed anzi, prima di questa guerra per i comunisti non provavano nessuna simpatia, ci assicurano, mentre adesso i comunisti sono rispettati anche dai loro naturali nemici. Almeno per il momento.

Riflettiamo, passeggiando nei sotterranei dell’ex carcere. Qui oltre alle docce, un deposito di armi e munizioni, un magazzino di medicinali e varie officine per la manutenzione, ci sono delle stanze con una porta blindata e un piccolo oblò in vetro, che quasi ricorda quello delle porte stagne delle imbarcazioni: sono le vecchie celle del regime di detenzione duro, riservate a chi infrangeva la disciplina carceraria o era sottoposto a una sorveglianza speciale.
Una finestra di pochi centimetri quadrati, due brande attaccate al muro.

Un’umidità impressionante che rende l’ambiente malsano e maleodorante. Chiunque dorma qui si ammala, ci assicurano Xavi ed Eloy, due medici spagnoli che offrono servizio d’assistenza sanitaria alla brigata: febbre, bronchiti, problemi respiratori.


Ma i ragazzi che dormono qui non si fanno grossi problemi: durante i bombardamenti l’intera brigata era ammassata nei sotterranei dopo l’evacuazione dei piani superiori.

Passeggiando a qualche centinaio di metri dalla base, davanti a uno dei chioschi del villaggio un ragazzetto ci si fa incontro con il fare di uno che ha voglia di parlare. Gli spieghiamo chi siamo ed il perchè ci troviamo in Donbass. “Guardate che fanno i fascisti” dice alzandosi la maglietta e mostrandoci lo squarcio di una cicatrice che gli attraversa il busto.

“Voinà”, si sente ripetere tra la gente e anche i meno attenti finiscono ben presto per comprendere il significato di questa parola.

Poco dopo ci ritroviamo a camminare nello stesso corridoio dove qualche ora prima i miliziani attendevano il proprio pasto, mentre il sole sta tramontando.

Una foto attaccata al muro richiama la nostra attenzione: è la foto di un nostro amico, un volontario bielorusso. Si fa chiamare Variak. Sotto il suo volto la sua data di nascita, del 1975, e quella del giorno che ci stiamo lasciando alle spalle.

E’ morto.

Nei pressi del posto di blocco dov’era di stanza ha urtato un ordigno inesploso, che non gli ha lasciato scampo. Ci si annoda lo stomaco: sconforto, rabbia, odio.

Trangugiamo, quasi senza accorgerci di farlo, qualche fetta di pane affogata nel brodo. Serrati, nella morsa della guerra, i nostri occhi si fissano sulla patina d’olio che ricopre la zuppa e lambisce l’acciaio della scodella. Nella morsa di una guerra.

Nella morsa di una guerra che non fa sconti a chi avuto il coraggio di guardarla in faccia, senza curarsi di dare tutto per un domani migliore.

Venezuela no será un nuevo Irak

por Fabio Marcelli | 20 de mayo de 2016

ilfattoquotidiano.it

Nada a que ver con el referéndum revocatorio contra el presidente Nicolás Maduro. Consciente de las dificultades cada vez mayores asociadas a la opción revocatoria, regulada en detalle en la Constitución Bolivariana (art. 72), donde se establecen los requisitos precisos en términos del número de firmas a ser recogidas y del número de votos válidos, claramente fuera del alcance de la oposición de derecha, los líderes de esta última están haciendo desesperados llamados a los Estados Unidos para que intervengan militarmente contra el gobierno chavista. La nota “la” al vergonzoso coro de invocaciones guerreristas la ha dado el ex presidente colombiano Álvaro Uribe, experto profesional en crímenes contra la humanidad.

Sin embargo, es importante comprender que si se alcanza el esperado acuerdo de paz entre el gobierno colombiano y la guerrilla de las FARC-EP, el nefasto personaje quedaría fuera del juego, con la perspectiva incluso de terminar ante la Corte Penal Internacional por sus muchos delitos; razón por la cual busca sembrar confusión para incendiar la región. Siguiendo la ruta trazada por semejante “defensor de la paz y la democracia” se han escuchado las quejumbrosas peticiones de ayuda de varios exponentes de la derecha venezolana.

Los Estados Unidos por su parte, aun siendo conscientes de las dificultades y los riesgos de una intervención militar, no dejaran escapar, así de fácil, una oportunidad de oro para poner sus garras en uno de los principales yacimientos de petróleo del mundo. En este contexto, hay que interpretar decisiones aparentemente incomprensibles, como la de declarar a Venezuela “una amenaza para los intereses y la seguridad nacional de Estados Unidos”, así como la de asignar importantes montos de dólares para financiar la oposición venezolana, incluyendo ayuda militar y el uso de equipos sofisticados para la interceptación y el control como el Boeing 707 E-Sentry que, en los últimos días, violó repetidamente el espacio aéreo venezolano. Más o menos con la misma lógica de intromisión en los asuntos venezolanos, encontramos los patéticos intentos para exhumar una organización tan deslegitimada como la Organización de los Estados Americanos (OEA), mediante la aplicación de la llamada “Carta Democrática”. A pesar de su moribunda condición, la OEA está presionando al máximo para provocar la suspensión de los países en los que aparentemente se registren violaciones de la democracia, con el voto de dos tercios de los Estados miembros.

Pero, lo menos divertido es el hecho de que el secretario de esa desprestigiada organización, un tal Almagro, hiperactivo en los asuntos venezolanos, se ha limitado en lo que respecta a la situación de Brasil, a invocar con poco éxito, la opinión consultiva de la Corte Interamericana de Derechos Humanos; a pesar de que en este último país, como consecuencia del golpe de Estado judicial y parlamentario contra Dilma Rousseff, deberá asumir el control del gobierno, durante mucho tiempo, un vicepresidente como Temer, notoriamente corrupto y apoyado por un irrisorio porcentaje de la población.

Volviendo a Venezuela, el mecanismo de invasión ya se ha puesto en marcha desde hace algún tiempo. Hablamos de los contingentes estadounidenses anclados ya en Honduras,  país donde empezó, con la destitución ilegal del Presidente Zelaya, la serie de golpes más o menos blandos contra los presidentes democráticos reacios a apoyar la tradicional subordinación de América Latina a Washington. La última expresión fue el golpe judicial y parlamentario de los corruptos, contra la presidente de Brasil, Dilma Rousseff.

La intervención militar de Estados Unidos contra la Venezuela Bolivariana y chavista sería la guinda de la torta de esta estrategia de reconquista. Descaradamente, por supuesto y como siempre, y obviando cualquier principio jurídico internacional, puede justificarse tal ignominia mediante una masiva campaña mediática que incorpore nombres destacados de la prensa del statu quo, como The New York Times y The Washington Post. Para crear el clima adecuado, los sectores violentos de la oposición venezolana reviven las Guarimbas, campañas de agitación que provocaron 43 víctimas mortales hace dos años, incluyendo muchos policías y transeúntes al azar, muertos por disparos o decapitados por las guayas con las cuales los guarimberos bloqueaban los caminos. Continúa también la implacable guerra económica, acaparando los bienes de primera necesidad y saboteando los servicios sociales al punto de incendiar, como lo han hecho en otras ocasiones, guarderías y centros de salud.

Esta estrategia irresponsable, apunta esencialmente a transformar Venezuela en un nuevo Irak y toda el área caribeña en un nuevo Medio Oriente. Cuando no es posible, y cada vez menos lo es, generar hegemonía y encontrar consenso, el imperialismo dominante promueve y genera procesos de desestabilización sangrienta. Fortalecida por una mayoria que la favoreció en las elecciones de diciembre, la oposición podría haber tomado el camino de la unidad nacional y la cooperación sincera para resolver los problemas económicos del país. Pero era demasiado esperar una actitud responsable hacia el pueblo por parte de oligarcas acostumbrados a tener como prioridad exclusiva sus propios intereses, aún si eso significa sacrificar la independencia y la soberanía nacional, conceptos que nunca han comprendido, dada la estrechez de su visión y su propensión innata a la servidumbre incondicional a Washington.

La perspectiva, sea quien sea el vencedor en las próximas elecciones presidenciales en Estados Unidos (probablemente y por desgracia no será Bernie Sanders) es desencadenar una nueva guerra de agresión, esta vez cerca de casa. Después de todo, el abundante petróleo venezolano bien merece un esfuerzo extra. Las víctimas elegidas de esta aventura, obviamente, serían las del pueblo venezolano y la paz mundial. Por lo tanto, esperamos que se detenga esta espiral guerrerista, que sólo puede prevenirse como ha acertadamente señalado Maduro, con la reanudación, el crecimiento y la consolidación del proceso de lucha popular en Venezuela y en toda América Latina, en una nueva fase de la revolución democrática, que supere los límites de diverso calibre que, hasta ahora, ha evidenciado.

 

Ornella Bertorotta (M5S) incontra l’Ambasciatore venezuelano a Roma

di Ornella Bertorotta – Portavoce M5S al Senato

Ultimamente si parla sempre più di Venezuela.
La settimana scorsa la Commissione Affari Esteri del Senato ha ricevuto alcuni parlamentari dell’opposizione venezuelana.

A loro avviso il Paese è sull’orlo del collasso, la fame si fa strada sempre più, mentre i processi politici non riescono a dare una risposta concreta alla popolazione. I media internazionali, tra cui anche quelli italiani, fanno da cassa di risonanza a queste denunce che descrivono un Paese al collasso, versione sostenuta anche da diversi cittadini italo venezuelani. Io, come sono solita fare, ho voluto ascoltare anche l’altra campana, ovvero quella Governativa.

Ho cosi chiesto e ottenuto un incontro con l’Ambasciatore venezuelano in Italia, Julián Isaías Rodríguez che ci ha ricevuti stamane presso la sede diplomatica.

Al centro dei colloqui la difficile situazione nel Paese e le possibili soluzioni. Si è discusso anche di temi molto specifici, come la questione relativa alle pensioni che l’Inps versa ai nostri cittadini residenti nel Paese, nonchè la sospensione dei voli, da parte di Alitalia da e per Caracas.

I punti principali che abbiamo approfondito riguardano:

A) La crisi alimentare e la produzione agricola
B) Il contesto internazionale e le pressioni estere
C) Il processo referendario
D) Corruzione e violenza
E) Le soluzioni alla crisi della distribuzione degli alimenti

Ritengo questo incontro molto proficuo, soprattutto utile a chiarire una versione, quella ufficiale dei media, che come spesso succede anche in Italia, risulta troppo semplicistica rispetto alla realtà.

L’ambasciatore ha denunciato a sua volta i tentativi di guerra economica ai danni del Paese, nonostante i contributi dati per l’acquisto di alimenti dal Governo alle compagnie private da gennaio 2016, sarebbero stati sufficienti ad acquistare derrate per ben tre volte superiori al fabbisogno della popolazione.

L’ambasciata ci ha consegnato anche del materiale informativo sul referendum, su cui attualmente l’opposizione si sta battendo per costringere il Presidente Maduro alle dimissioni, e che trovate qui di seguito.

Stay tuned
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Esercito e popolo, difesa pacifica ma “integrale”

di Geraldina Colotti – il manifesto

21mag2016.- I manifestanti avanzano, un muro di scudi in plexiglas li controlla, ma le forze dell’ordine non reagiscono. Qualcuno scavalca gli scudi appoggiandosi sulle spalle dei militari, scarta di lato, viene allontanato. In Venezuela, l’opposizione cerca di raggiungere il centro di Caracas e la sede del Consejo Nacional Electoral (Cne). Il Cne sta esaminando le firme che dovrebbero mettere in moto la prima fase del referendum revocatorio (possibile a metà mandato per tutte le cariche politiche elette), per deporre il presidente Nicolas Maduro. L’opposizione preme per accelerare i tempi e accusa il Cne di parzialità. Per evitare devastazioni, il Comune non ha autorizzato il percorso richiesto e la Mesa de la Unidad Democratica (Mud) ha deciso di sfilare nei quartieri agiati della capitale, suoi bastioni.

Nei pressi di un ponte, la scena cambia. Un gruppetto mascherato, armato di spranghe e bastoni, ha isolato due giovani agenti, e attacca: la poliziotta perde l’equilibrio, cade, il gruppo colpisce e colpisce, prima che alcune persone intervengano. Un cronista filma la scena e la posta sulle reti sociali. Così le componenti oltranziste dell’opposizione venezuelana contano di rimettere in moto le violenze di piazza che, nel 2014, hanno provocato 43 morti (in maggioranza fra le forze dell’ordine, uccisi con colpi di arma da fuoco) e oltre 850 feriti. Intanto, le destre in colletto bianco moltiplicano le interviste sui grandi media Usa ed europei e chiedono l’intervento della “comunità internazionale”. L’ex candidato delle destre Henrique Capriles, battuto prima da Chavez e poi da Maduro, parla di un possibile “colpo di stato interno” e invita le Forze armate a scegliere “tra la costituzione e Maduro”, modulando al nuovo contesto il copione giocato nel 2013, quando il suo appello a “sfogare la rabbia” provocò 11 morti chavisti e milioni di danni alle strutture pubbliche, e poi nel 2014, quando – durante la campagna “la salida”, lanciata dalle destre più estreme (Lopez, Machado, Ledezma) – ha mantenuto il classico piede in due scarpe.

In una conferenza internazionale interattiva, durante la quale sono intervenuti ospiti dalle ambasciate accreditate in tutto il mondo, Maduro ha denunciato l’attacco concentrico che soffre il suo governo e il ruolo dei grandi media, che diffondono un “format” adatto a preparare aggressioni militari come in Libia. Per due volte – ha detto – aerei di ricognizione bellica provenienti dagli Usa hanno violato lo spazio di difesa venezuelano.

In questi giorni, si stanno svolgendo operazioni militari di “difesa preventiva e integrale”, che coinvolgono sia le Forze armate che le organizzazioni popolari. Presenti numerosi aggregati militari di altri paesi, anche europei. Il generale Vladimir Padrino Lopez, ministro della Difesa, ha spiegato il carattere delle operazioni e lo spirito che anima l’”unione civico-militare”, ossatura dello stato bolivariano: “Una simbiosi perfetta tra lotta armata e non armata per la difesa integrale delle conquiste sociali garantite dalla nostra Costituzione. Una dottrina pacifica del popolo organizzato.” Ieri, in tutto il paese si è svolta una giornata dimostrativa “di prevenzione delle imboscate”. Insieme ai militari, anche le milizie popolari, sorta di servizio volontario dei cittadini che si dispiegano in tutti i settori sociali e che agiscono come funzione di complemento alle Forze armate. In campo anche i Consigli comunali, le milizie operaie “delle imprese socialiste integrate” e i comitati che animano la vita e l’organizzazione delle Comunas. “Siamo qui per dire alla destra che non arretreremo di un centimetro nella difesa delle conquiste sociali realizzate in questi anni, e che il popolo è preparato psicologicamente, socialmente e militarmente”, dice una leader comunitaria. Dal Tachira, stato di confine e zona di infiltrazione del paramilitarismo colombiano, un’altra chavista, esponente dei comitati per la difesa della Mision Vivienda (case popolari), spiega: “ Questa è un’attività di prevenzione di qualunque attività controrivoluzionaria. In questi otto anni di esistenza della milizia popolare abbiamo imparato a svolgere azione di intelligence comunale, di vigilanza alle centrali elettriche e agli stabilimenti commerciali. L’unione civico-militare è una dottrina pacifica del popolo organizzato. Prima della difesa con le armi, viene quella del convincimento e delle idee. Non è tempo di tradimento, ma di lealtà”.

E intanto, non si placa la polemica tra Maduro e il capo dell’Osa, Luis Almagro, che vuole sanzionare il Venezuela. E martedì alle 16,30 a Roma, la Rete Caracas ChiAma organizza una manifestazione di sostegno alla rivoluzione bolivariana (Viale Parioli, angolo via Secchi).

Il Venezuela non sarà il nuovo Iraq

di Fabio Marcelli – ilfattoquotidiano.it


Altro che referendum revocatorio nei confronti del presidente  Nicolas Maduro. Consapevole delle crescenti difficoltà che comporta una scelta del genere, dettagliatamente regolamentata dalla
Costituzione bolivariana (art. 72), che pone precisi requisiti in termini di firme da raccogliere e di voti da esprimere, evidentemente fuori dalla portata della destra di opposizione, i leader di quest’ultima stanno rivolgendo chiari appelli agli Stati Uniti affinché intervengano militarmente contro il governo chavista. Il “la” al vergognoso coro di invocazioni della guerra l’ha dato un professionista dei crimini contro l’umanità come l’ex presidente colombiano Uribe.

D’altronde bisogna capirlo, il raggiungimento dell’agognato accordo di pace fra governo colombiano e Farc lo metterebbe fuori gioco, con la prospettiva di finire addirittura di fronte alla Corte penale internazionale per i suoi molteplici misfatti. Quindi tanto vale tentare di buttarla in caciara dando fuoco a tutta l’area. Sulla scia di cotanto campione della pace e della democrazia si sono succedute le querule richieste di aiuto di vari esponenti della destra venezuelana.

Gli Stati Uniti del resto, pur consapevoli delle difficoltà e dei rischi di un intervento militare, non si lasceranno certo scappare tanto facilmente un’occasione d’oro di rimettere le zampe su uno dei principali giacimenti petroliferi del mondo. In tale ottica vanno lette scelte apparentemente incomprensibili, come quella di dichiarare il Venezuela una minaccia per gli interessi e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Come pure gli ingenti finanziamenti all’opposizione venezuelana, compresa la sua ala militare e l’utilizzo di apparati sofisticati di intercettazione e controllo come il Boeing 707 E-Sentry, che negli ultimi giorni ha violato più volte illegittimamente lo spazio aereo venezuelano. Più o meno nella stessa logica di ingerenza negli affari interni venezuelani si situano i patetici tentativi di riesumare un’organizzazione oramai fortemente delegittimata come l’Organizzazione degli Stati americani applicando la sua cosiddetta “Carta democratica“, che tuttavia si spinge al massimo fino a prevedere la sospensione dello Stato in cui si registrino violazioni della democrazia con voto dei due terzi degli Stati membri.

A dir poco buffo appare il fatto che il segretario di tale moribonda organizzazione, tale Almagro, iperattivo sulle vicende venezuelane, si sia limitato, per quanto riguarda la situazione brasiliana, a invocare con scarso successo il parere consultivo della Corte interamericana dei diritti umani; questo nonostante il fatto che in tale ultimo paese, a seguito del golpe giudiziario e parlamentare contro Dilma Rousseff, dovrebbe governare per lungo tempo un vicepresidente come Temer, notoriamente corrotto e appoggiato da un’irrisoria percentuale della popolazione. Tornando al Venezuela, il meccanismo dell’invasione è stato già messo in moto da tempo. Si parla al riguardo anche dei contingenti statunitensi già stanziati in Honduras, il paese dove ha avuto inizio, con l’illegittima destituzione del presidente Zelaya, la serie dei golpe più o meno blandi contro i presidenti democratici restii ad avallare la tradizionale subordinazione dell’America Latina a Washington. L’ultima tappa è stato il vero e proprio golpe giudiziario e parlamentare dei corrotti contro la presidente brasiliana Dilma Rousseff.

L’intervento militare statunitense contro il Venezuela bolivariano e chavista rappresenterebbe la ciliegina sulla torta di questa strategia di riconquista. Alla faccia ovviamente, come al solito, di qualsiasi principio giuridico internazionale. Si può ovviare con una massiccia campagna mediatica che vede schierati i pezzi forti della stampa dell’establishment, a partire dal New York Times eWashington Post. Per creare un clima adeguato, i settori violenti dell’opposizione vogliono rilanciare la guarimba, la campagna di disordini che fece 43 vittime due anni fa, tra le quali molti poliziotti o passanti casuali, uccisi da colpi di arma da fuoco o decapitati dai fili di ferro messi dai guarimberos per bloccare le strade. Continua inoltre la guerra economica, imboscando i beni di prima necessità e sabotando i servizi sociali fino al punto di incendiare, come è stato fatto in varie occasioni, gli asili nido e i centri di salute.

Questa strategia irresponsabile punta in sostanza a trasformare il Venezuela in un nuovo Iraq e tutta l’area caraibica in un nuovo Medio Oriente. Laddove non è in grado, e sempre meno lo è, di produrre egemonia e consenso, l’imperialismo dominante diffonde a piene mani sanguinaria destabilizzazione. Forte del consenso ottenuto alle elezioni di dicembre, l’opposizione avrebbe potuto imboccare la strada dell’unità nazionale e della leale collaborazione per risolvere i problemi economici del paese. Sarebbe stato peraltro troppo pretendere un atteggiamento responsabile nei confronti del popolo da oligarchi abituati a considerare sempre ed esclusivamente prioritari i propri interessi di bottega, a costo di sacrificare perfino un’indipendenza e sovranità nazionale delle quali in fondo non sanno proprio che farsene, data la limitatezza della loro visuale e la loro innata propensione alla servitù incondizionata nei confronti di Washington.

La prospettiva, quale che sia il vincitore alle prossime elezioni presidenziali statunitensi (con l’eccezione, peraltro purtroppo improbabile, di Bernie Sanders) è quella di scatenare una nuova guerra d’aggressione, stavolta vicino casa. Del resto l’abbondante petrolio venezuelano merita uno sforzo supplementare. Vittime predestinate di questo avventurismo sarebbero ovviamente il popolo venezuelano e la pace mondiale. Occorre quindi sperare che si fermi questa spirale verso la guerra, il che può avvenire solo, come ha dichiarato Maduro, con una ripresa ed estensione delle lotte popolari in Venezuela e in tutta l’America Latina, per una nuova fase della rivoluzione democratica, che superi i limiti di vario genere fin qui sofferti.

Ecosocialismo: un fondamentale della Rivoluzione bolivariana

di Marinella Correggia – lantidiplomatico.it

 
Miguel Angel Núñez dirige l’Istituto universitario latinoamericano di agroecologia Paulo Freire, creato a Barinas in Venezuela nel 2008. E’ autore dei saggi Venezuela Ecosocialista e Vivir despierto entre los cambios sociales oltre a moltissimi articoli in tema di agroecologia, modelli di sviluppo, giustizia ecologica. Gli abbiamo rivolto alcune domande, di fronte a un contesto preoccupante, con il Venezuela nel mirino. Continua la guerra economica promossa dalle oligarchie nazionali e internazionali. Continuano gli attacchi da parte della dittatura mediatica. La destra fascista venezuelana organizza il referendum revocatorio contro il presidente Nicolas Maduro. Un documento del Comando Sud degli Stati Uniti rivela il micidiale piano golpista del Pentagono per destabilizzare e rovesciare la Rivoluzione bolivariana. E l’ex presidente colombiano Uribe praticamente invoca un golpe…
 
Miguel Angel, il tuo più recente articolo è sull’Utopia venezuelana che può e deve resistere all’intervento golpista dall’esterno e al sabotaggio dall’interno…

 
L’utopia che stiamo costruendo fra grandi difficoltà non è rinviabile ed è inarrestabile. Non la fermeranno le manovre politiche, i sabotaggi economici, gli assassini paramilitari, le minacce di intervento militare da parte di sedicenti «forze armate democratiche del continente». L’impero e i suoi narco-ambasciatori, gli Uribe, i González, gli Aznar in compagnia dei messaggeri anti-patrioti pensano di spaventarci con questa «minaccia inusuale» ma il popolo venezuelano è deciso a difendere la patria. Non possiamo sottovalutare il potere dell’impero, né sopravvalutare il nostro. Semplicemente, il popolo di Chávez è pronto. Del resto, con tutto il loro potere, non sono riusciti a sconfiggere i popoli del Vietnam, di Cuba, dell’Afghanistan, della Siria, dell’Iraq. Certo, queste forze sfruttano a proprio vantaggio i nostri errori, lentezze, irresponsabilità; e gli atteggiamenti antirivoluzionari. Gli infiltrati parlano di «raschiare la pentola» e con l’opposizione reclamano la «riconquista delle terre» che erano state cedute ai contadini… 
 
Eppure, in un contesto di minacce golpiste ed emergenze economiche, il Venezuela sta sviluppando migliaia di esperienze di autoproduzione agroecologica. Nel silenzio dei grandi media. Che cosa sta succedendo, quasi i protagonisti della riscossa agricola?
 
La creazione del Ministero dell’agricoltura urbana fa parte della promozione del motore agroalimentare, uno dei 14 messi in… moto per affrontare la grave crisi economica che stiamo vivendo. Il Ministero ha iniziato a lavorare lo scorso mese di febbraio con l’obiettivo di avviare unità produttive agroecologiche a decine di migliaia. Inizialmente si pensava a 8 città del paese per un totale di 1200 ettari, ma siamo già arrivati a seminare e piantare su 2800 ettari. L’idea è arrivare a coprire il 25% del consumo di ortofrutta. Gli spazi coltivati sono piccoli, non fanno ricorso a sostanze chimiche. Ovviamente abbiamo anche esperienze produttive agroecologiche di grandi dimensioni in vari Stati del Venezuela: a Mérida le patate e l’ortofrutta, a Barinas altri tuberi, cereali e frutta, a Portuguesa caffè e cereali.Vogliamo incrementare e consolidare le produzioni agroecologiche. Si tratta di produrre, innovare e ricercare, sostituendo l’agricoltura di sintesi con le ecotecnologie. Sono coinvolti nel processo diversi ministeri, università e molte famiglie contadine e urbane. Fino ad alcune settimane fa, erano state censite 25.000 unità produttive per un totale di 121.000 persone.
 
Il concetto di «ecosocialismo» è del tutto ignorato in Occidente, mentre in Venezuela c’è un ministero per l’ecosocialismo. E c’è una struttura statale dedicata all’agroecologia: l’Istituto che tu dirigi. E poi, il potere popolare punta sul sistema delle comunas. Quali sono i collegamenti fra le tre entità, ricordando che anni fa il presidente Maduro sottolineò come le comunas debbano essere produttive ed ecosocialiste?

La società venezuelana deve creare nuove organizzazioni sociali di produzione. L’obiettivo finale è la formazione e il consolidamento delle comunas. Per produrre alimenti, si spera, e per risolvere diversi problemi, aumentare la partecipazione popolare e la produzione di conoscenza. E’ uno dei modi per superare il perverso rentismo petrolifero con una nuova economia stabilmente centrata sullo sviluppo umano e sociale, come chiedono la nostra Costituzione e la Legge del Plan Patria. E’ una delle sfide principali per il  nostro popolo: superare l’incapacità produttiva e la pigrizia sociale, grazie a un miglior coordinamento e articolazione delle forze produttive. Questi legami aiuteranno ad avviare processi produttivi. Sta crescendo una nuova eco-etica, che cerca di costruire definitivamente una nuova società possibile e ci chiede di sradicare i vizi del passato.
 
In un paese tuttora estrattivista e vittima di una guerra economica, con l’esperienza delle penurie, l’agroecologia potrebbe aiutare a salvare la rivoluzione bolivariana? Hai anche detto che l’estrattivismo è un ostacolo per l’ecosocialismo.

Sì. L’estrattivismo è il peso storico, economico-sociale del Venezuela. Ci ha condannati a dipendere dalla rendita, ci ha spinti a un consumismo esasperato e a un’estesa corruzione. Per questo, con forza e determinazione alcuni settori fanno proposte ecoproduttive che diano forma alla proposta ecosocialista. L’agroecologia è una di queste. Siamo sicuri che aiuterà molto il motore agroalimentare. L’attività agricola deve essere centrale nel dinamizzare l’economia di un paese e di una società. Alla costruzione di una proposta sostenibile ci impegna il quinto obiettivo storico della Legge Plan Patria: preservare il pianeta Terra e salvare la specie umana. L’ecosocialismo è la proposta di costruzione di un nuovo modello di civiltà. E’ uno spazio in continua costruzione nel quale si articolano diversi processi di transizione e trasformazione sociale, economica, scientifica, tecnologica e politica in grado di portarci a nuovi rapporti sociali e di produzione.
 
La rivoluzione bolivariana guidata da Hugo Chávez in pochi anni riuscì a cambiare le strutture, le leggi, la politica, in parte l’economia del paese, ad appoggiare il cambiamento in un intero continente; ma solo una parte del popolo venezuelano ha interiorizzato una cultura rivoluzionaria, malgrado lo sforzo pedagogico del governo. In Occidente la stragrande maggioranza della popolazione è rovinata da decenni di consumismo fatuo e individualismo sistemico, ma in Venezuela? E’ possibile dire ai venezuelani – e in tempo di crisi – «non imitate l’Occidente»? 

La rivoluzione chavista ha avuto e credo abbia tuttora una legittimazione nella transizione verso l’ecosocialismo. Non c’è un’altra proposta politica e per la vita del nostro paese. La rivoluzione chavista ha gettato le basi per la creazione di un nuovo tessuto sociale. Ma in questo momento di crisi economica e sociale, possiamo notare un pericoloso sviamento da parte di alcuni settori, verso i dis-valori: individualismo, consumismo, incompetenza, burocrazia, corruzione. Un modello ego-ideologico perverso di matrice capitalista sta paralizzando le forze del cambiamento. E sembra imporsi nell’attualità. Ma certo, possiamo invertire la tendenza all’individualismo e alla corruzione, che alcuni adesso chiamano tendenza culturale – una follia, no? Per superare questa condizione nefasta e complessa dobbiamo impegnarci a capire le radici della crisi e le sue problematiche. Ogni giorno appare più evidente che la natura redditiera del capitalismo globale è insostenibile: dal punto di vista sociale, ecologico e finanziario. Conosciamo bene queste connessioni? Alcuni settori e responsabili politici, no. E’ dunque necessario formarci, studiare, ricercare: per saper ristrutturare le norme e le istituzioni che governano la globalizzazione, per dare impulso a un’agroecologia sostenibile e introdurre le innovazioni necessarie. Questo ci aiuterà a creare un nuovo tessuto sociale vitale capace di ridisegnare strutture fisiche, città, tecnologie, industrie. Verso l’ecosostenibilità. E se da una parte dobbiamo chiederci ogni giorno che cosa vale la pena comprare e quanto ci durerà, dall’altra dobbiamo iniziare a creare ecotecnologie che sostituiscano quelle inefficienti che ci hanno creato problemi sociali e ambientali. Abbiamo gente giovane, molta informazione e risorse tecnologiche adatte. Dobbiamo andare avanti nella costruzione di una nuova volontà politica. E’ una lotta planetaria; per questo ora più che mai dobbiamo affratellarci nelle lotte per la giustizia sociale e ambientale. 
 
Il Venezuela ha giocato un ruolo importante – molto apprezzato dagli attivisti frustrati dell’Occidente! – nella geopolitica mondiale, per la costruzione di un asse di solidarietà e pace nella resistenza all’egemonia belligerante nordamericana. Come evitare che si perda?
 
Il presidente Hugo Chávez ebbe la modestia e la capacità di riconoscere un ruolo importante e senza precedenti ai movimenti sociali e rivoluzionari del mondo. Ha dato loro forza, motivazione, ha dato loro uno spazio politico. Fra i risultati c’è stata la legge Plan Patria e il quinto obiettivo storico: contribuire a preservare la vita sul pianeta e a salvare la specie umana. Noi rivoluzionari patrioti non possiamo permettere che il processo torni indietro. Non è la stessa cosa ripetere e manipolare l’eredità di Chávez e saperla interpretare. Perciò lo stesso presidente Maduro ha sollecitato in modo chiaro ed energico il Congresso della Patria ad andare avanti in una nuova egemonia culturale che superi le diverse debolezze di cui il nemico ha saputo approfittare. Se non superiamo i modelli ego-ideologici dell’individualismo, del consumismo, della burocrazia e della corruzione corriamo il rischio di ostacolare o far arretrare il processo di costruzione dell’ecosocialismo. Ma sono sicuro che emergerà una nuova volontà politica.

Donne della Rete “Caracas ChiAma” contro il golpe in Brasile

da Rete Caracas ChiAma

Le donne della Rete di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana “Caracas ChiAma”, esprimono la loro solidarietà alla presidente del Brasile, la compagna Dilma Rousseff, deposta con da un golpe parlamentare – giudiziario che ha cambiato radicalmente la fisionomia del governo.

Con 55 voti i senatori sono passati sopra la volontà di quasi 55 milioni di brasiliani che avevano riconfermato Dilma e 13 anni di governi progressisti. Dilma è stata messa sotto accusa per essere coinvolta indirettamente nell’inchiesta “Lava Jato” dagli stessi parlamentari coinvolti direttamente nello scandalo, e per illeciti amministrativi non considerati gravi da insigni giuristi.

La “pedalata contabile” che le viene contestata è infatti prassi usuale, servita non per interessi personali, ma per poter continuare a finanziare i programmi di aiuto alle famiglie, il “Bolso Familia”. Un colpo di stato che assume i connotati di un femminicidio politico, con cui i settori più reazionari delle oligarchie legate agli Usa piegano il paese agli interessi dell’imperialismo.

Il nuovo governo, formato dal vice Temer, anch’egli indagato per corruzione, riciclaggio, tangenti Petrobras e condizionamento dei procedimenti a suo carico nell’inchiesta “Lava Jato”, è infatti esclusivamente composto da uomini bianchi, eterosessuali, ricchi e oligarchi. Viene immediatamente cancellato il ministero Parità di Genere, Uguaglianza Razze e Diritti Umani che diventa di competenza del ministero Giustizia e Cittadinanza, a cui fa capo il personaggio che aveva soppresso nel sangue le manifestazioni degli studenti, Alexandre de Moraes. Il ministero dell’agricoltura passa al magnate della soja, Blairo Maggi, un oligarca indagato per corruzione, responsabile della deforestazione dell’Amazzonia. Il ministero dell’Economia a Heinrique Meirilles, un banchiere già presidente del Banco di Bosto e del Banco Central.

Un governo sessista, razzista, di oligarchi che non rappresenta il popolo brasiliano, né ne è legittimato. Temer rappresenta appena il 2% dell’elettorato, con un governo nuovo espressione della destra già bocciata dal popolo alle scorse consultazioni, che annuncia misure neoliberiste e lo smantellamento delle conquiste sociali degli ultimi anni: riduzioni dei programmi sociali, privatizzazioni, apertura ai capitali internazionali, riforma del lavoro e delle pensioni, eliminazione dei programmi di integrazione di indios e neri nelle scuole e università. Misure antipopolari che un governo eletto non avrebbe potuto compiere.

Un colpo di stato orchestrato dalle forze imperialiste, che tentano di re-impossessarsi del continente Latino Americano, smantellare le conquiste sociali e gli organismi di cooperazione fra i popoli: Alba, Celac, Mercosur. Il passaggio dei poteri alle destre in Brasile fa parte della controffensiva imperialista volta a distruggere i governi progressisti che hanno consentito la liberazione dei popoli, e la loro sovranità, indipendenza e autodeterminazione, per restaurare il dominio yankee sul continente e riconsegnarlo alla dottrina Monroe e alla condizione di “cortile degli Usa”.

Non a caso Macri è stato il primo a congratularsi con Temer, la Mud ha affermato di voler fare come in Brasile e Uribe ha invocato l’intervento armato in Venezuela. A questa controffensiva la risposta dei leader progressisti sta nel potere al popolo. In tutta risposta Maduro ha infatti ha dchiarato che esproprierà le fabbriche degli imprenditori improduttivi, che boicottavano l’economia bolivariana, consegnandole ai CLAP, comitati locali di approvvigionamento e produzione, radicalizzando la rivoluzione. Contro l’offensiva in Brasile, l’ex guerrigliera e Lula dovranno radicarsi sui movimenti, Sem Terra, Frente do Povo Sem Medo, Frentre Popular do Brasil, che da venerdì sono nelle piazze, assieme alle femministe brasiliane, mobilitate in massa per dire no al golpe, no al sessismo e al razzismo, no all’imperialismo.

Noi donne della rete Caracas Chiama, femministe, antirazziste, anticapitaliste e antimperialiste, a sostegno delle lotte di liberazione dei popoli, diciamo fuori i golpisti, avanti Dilma, avanti con le conquiste sociali!

Maduro: «Occupiamo le fabbriche»

di Geraldina Colotti – il manifesto

Venezuela. L’ex presidente colombiano Uribe invita gli Usa all’intervento militare. Trovate armi alla frontiera
16mag2016.- «Fabbrica bloccata, fabbrica occupata dal popolo». Parola di Nicolas Maduro. Il presidente del Venezuela lo ha ribadito davanti a migliaia di manifestanti – consigli comunali, comunas, organizzazioni territoriali – che appoggiano «il quinto motore dell’economia socialista»: uno dei 15 proposti dal governo chavista per uscire dalla crisi, e inquadrati da un decreto di emergenza, rinnovato per 60 giorni. Misure nuovamente respinte dall’opposizione, che ha la maggioranza in Parlamento dal 6 dicembre, e che preme per accelerare il referendum revocatorio contro Maduro.

Sabato, i partiti che compongono la Mud – un arco che va dal centro-sinistra della IV Repubblica all’estrema destra – hanno organizzato a Caracas una manifestazione concomitante a quella chavista e ne hanno indetta un’altra per domani a livello nazionale. L’obiettivo è quello di «fare come in Brasile», deponendo il presidente prima dello scadere del mandato: nel solco di quanto accade con Dilma Rousseff, che sta affrontando un processo di impeachment.

La Costituzione bolivariana – votata con ampia maggioranza nel 1999 dopo un’Assemblea costituente che ha accolto molte proposte dell’opposizione – prevede la possibilità di revoca per tutte le cariche elettive a metà mandato: occorre però rispettare i passaggi e i tempi previsti, e la supervisione del Consejo Nacional Electoral (Cne). Così avvenne per il tentativo di revocare Hugo Chavez, nel 2004. Allora, l’opposizione perse, ma questa volta conta di approfittare del ritorno delle destre nel continente latinoamericano, e non disdegna l’uso di modi più spicci. Già nel 2014, i settori oltranzisti della Mud hanno organizzato la campagna «la salida» (l’espulsione), per cacciare con la forza Maduro dal governo. Il risultato fu di 43 morti – quasi tutti per colpi di arma da fuoco e tra le forze dell’ordine – e oltre 850 feriti.

Nonostante sabotaggi, campagne di discredito internazionale e un paese spaccato («polarizado», come dicono in Venezuela), il governo, però, ha tenuto: forte di un consenso popolare fra i settori meno favoriti, a cui continua a dedicare oltre il 70% delle entrate annuali. Il Cne sta inserendo nel sistema informatico le firme raccolte per avviare la procedura di referendum, in modo che ogni cittadino potrà verificare di persona la legalità del percorso. Dal 18 maggio al 2 giugno si procederà poi alla verifica, alla presenza di testimoni delle due parti. Se le firme raggiungono almeno l’1% degli aventi diritto, il Cne apre le consultazioni a livello nazionale.

In tre giorni, l’opposizione dovrà allora raccogliere il consenso del 20% dei 3,9 milioni di iscritti al registro elettorale. La verifica delle firme dovrà avvenire in tre giorni. Se il quorum è raggiunto, il referendum va convocato entro 90 giorni lavorativi. Per revocare Maduro, occorre un numero uguale o superiore ai voti raccolti dal presidente, ovvero almeno 7.587.532, e serve la partecipazione di almeno il 25% degli aventi diritto (circa 4.900.000 persone). Per tutto questo, si calcola che occorreranno 170 giorni lavorativi, il che porterebbe il referendum a gennaio del prossimo anno. La legge prevede che, se al presidente restano due anni per arrivare a scadenza, non si va a nuove elezioni, ma conclude il mandato il vicepresidente Aristobulo Isturiz, politico proveniente dai movimenti popolari e fautore delle «comunas».

In campagna elettorale, l’attuale presidente del Parlamento, Ramos Allup, aveva promesso di «farla finita con le code in 15 giorni». E di certo avrebbe potuto senz’altro migliorare le cose, visto che gran parte del sabotaggio e del mercato nero (di alimenti sussidiati e di dollari incamerati dalle grandi imprese senza ritorno produttivo) deriva dai terminali della Mud. Invece, ha seguito le proprie ossessioni (cacciare Maduro, amnistiare golpisti e faccendieri) e ha provato a mettersi sulla strada di Macri in Argentina e ora di Temer in Brasile. Ha licenziato una legge di amnistia, bocciata dal Tribunal Supremo de Justicia, e provato a consegnare alle imprese immobiliari il vasto piano di case popolari sviluppato dal governo, ma è stato respinto da poderose manifestazioni. Secondo i sondaggi, oltre il 60% dei cittadini ha capito l’antifona e ritiene inefficace l’attività parlamentare della Mud.
«È arrivata l’ora. Io sono pronto, ministri, compagni… sono pronto a consegnare al potere comunale le fabbriche chiuse da qualunque parruccone di questo paese», ha detto Maduro agli operai delle grandi imprese private. In base alle ferree leggi del lavoro, si può sospendere la produzione solo in presenza di situazioni catastrofiche, previste dall’articolo 72. E a quello vuole rifarsi il miliardario Lorenzo Mendoza, proprietario della grande impresa Polar. Intanto, si è fatto sentire l’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, padrino del paramilitarismo, che ha invitato gli Usa a intervenire militarmente in Venezuela «per appoggiare l’opposizione». E nel Tachira, alla frontiera con la Colombia, sono state scoperte armi e bombe e arrestati dei paramilitari.

¡Sin Mujeres no hay Revolución!

IV Incontro italiano della Rete di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana

Tavolo di lavoro sul femminismo rivoluzionario e il potere popolare

“Caracas ChiAma”

¡Sin Mujeres no hay Revolución!

Lecce 15, 16, 17 aprile 2016


La Rete “Caracas ChiAma”, in occasione del Quarto Incontro Italiano di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana, ha dedicato uno dei suoi tavoli di lavoro al tema “femminismo rivoluzionario e potere popolare”, per esaminare il rapporto tra questione di genere e conflitto sociale attraverso il confronto tra i movimenti femministi e LGBTQI dell’America Latina e quelli del nostro paese. Il tavolo ha avuto una straordinaria partecipazione di donne e uomini, riuscendo a coinvolgere diverse realtà locali, come la Casa delle Donne, associazione Lea, progetto Libera, Aamad, Donne in nero, Forum de las Mujeres Latinoamericanas venute appositamente per confrontarsi con la rete.

Presenti anche la giornalista Geraldina Colotti, Adelmo Cervi, Maddalena Celano dell’Università Roma 3, e femministe dell’ex OPG. Ha coordinato la scrittrice e attivista Isabella Lorusso, agevolata da Ada Donno, della Casa delle Donne, già relatrice durante i lavori della mattina, e Clara Statello, per la Rete nazionale Noi Saremo Tutto, promotrice del tavolo.

I lavori sono stati dedicati alla memoria di Berta Caceres, alle donne che combattono in Novorossja, contro il regime nazista ucraino, e in Kurdistan e Siria contro l’Isis, e a Milagro Sala, prigioniera politica del regime di Macri in Argentina.

Attraverso il confronto delle esperienze emerse dai vari interventi, si è delineata una tavola dei problemi: in Italia, a causa della sconfitta delle lotte sociali nel punto più alto del conflitto, col passaggio dal ‘900 al nuovo millennio si è avuta una rottura, che ha causato una frammentazione in varie istanze e aspetti della questione di genere, trattata come una questione separata dalla libertà per tutte e tutti, dal superamento di tutte le forme di subalternità e marginalità sociale.

Questo mentre in America Latina, con le lotte che hanno portato alla vittoria dei governi progressisti, veniva posta la questione del potere, inteso come poter fare, come potere del popolo di autoderminarsi decidendo della propria organizzazione politica, sociale e economica, di essere il soggetto della propria storia, proprio riconiugando la questione della liberazione di tutte e tutti con la libertà della donna a ogni livello sociale.

Le presenza delle donne e dei movimenti di genere ha caratterizzato e determinato le trasformazioni radicali emancipative dell’America Latina: nella resistenza ai regimi fascisti, nelle lotte indigene e ambientaliste, nelle rivoluzioni e nella costruzione del potere popolare. Le donne si sono liberate partecipando alla liberazione della società, diventando soggetto (storico e sessuato) di processi radicali che liberano la società dalla subalternità dalla sfera produttiva (dall’oppressione di classe e etnica) sino alla sfera riproduttiva (dall’oppressione di genere).

I diritti civili avanzano assieme ai diritti sociali, nella costituzione di società più giuste e umane, che dalle differenti sensibilità di genere vengono arricchite. La questione di genere si interseca con la questione di classe nella sua vocazione di liberazione della società dalla subalternità ad ogni livello. Il conflitto di genere è un conflitto sociale e ha una portata rivoluzionaria.

Per questa ragione senza la partecipazione delle donne la società non si libera, senza le donne non c’è rivoluzione! Si pensi a Cuba. Prima della rivoluzione le donne vivevano una condizione di emancipazione limitata e limitante. Si trattava di un femminismo liberale che garantiva l’uguaglianza sulla base all’appartenenza al gruppo etnico-sociale dominante.

Con la rivoluzione, la liberazione è diventata una condizione di tutte le donne, con l’uguaglianza sociale, l’uguaglianza di genere è diventata effettiva per tutte, permettendo anche alle donne delle classi subalterne di uscire dalla marginalità, di rompere gli schemi patriarcali che riservavano alla donna le attività domestiche, escludendola dai processi sociali. Il lavoro della Federazione delle Donne Cubane, promuovendo la partecipazione alle attività sociali e politiche, ha permesso la fuoriuscita dalla subalternità. Ha promosso una battaglia culturale all’analfabetismo. L’integrazione è stata raggiunta grazie a un mix di politiche sociali e culturali. Adesso Cuba, grazie al Cenesex, conduce una lotta all’omofobia, sensibilizza verso i differenti orientamenti sessuali, nella direzione di superare le ultime eredità machiste della società pre-rivoluzionaria. Quella di Cuba è una rivoluzione nella rivoluzione. Nel Venezuela bolivariano l’uguaglianza di genere è alla base del potere popolare.

Non può esistere uguaglianza sociale senza uguaglianza di genere e senza il riconoscimento delle differenti identità sessuali. Un’uguaglianza di ruoli all’interno dei processi di trasformazione sociale, basata sul riconoscimento della donna come “motore e asse delle trasformazioni sociali”, che si declina sia nella sfera privata che pubblica, come riconoscimento della donna della libertà di autodeterminarsi, di scegliere il proprio ruolo sociale. Libertà che il governo bolivariano garantisce grazie al lavoro di istituzioni come il Ministero del Potere Popolare per la donna e l’uguaglianza di genere o l’Istituto Nazionale della donna, che promuovono l’integrazione sociali e l’attività politica delle donne, con le missioni per le donne in condizione di miseria, come la Missione Madres del Barrio, con politiche previdenziali che tutelano il lavoro domestico e sociale, per la creazione di asili, mense, etc.

In paesi come l’Ecuador, la liberazione della donna si fonda sul principio del buen vivir, un paradigma di progresso differente da quello liberale/capitalista, per cui solo se aumenta il benessere della base, cresce il benessere dell’intera società, benessere per tutte e tutti. L’uguaglianza di genere converge con l’idea di progresso: il riconoscimento delle differenti identità e sensibilità sessuali e dei diritti civili è un avanzamento per tutta la società.

Nel continente latino americano i movimenti femministi e di genere avanzano, agendo sui cambiamenti della società, determinando rapporti sociali che superano la subalternità di classe e genere, contaminandosi con la cultura indigena. Un femminismo intersezionale, in cui il conflitto di genere si interseca con quello etnico e di classe, e si risolve superando il conflitto sociale. Al modello latinoamericano si ispirano anche altri popoli in lotta, come i Curdi. Così come a Cuba, i movimenti e le forze armate delle donne dell’YPJ sono integrati nei consigli comunali e amministrativi, partecipano al potere decisionale. Paesi come Cuba, Venezuela, Nicaragua, Bolivia, Ecuador e Uruguay, non si sono limitati a integrare la donna nelle attività produttive e politiche, ma hanno promosso la produttività e la partecipazione politica integrando le organizzazioni femminili e femministe all’interno delle istituzioni.

In Italia invece, nonostante le conquiste ereditate dalle lotte dei movimenti femministi degli anni ’70, donne, omosessuali, trans soffrono di una sempre maggiore marginalità e esclusione. Con l’esclusione delle masse popolari dai processi di trasformazione sociale, i movimenti femministi e di genere si ritrovano fuori dal conflitto sociale, non riuscendo perciò a intervenire sui cambiamenti reali. La subalternità del patriarcato si riproduce senza ostacoli, il conflitto di genere viene disinnescato.

Assieme all’ineguaglianza sociale, dovuta all’arretramento dei diritti sociali, si riproducono i ruoli patriarcali, cresce l’omofobia e il sessismo medievale contro omosessuali e donne. In questo clima trovano spazio manifestazioni come il Family Day, dove esponenti di gruppi cattolici tradizionalisti sfilano con i fascisti, per negare i diritti degli omosessuali e la libertà delle donne di scegliere del loro corpo e ruolo sociale. Una tendenza di senso opposto, incompatibile e inconciliabile con i principi del socialismo umanista bolivariano, che invece si costruisce sul riconoscimento delle differenti soggettività sessuate, centro di processi di trasformazione radicale.

Un umanesimo che non nega le differenze, ma che delle differenze si nutre, nel suo percorso di costruzione di una società più equa, più giusta e determinata dalla masse. D’altro canto ormai, l’ingerenza del Vaticano sulla politica interna, in materia di diritti civili e etica, non trova più l’opposizione di quei movimenti di piazza, che raccoglievano le aspirazioni di laicità dello stato e difendevano diritti come aborto (di fatto attualmente negato dall’obiezione di coscienza), fecondazione assistita, ricerca sulle staminali, etc. Il campo viene lasciato al bigottismo fascistizzante dei gruppi più reazionari, che oppongono alla disgregazione della società capitalista il modello di famiglia patriarcale. L’oppressione di genere si riproduce in quella di classe.

Nel mondo del lavoro, le donne soffrono una condizione di subalternità, causata dalla maggiore precarietà, salari più bassi, negazione di diritti come la maternità, sino alle molestie sessuali dei superiori e all’assunzione condizionata dall’aspetto fisico, spesso requisito per determinate mansioni. Così, nelle classi più marginalizzate, le donne vivono una condizione vera e propria di schiavitù, come tra le donne migranti sottoposte a tratta. A questo proposito nel dibattito è emersa l’esperienza del progetto “Libera” di Lecce, che promuove l’integrazione di persone vittime di tratta, caporalato e sfruttamento sessuale.

Dopo anni di lavoro sul territorio, la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Lecce, ha riconosciuto lo status di rifugiata a una donna nigeriana vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale in carico al progetto “Libera”, costretta a fuggire dalla Nigeria con la sua compagna.

Il riconoscimento dello stato di rifugiato politico per gli individui perseguitati per l’orientamento sessuale, da parte della commissione territoriale, crea un precedente per i casi analoghi. Si esprime solidarietà al progetto Libera che dopo 16 anni di lavoro chiude e ci si unisce alla lotta di chi vuole continuare questa esperienza di accoglienza, solidarietà e integrazione nei confronti di donne che fuggono dalla violenza e dalla guerra.

La guerra, l’aggressione di un popolo da parte delle potenze imperialiste, così come colpi di stato e destabilizzazioni, sono strumenti per imporre con la violenza una condizione di oppressione e subalternità, per schiacciare e privare della libertà i popoli. Le donne ne vivono doppiamente l’orrore: direttamente, nella misura in cui stupro e violenze di genere vengono usati come arma di guerra, indirettamente perché la condizione di oppressione grava maggiormente sui soggetti sociali più deboli e marginalizzati.

Per questa ragione, come donne della Rete “Caracas ChiAma” riteniamo che contro la guerra imperialista sia necessaria l’unione delle donne, una presa di posizione chiara dei movimenti femministi e di genere, in quanto soggetti progressisti che si pongono la questione della liberazione di tutte e tutti. Dal tavolo è emersa la necessità di porre al centro della solidarietà con il Venezuela la questione della donna e del suo rapporto con le trasformazioni sociali e il potere popolare, e di sviluppare una riflessione condivisa, dando continuità ai lavori della tre giorni.

Per questa ragione si propone:

– mantenere i contatti con le associazioni, le compagne e i compagni intervenuti al tavolo; 

– creare un forum delle donne, all’interno della Rete “Caracas ChiAma”; 

– una riflessione sul tema del femminismo rivoluzionario attraverso un ciclo di iniziative di avvicinamento al Quinto Incontro della Rete.

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