Trump gioca con il fuoco

L’unico Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela si chiama Nicolás Maduro Moros

(Partito Comunista del Venezuela)

di Atilio A. Boron

L’imperatore ha emesso il suo úkase (editto) e benedetto come presidente Juan Guaidó, un signor nessuno della politica venezuelana, sconosciuto alla stragrande maggioranza della popolazione, ma costruito, “pret a porter” dai media e dagli esperti di marketing statunitensi, nelle ultime due settimane. Dopo l’uscita di Trump, i governi che lavorano per trasformare i loro paesi in repubbliche neo-coloniali – Argentina, Brasile, Colombia, Paraguay, Honduras e persino l’ormai svilito Canada – si sono palesati in blocco per vedere chi fosse il primo a leccare gli stivali del magnate di New York.

Tutta questa assurdità giuridica, che sarebbe motivo di grasse risate se non fosse per il fatto che potrebbe finire in tragedia, ha la benedizione di Luis Almagro (a) “quanto mi danno per eliminare Maduro?” e, fino ad ora, il fragoroso silenzio del Segretario Generale delle Nazioni Unite, il portoghese António Gutierres che, da buon socialdemocratico, soffre del caratteristico tic dei suoi correligionari, che lo fanno girare dall’altra parte ogni volta che c’è qualche patate bollente in qualsiasi angolo del pianeta. Per questo, attraverso il suo portavoce, ha chiesto “negoziati politici inclusivi e credibili”, dimenticando, forse, che quei negoziati sono stati condotti con successo da José L. Rodríguez Zapatero nei dialoghi che si sono svolti a Santo Domingo e che al momento di apporre la loro firma ai laboriosi accordi raggiunti dai rappresentanti della “opposizione democratica” venezuelana hanno abbandonato il tavolo e hanno lasciato lo spagnolo da solo con la stilografica in mano. Probabilmente avevano ricevuto una chiamata da Álvaro Uribe, abituale galoppino della Casa Bianca, in cui trasmetteva l’ordine di Trump di interrompere il processo.

Il tentato colpo di stato, esaltato dal sicariato mediatico, incontrerà molte difficoltà. Non è la prima volta nella storia moderna del Venezuela che la Casa Bianca riconosce un presidente, tipo Pedro Carmona, che l’11 aprile 2002, durò appena 47 ore al governo per poi finire in prigione. Sarà diverso questa volta? Difficile da prevedere. Guaidó potrebbe rifugiarsi in un’ambasciata amica a Caracas e da lì rilasciare dichiarazioni che, tirando la corda, forzerebbero un confronto con gli Stati Uniti. Ad esempio, di fronte all’ordine del presidente Maduro a ché il personale dell’ambasciata americana lasci il paese entro le prossime 72 ore, il giullare dell’impero può dire loro di rimanere in Venezuela. Un’altra alternativa è che Gaudió si installi in qualche città al confine con la Colombia e da lì, con la benedizione di Trump, e dei fetidi rimasugli dell’OEA e le neo-colonie latinoamericane proclami una nuova repubblica, protetta dai “paramilitari” colombiani e dal narco-governo di Duque, Uribe e compagnia, per chiedere il riconoscimento internazionale del suo governo davanti all’OSA e all’ONU.

Ognuno di questi due scenari conferma per l’ennesima volta che se c’è qualcosa che né gli imperialisti né la destra venezuelana vogliono, è il dialogo e il rispetto delle regole del gioco democratico.  Chiaro è che entrambe le soluzioni puntano allo scontro, o applicando il modello libico o quello ucraino, diverso, ma simile per le migliaia di morti e le centinaia di migliaia di rifugiati prodotti in entrambi i paesi. Ma al di là delle fake news, le cose non saranno così facili per gli assalitori del potere presidenziale. La base di chavista è molto solida, e lo stesso si può dire delle forze armate bolivariane. Una “soluzione” militare richiederebbe un impopolare invio di truppe statunitensi in Venezuela, in un momento in cui alla Camera dei Rappresentanti sta prendendo forza il proposito di sottoporre Trump alla procedura d’impeachment. E se i 26.000 uomini inviati a Panama nel dicembre 1989 per catturare Noriega e controllare quella città dovettero combattere duramente per due settimane, contro un popolo indifeso e forze armate non equipaggiate, per raggiungere il loro obiettivo, l’opzione militare comporterebbe, nel caso del Venezuela, un enorme rischio di ripetere l’insuccesso di Playa Girón o, su larga scala, la guerra del Vietnam, oltre a destabilizzare la situazione militare in Colombia di fronte a un’impennata dell’attività della guerriglia. La bellicosità di Washington contro il Venezuela è una risposta alla sconfitta militare che gli Stati Uniti hanno subito in Siria dopo sei anni di enormi sforzi per rovesciare Basher al-Assad. 

D’altra parte non è un fatto secondario che paesi come la Russia, la Cina, la Turchia, l’Iran, il Messico, Cuba e la Bolivia hanno rifiutato di offrire il loro riconoscimento diplomatico al golpista. Questo conta sullo scacchiere della politica mondiale. Pertanto, non è da escludere che a Guaidó possa toccare lo stesso destino di Carmona.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Alessio Decoro]

Napoli 3dic2018: Atilio Borón, democrazia, sovranità e l’esempio latinoamericano

Il Consolato Generale della Repubblica Bolivariana
del Venezuela a Napoli

Invita:

Incontro con Atilio Borón, prestigioso politologo e sociologo argentino

“Nuove Relazioni Internazionali: America Latina nella difesa della sua democrazia e sovranità”

Sede del Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli. Via Agostino Depretis 102, 4to piano

Lunedì 03 dicembre 2018, Ore. 11.30

“No ha concluido el ciclo progresista en América Latina”

Sezione Stampa e Pubbliche Relazioni
Sección Prensa y Relaciones Públicas 
Indira Pineda Daudinot
[email protected]

Salerno 3dic2018: Atilio Borón – América Latina en la era Trump

Sistemi elettorali distorti: dove vince e dove perde Hillary Clinton

trumpdi Alfredo A. Torrealba [i]

Fonte: aporrea.org

11nov2016.- La Clinton vince nella Gerrymandering, ma perde nella Mallapportionment

Costituisce davvero una sorpresa la vittoria di Donald Trump negli USA e nell’America latina? Per molti lo è! La campagna pubblicitaria portata avanti dai mezzi di comunicazione in lingua spagnola [compresi quelli in lingua italiana, N.d.T.] è stata, in modo incredibile, sproporzionatamente favorevole a Hillary Clinton, mentre faceva apparire come un “demone” a Trump. Invece in Europa, Oceania e Asia la vicenda si presentava in modo diverso. Qui i mass media hanno mantenuto una posizione più equilibrata e persino realista, al punto da prevedere che Trump difficilmente avrebbe perso le elezioni, nonostante lui “fosse in grado di scaricare un’arma contro la folla di qualche strada di New York”, come ebbe modo di dichiarare qualche mese fa. Ma al di là del gioco mediatico, esistono dei fattori di ordine tecnico-elettorale che spiegano politicamente alcune domande, in particolare una che è stata dibattuta in questi giorni: Perché la Clinton ha perso queste elezioni, dove ha investito 700 milioni di dollari, intanto che Trump ha investito solo circa 300 milioni? Per spiegare questa domanda è necessario soffermarsi su un fatto. Esaminando le fonti ufficiali si osserva che, difatti, la Clinton ha ottenuto 400 mila voti in più di Trump.

Sotto quest’aspetto non è improprio affermare che la Clinton ha vinto le elezioni con una “maggioranza semplice”. In altre parole, l’investimento da lei realizzato ha, in effetti, dato i risultati attesi, nonostante abbia votato il 57% dei 231.556.622 di cittadini nordamericani che hanno diritto al voto. Ma lei ha perso dovuto al sistema elettorale denominato “Collegio elettorale”, il quale rappresenta un sistema in cui i risultati non necessariamente devono coincidere con la maggioranza dei voti dei cittadini. Allo stesso modo, poiché il sistema di “Collegio elettorale” degli USA si basa in due sottosistemi elettorali definiti come “Gerrymandering [ii]” e “Malapportionment [iii]”, i quali ogni quattro anni modificano le “circoscrizioni originali” all’interno dei cinquanta stati dell’unione. Negli USA ogni elezione presidenziale merita una reimpostazione delle strategie elettorali, diversa a quelle precedenti.

Visto in questa maniera e svolgendo un’analisi “post mortem” di tipo elementare, si potrebbe asserire che la squadra tecnico-elettorale della Clinton ha conseguito un successo mirabile vincendo la battaglia sul piano della “Gerrymandering”, ma ha fallito su quello della “Melapportionment”. In secondo luogo, com’è d’abitudine, le vittorie sul campo della “Gerrymandering” dipendono in buona parte dall’uso di meccanismi e campagne elettorali distorte. L’acquisto di sondaggi prefabbricati è una pratica molto caratteristica.  Nonostante la popolazione statunitense ha iniziato a votare dal mese di settembre, in quella data già si sapeva che Trump era fornito di una certa leadership, i mezzi di comunicazione privati in lingua spagnola a livello mondiale cominciarono a produrre notizie “prive di fondamento” per dimostrare che Trump avrebbe perso.

Come se si volesse occultare il sole con un dito, i mass media erano riusciti nel loro intento a trasmettere questa sensazione di sconfitta che poi si è disfatta quando Trump ha vinto le elezioni. La vittoria di Trump ha provocato sconcerto e sorpresa in America latina, quando in realtà ciò non sarebbe dovuto accadere. Già da settembre si sapeva che Trump possedeva nei sondaggi un alto punteggio, ma la squadra della Clinton si mise subito all’opera nel finanziare e pagare qualunque cifra perché si costruissero delle prospettive da distribuire alle grandi agenzie di comunicazione latinoamericane con lo scopo di fabbricare notizie, sondaggi e contrattare a qualche cantante o attore latino affinché parlasse male di Trump e indebolisse il suo potere comunicativo, facendolo apparire come se fosse una sorta di entità del male. Era almeno questa la speranza moribonda che lo staff della Clinton vagheggiava. L’obiettivo era di istigare gli elettori latini dello stato della Florida per votare contro Trump, ma nemmeno lì, dove i mass media affermavano che egli era “il figlio di Satana”, la Clinton ha potuto vincere. In terzo luogo, la squadra di Trump ha fatto quello che qualsiasi altra squadra tecnico-elettorale avrebbe fatto. Lavorare nel campo della “Malapportionment”, dove il trucco consiste nel lasciare che il “nemico” raggiunga una sovra rappresentazione in alcuni stati, cioè, che ceda degli spazi per assicurarli ad altri più importanti.

Per questa ragione Trump non sentiva il bisogno di pagare i giornalisti né di investire in grandi campagne. E il risultato è stato quello, lo sfruttamento di una distorsione elettorale che si è imposta su di un’altra. In quarto luogo, bisogna indicare che grazie a questa semplice e naturale azione di assicurare l’arena della “Malapportionment”, Trump ha vinto per uno scandaloso margine di “voti elettorali”. Azione che è stata molto ben puntellata per via dello stile politico e per la sua estrema sincerità … potete essere sicuri che tutto quanto afferma riproduce in gran parte il sentimento del comune cittadino statunitense. E se lui ha asserito che “i messicani sono un problema” così come lo sono gli altri latini in USA, è perché più del 60% della popolazione di quel paese la pensa come lui. Inoltre lui è stato il primo che ha osato dire queste cose senza peli sulla lingua … di modo che la mia raccomandazione (in questa nuova tappa) è quella di ascoltare con attenzione quello che dice Trump, giacché lui vi spiegherà in maniera molto sintetica cosa pensa l’americano medio, volgare e spontaneo sui problemi che lo affliggono … e forse sarà per questo motivo che dubito che gli consentiranno di arrivare a finire i primi quattro anni di presidenza … realmente lo dubito …

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

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[i] Politologo, Master in Rapporti Internazionali, Dottore di Ricerca.

[ii]  Rappresenta un metodo ingannevole per ridisegnare i confini dei collegi nel sistema elettorale maggioritario (N.d.T.).

[iii] Qualsiasi sistema in cui un gruppo ha significativamente più influenza di un altro, come ad esempio quando i distretti di voto non sono equamente distribuiti tra una popolazione (N.d.T.).

Brescia 4nov2016: Dove va l’America Latina?

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Bergamo 3nov2016: America Latina, quale futuro?

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Venezuela: dalla fuga dei cervelli all’asilo politico

venezueladi Alfredo A. Torrealba – http://www.aporrea.org

Qui di seguito si presenta un breve riassunto composto di dieci idee generali concernenti l’evoluzione del significato di “Fuga dei Cervelli” in Venezuela. Il documento è stato sviluppato in questo modo, poiché negli ultimi anni “l’informazione tascabile”, ovvero succinta, è diventata più popolare “di quella approfondita”.

  1. Originariamente il termine “Fuga dei Cervelli” sorse in Messico agli inizi del XX secolo. In quell’occasione si faceva riferimento al fatto che la manodopera qualificata delle istituzioni dell’America Latina lasciava il posto di lavoro per farsi assumere nelle ditte private. Alcuni politici e pensatori messicani si resero conto di questa tendenza, interpretandola come un allontanamento dettato da fattori quali i bassi salari o dai benefici se confrontati con quelli che offriva il settore privato. Quest’ultimo, infatti, perseguiva degli obiettivi di produzione e profitto ben precisi per sentire l’esigenza di annoverare tra le sue fila a figure di professionisti che svolgessero le diverse mansioni negli ambiti industriale, commerciale tecnologico e amministrativo.
  2. Il termine “Fuga dei Cervelli” giunse in Venezuela (fino a dove si è potuto appurare) agli inizi del decennio degli anni ’20 dello scorso secolo quando un gruppo di politici e pensatori fece notare la loro inquietudine sui giornali e i libri dell’epoca, riguardante la scarsità di manodopera giovane e qualificata nella regione centrale del paese. La maggior parte di questi giovani emigrava a Caracas, la capitale del paese, alla ricerca di migliori opportunità come conseguenza dei negoziati che si erano aperti con l’avvento del “boom” petrolifero. Inoltre in quegli anni e allo stesso modo che in Messico, la “Fuga dei Cervelli” colpiva ampi settori dell’amministrazione pubblica, ma con la differenza che questa non convergeva necessariamente solo verso il settore privato, ma vedeva coinvolto anche l’esercito venezuelano.
  3. Dal 1967 la “Fuga dei Cervelli” fu riscoperta dalla comunità accademica nordamericana come un vero e proprio problema, definendola “Brain drain”. Da allora questo tema è diventato d’attualità negli scenari politici e nei mezzi di comunicazione di tutta l’America Latina, poiché viene descritto come un processo d’emigrazione che coinvolge professionisti e scienziati con titolo universitario che si sposta verso altri paesi, principalmente spinti dalla mancanza di opportunità di sviluppo nei settori della ricerca, per motivi economici o per conflitti politici nel loro paese di origine e che, in genere, si caratterizza come senza ritorno. Nonostante questo processo è maggiormente presente nei paesi in via di sviluppo, in molti casi si manifesta nei paesi industrialmente sviluppati, dovuto a fattori come differenze salariali o impositive.
  4. Dal 1971 la “Fuga dei Cervelli” in Venezuela si associa con l’idea che sempre con maggiore frequenza gli studenti venezuelani e i professionisti neolaureati se ne vanno altrove per cercare un futuro migliore. Questa tendenza si è mantenuta fino agli inizi degli anni ottanta quando la parità di cambio tra bolívar e dollaro rese possibile a un’ampia fascia di venezuelani di spostarsi principalmente verso l’America del Nord e l’Europa. Tuttavia anche se molti venezuelani decisero di andare a un altro paese con i propri mezzi, in questo periodo la principale rampa di lancio erano le istituzioni del governo venezuelano. L’espansione delle ambasciate e dei consolati, lo sviluppo di PDVSA e di alcune banche nazionali rese possibile a molte famiglie venezuelane di stabilirsi all’estero con un certo successo, fino a che nel 1983 sopraggiunse la svalutazione del bolívar, segnando la fine dell’era del “Venezuela Saudita”.
  5. Dal 1987 la “Fuga dei Cervelli” diventa una questione di classe. L’elevato costo dei biglietti di viaggio, il soggiorno all’estero, così come le nuove imposizioni politiche contro gli emigranti adottate dai governi dell’Europa e dell’America settentrionale, rese difficile alla classe media alta e bassa venezuelana di raggiungere l’obiettivo di uscire o rimanere all’estero. Perciò le famiglie con grandi risorse economiche erano le uniche che potevano finanziare i propri familiari all’estero. Contemporaneamente in quest’epoca in tutta l’America Latina fa presa il paradigma che studiare e vivere all’estero era sinonimo di successo, progresso e qualità della vita.
  6. Dal 1990 fino al 2010 il numero di venezuelani deportati in tutto il mondo è in progressivo aumento. Impossibilitati di provvedere al proprio sostentamento all’estero, sono respinti per diversi motivi: droga, prostituzione (maschile e femminile), furti, evasione fiscale, truffe, irregolarità, così come per aver incappato nel commercio di matrimoni combinati in Europa e in America del Nord, ecc.
  7. Dal 1993 e fino al 2010 un cospicuo numero di venezuelani residenti all’estero per sopravvivere inizia a lavorare nel settore dei servizi, svolgendo lavori a bassa remunerazione. Parrucchieri, spazzini, benzinai, cassieri, venditori, ecc., sono le attività più comuni dei nostri “talenti” per evitare le deportazioni.
  8. Tra il 1998 e il 2001 quasi il 91% dei venezuelani emigrati nel decennio degli anni settanta, ottanta e novanta era tornati in Venezuela perché deportati, per altre ragioni o emigrati in un altro paese. In questo stesso periodo lo Stato venezuelano smette di essere il principale trampolino dei venezuelani. Organizzazioni internazionali, ditte private e università a livello mondiale iniziano a pubblicare su Internet le loro offerte, offrendo o domandando servizi e lavori ai latinoamericani. Condizione che non è stata sprecata da alcuni soggetti delle classi alte, medie o medio basse del Venezuela. In questa maniera, a partire del 2001, sempre più venezuelani cominciano a interessarsi a cercare fortuna all’estero con l’appoggio dei servizi offerti da Internet.
  9. Parallelamente, nel 2003, si avvia una forte emigrazione di venezuelani all’estero per ragioni politiche e con lo sviluppo del mercato dell’asilo e del rifugio politico a livello internazionale. Da quella data alcune “Organizzazioni Non Governative” (ONG) in America Latina, iniziano a offrire i loro servizi per consentire agli emigranti di poter viaggiare agli Stati Uniti o in Europa, in qualità di rifugiati o richiedenti asilo. Ad esempio, gruppi politici avversi al governo venezuelano si avvalsero del Colpo di Stato del 2002 figurando come perseguitati politici al cospetto di alcuni paesi europei e dell’America del Nord. Questi paesi concessero l’asilo politico o lo status di rifugiato a centinaia di venezuelani i quali, a loro volta, percepivano aiuti statali o governativi che oscillavano tra gli 800 e i 5.000 dollari mensili, senza obbligo di lavoro o dichiarazione dei redditi. Con questo meccanismo ne hanno beneficiati anche i loro familiari più stretti. Dato che questo sostentamento si percepiva con la qualifica del “richiedente asilo o rifugiato politico” e grazie alle facilità amministrative del paese che concedeva questi diritti, numerosi venezuelani in alcuni di questi paesi diedero vita a delle ONG con l’obiettivo di aiutare a emigrare ad altri venezuelani come se fossero dei perseguitati politici. Per raggiungere questo scopo, le ONG offrivano svariati servizi: la pubblicazione retribuita di false notizie nella stampa nazionale, dossier politici, false denunce non dichiarate, avvocati, ecc. In questo modo i beneficiati che non avevano mai avuto un percorso politico riuscivano a emigrare e ottenere lo status di richiedente asilo o di rifugiato politico. Questa condizione giuridica gli consentiva se non altro di avere diritto di vivere per otto mesi in uno di questi paesi, percependo un salario minimo e, poi, di ottenere un lavoro, oppure sussistere con quanto offerto da alcune ONG caritative.
  10. Tra il 2010 e il 2013 i dati del CNE annunciavano che circa 45 mila venezuelani erano legalmente registrati nei consolati del Venezuela a livello mondiale. Ciò consentiva loro non solo di esercitare il diritto al voto, ma potevano anche dar prova di essere “legali” in quel paese. Parallelamente, per difetto, gli altri 750 mila venezuelani che vivevano all’estero (la cifra dei venezuelani all’estero non ha mai superato i 900 mila) si trovavano in qualità di turisti o in condizioni d’illegalità nel paese ospitante. Altri si segnalavano come richiedente asilo o rifugiato, con residenza temporanea, sposati, o con un rapporto apolitico nei confronti del governo venezuelano in vista di ottenere una nuova cittadinanza. In questo stesso periodo si calcola che 121 milioni di dollari sono entrati in Venezuela a titolo di rimessa familiare, il che significa che pressappoco 45 mila venezuelani inviavano denaro alle loro famiglie in Venezuela. Una cifra molto di sotto i 21 miliardi di dollari che ogni anno riceve il Messico per le stesse ragioni. Infine nel 2012 l’incremento delle deportazioni di giovani e donne venezuelane per prostituzione raggiunse cifre record in Europa, America Centrale e Sudamerica. In modo particolare in Spagna, dove la prostituzione online dei nostri “talenti” viene denominata “scorts”.

Per finire, la “Fuga dei Cervelli” in Venezuela è una realtà che non dovrebbe destare tanto allarme, giacché giudicando gli indici di deportazioni, inevitabilmente, la stragrande maggioranza dei venezuelani dovrà tornare a casa controvoglia.

 

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

 

Il vitello d’oro è stato trasformato in maiale

funny-pigdi Antonio Aponte e Toby Valderrama

elaradoyelmar.blogspot.com

Che il governo socialdemocratico voglia persistere a inciampare sulla stessa pietra, realmente meraviglia. E costituisce uno sgarbo nei confronti dei governanti e del popolo umile, e anche una condanna del chavismo che, inerte, assiste al proprio annichilimento.

Sommersi da una crisi di cui nemmeno le persone più anziane serbano memoria, il governo glissa sulle proprie responsabilità e in questo modo liquida ogni possibilità di rettifica; se il modo in cui agisce il governo è corretto, allora perché bisogna cambiare, la colpa ricadrà su altri, al “maialino” espiatorio o alla testa di turco che in passato non risolse nulla, ma almeno riuscì a tranquillizzare l’anima dei peccatori. I colpevoli si possono chiamare impero, borghesia diffusa e nemica di come si conduce l’economia, o possono essere quelli che ora sono bollati come “traditori”, che più che traditori tendono a essere i colpevoli di tutti i mali.

È proprio così, il governo attraversa questa crisi senza macchiarsi il vestito, non può essere imputato di nulla, non sbaglia mai, tutto quello che dice e fa è giusto, il male si trova da un’altra parte, al suo esterno. Tutto questo sarebbe una furbata da governanti se non fosse perché questo tipo di comportamento ci conduce verso il caos, verso il fascismo. Analizziamolo più da vicino.

L’errore nel quale incorre il governo è che nel campo dell’economia non vede altro che il materiale, lo stomaco. In questa forma la politica solo si riduce a chi somministra, a chi è il migliore fornitore. Il cuore, l’idealismo non sono presi in considerazione, in questa maniera l’economia perde la sua metà, la metà più importante, quella decisiva, l’anima, lì dove tutto finisce e tutto inizia.

Quando la fornitura materiale è fallita, quando il vitello d’oro ha smesso di essere tale, ci siamo accorti che in un paese di fornitori e consumatori insaziabili l’etica è quella del mercenario. Il governo, che non possiede altro da offrire, mente; la menzogna diventa una merce di produzione industriale, la consumano gli umili disposti all’ingenuità. Ma l’ingenuità e la menzogna sono una miscela esplosiva per tutti quei governi che un giorno si vedono abbandonati, senza più un appoggio attivo, perendo nelle mani dei nuovi fornitori che offrono promesse che sono consumate dagli ingenui e tutto continua fino a quando non giunge di nuovo il benessere per ricominciare la danza intorno al vitello d’oro, che poi finisce nel lamento del “maialino” che si è rubato l’oro.

Questo ciclo cupo: vitello-maialino/benessere—lamento/consumo-lagnanza è stato rotto da un Comandante che aveva capito che la cosa più fondamentale non è il materiale, il quale solo serve per seguire l’ideale, per sostituire i lupi con i fratelli. Un Comandante che ha scelto di essere Cristo e non Rockefeller, di essere Bolívar e non Boulton, che si è giocata la vita per una Rivoluzione che presentiva fosse infinita. Ma il Cristo è stato nuovamente crocifisso e il ciclo è riapparso e con lui la menzogna che per l’umile ora è meno attendibile. Ma si sospetta che laggiù nel fondo esistono dei dirigenti che possono, vogliono, rompere nuovamente questo ciclo.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

La crisis y la izquierda latinoamericana

por Emir Sader*

ALAI AMLATINA, 22feb2016.- Se puede decir que hay dos izquierdas en América Latina y que ambas padecen de crisis, cada una a su manera. Una es la que llegó a los gobiernos, empezó procesos de democratización de las sociedades y de salida del modelo neoliberal y que hoy se enfrenta a dificultades –de distinto orden, desde afuera y desde adentro– para dar continuidad a esos procesos. La otra es la que, aun viviendo en países con continuados gobiernos neoliberales, no logra siquiera constituir fuerzas capaces de ganar elecciones, llegar al gobierno y empezar a superar el neoliberalismo.

La izquierda posneoliberal ha tenido éxitos extraordinarios, aún más teniendo en cuenta que los avances en la lucha contra la pobreza y la desigualdad se han dado en los marcos de una economía internacional que, al contrario, aumenta la pobreza y la desigualdad. En el continente más desigual del mundo, cercados por un proceso de recesión profunda y prolongada del capitalismo internacional, los gobiernos de Venezuela, Brasil, Argentina, Uruguay, Bolivia y Ecuador han disminuido la desigualdad y la pobreza, han consolidado procesos políticos democráticos, han construido procesos de integración regional independientes de Estados Unidos y han acentuado el intercambio Sur-Sur.

Mientras que las otras vertientes de la izquierda, por distintas razones, no han logrado construir alternativas a los fracasos de los gobiernos neoliberales, de las cuales los casos de México y de Perú son los dos más evidentes, mostrando incapacidad, hasta ahora, de sacar lecciones de los otros países, para adaptarlas a sus condiciones específicas.

¿En qué consiste la crisis actual de las izquierdas que han llegado al gobierno en América Latina? Hay síntomas comunes y rasgos particulares a cada país. Entre ellos están la incapacidad de contrarrestar el poder de los monopolios privados de los medios de comunicación, aun en los países en los que se ha avanzado en leyes y medidas concretas para quebrar lo que es la espina dorsal de la derecha latinoamericana. En cada uno de esos países, en cada una de las crisis enfrentadas por esos gobiernos, el rol protagónico ha sido de los medios de comunicación privados, actuando de forma brutal y avasalladora en contra de los gobiernos, que han contado con éxitos en su gestión y un amplio apoyo popular.

Los medios han ocultado los grandes avances sociales en cada uno de nuestros países, los han censurado, han tapado los nuevos modelos de vida que los procesos de democratización social han promovido en la masa de la población. Por otro lado, destacan problemas aislados, dándoles proyecciones irreales, difundiendo incluso falsedades, con el propósito de deslegitimar las conquistas logradas y la imagen de sus líderes, sea negándolas, sea intentando destacar aspectos secundarios negativos de los programas sociales.

Los medios han promovido sistemáticamente campañas de terrorismo y de pesimismo económico, buscando bajar la autoconfianza de las personas en su propio país. Como parte específica de esa operación están las sistemáticas denuncias de corrupción, sea a partir de casos reales a los que han dado una proporción desmesurada, sea inventando denuncias por las cuales no responden cuando son cuestionados, pero los efectos ya han sido producidos. Las reiteradas sospechas sobre el accionar de los gobiernos producen, especialmente en sectores medios de la población, sentimientos de crítica y de rechazo, a los que pueden sumarse otros sectores afectados por esa fabricación antidemocrática de la opinión pública. Sin ese factor, se puede decir que las dificultades tendrían su dimensión real, no serían transformadas en crisis políticas, movidas por la influencia unilateral que los medios tienen sobre sectores de la opinión pública, incluso de origen popular.

No es que sea un tema de fácil solución, pero no considerar como un tema fundamental a enfrentar es subestimar el nivel en que la izquierda está en mayor inferioridad: la lucha de las ideas. La izquierda ha logrado llegar al gobierno por el fracaso del modelo económico neoliberal, pero ha recibido, entre otras herencias, la hegemonía de los valores neoliberales diseminados en la sociedad. “Cuando finalmente la izquierda llegó al gobierno, había perdido la batalla de las ideas”, según Perry Anderson. Tendencias a visiones pre-gramscianas en la izquierda han acentuado formas de acción tecnocráticas, creyendo que hacer buenas políticas para la gente era suficiente como para producir automáticamente conciencia correspondiente al apoyo a los gobiernos. Se ha subestimado el poder de acción de los medios de información en la conciencia de las personas y los efectos políticos de desgaste de los gobiernos que esa acción promueve.

Un otro factor condicionante, en principio a favor y luego en contra, fue el relativamente alto precio de los commodities durante algunos años, del que los gobiernos se aprovecharon no para promover un reciclaje en los modelos económicos, para que no dependieran tanto de esas exportaciones. Para ese reciclaje habría sido necesario formular y empezar a poner en práctica un modelo alternativo basado en la integración regional. Se ha perdido un período de gran homogeneidad en el Mercosur, sin que se haya avanzado en esa dirección. Cuando los precios bajaron, nuestras economías sufrieron los efectos, sin tener como defenderse, por no haber promovido el reciclaje hacia un modelo distinto.

Había también que comprender que el período histórico actual está marcado por profundos retrocesos a escala mundial, que las alternativas de izquierda están en un posición defensiva, que de lo que se trata en este momento es de salir de la hegemonía del modelo neoliberal, construir alternativas, apoyándose en las fuerzas de la integración regional, en los Brics y en los sectores que dentro de nuestros países se suman al modelo de desarrollo económico con distribución de renta, con prioridad de las políticas sociales.

En algunos países no se ha cuidado debidamente el equilibrio de las cuentas públicas, lo cual ha generado niveles de inflación que han neutralizado, en parte, los efectos de las políticas sociales, porque los efectos de la inflación recaen sobre asalariados. Los ajustes no deben ser trasformados en objetivos, pero si en instrumentos para garantizar el equilibrio de las cuentas públicas y eso es un elemento importante del éxito de las políticas económicas y sociales.

Aunque los medios de información hayan magnificado los casos de corrupción, hay que reconocer que no hubo control suficiente de parte de los gobiernos del uso de los recursos públicos. El tema del cuidado absoluto de la esfera pública debe ser sagrado para los gobiernos de izquierda, que deben ser los que descubran eventuales irregularidades y las castiguen, antes de que lo hagan los medios de información. La ética en la política tiene que ser un patrimonio permanente de la izquierda, la transparencia absoluta en el manejo de los recursos públicos tiene que ser una regla de oro de parte de los gobiernos de izquierda. El no haber actuado siempre así hace que los gobiernos paguen un precio caro, que puede ser un factor determinante para poner en riesgo la continuidad de esos gobiernos, con daños gravísimos para los derechos de la gran mayoría de la población y para el destino mismo de nuestros países.

Por último, para destacar algunos de los problemas de esos gobiernos, el rol de los partidos en su condición de partidos de gobierno nunca ha sido bien resuelto en prácticamente ninguno de esos países. Como los gobiernos tienen una dinámica propia, incluso con alianzas sociales y políticas con la centro izquierda, en varios casos, esos partidos deberían representar el proyecto histórico de la izquierda, pero no han logrado hacerlo, perdiendo relevancia frente al rol preponderante de los gobiernos. Se debilitan así la reflexión estratégica, más allá de las coyunturas políticas, la formación de cuadros, la propaganda de las ideas de la izquierda y la misma lucha ideológica.

Nada de eso autoriza a hablar de “fin de ciclo”. Las alternativas a esos gobiernos están siempre a la derecha y con proyectos de restauración conservadora, netamente de carácter neoliberal. Los gobiernos posneoliberales y las fuerzas que los han promovido son los elementos más avanzados que la izquierda latinoamericana dispone actualmente y que funcionan también como referencia para otras regiones de mundo, como España, Portugal y Grecia, entre otros.

Lo que se vive es el final del primer periodo de la construcción de modelos alternativos al neoliberalismo. Ya no se podrá contar con el dinamismo del centro del capitalismo, ni con precios altos de las commodities. Las clave del paso a un segundo período tienen que ser: profundización y extensión del mercado interno de consumo popular; proyecto de integración regional; intensificación del intercambio con los Brics y su Banco de Desarrollo.

Además de superar los problemas apuntados anteriormente, antes que todo crear procesos democráticos de formación de la opinión pública, dar la batalla de las ideas, cuestión central en la construcción de una nueva hegemonía en nuestras sociedades y en el conjunto de la región.

Hay que construir un proyecto estratégico para la región, no solo de superación del neoliberalismo y del poder del dinero sobre los seres humanos, sino de construcción de sociedades justas, solidarias, soberanas, libres, emancipadas de todas las formas de explotación, dominación, opresión y alienación.

* Emir Sader, sociólogo y científico político brasileño, es coordinador del Laboratorio de Políticas Públicas de la Universidad Estadual de Rio de Janeiro (UERJ).

 

Frei Betto y el descuido en la formación ideológica

por Al Mayadeen

29 Enero 2016, Resumen Latinoamericano /Al Mayadeen/.- Para el fraile dominico brasileño, Frei Betto, una de las causas principales de los retrocesos en gobiernos progresistas en América Latina es el descuido en la formación ideológica de la sociedad.

A su juicio, no se trata de un fenómeno nuevo ni propio del continente, pues ya se había dado en la antigua Unión Soviética y en el resto de Europa del Este.

Durante su participación en la II Conferencia Internacional Con todos y para el bien de todos, dedicada a José Martí, Betto defendió esos criterios a la luz del pensamiento político y antimperialista martiano.

Señaló que la región avanzó mucho en los últimos años, se logró elegir jefes de Estado progresistas, conquistar conexiones continentales importantes como la alianza bolivariana, Celac, Unasur, pero se cometieron errores.

Precisó que uno de ellos fue descuidar la organización popular, el trabajo de educación ideológico y “allí entra en juego José Martí porque él siempre se preocupó por el trabajo ideológico”, agregó.

Según el teólogo de la liberación, los retrocesos en una sociedad desigual significan que hay una permanente lucha de clases. “No podemos engañarnos, pues no se garantiza el apoyo popular a los procesos dando al pueblo sólo mejores condiciones de vida, porque eso puede originar en la gente una mentalidad consumista”, aseveró.

El problema está -afirmó Betto- en que no se politizó a la nación, no se hizo el trabajo político, ideológico, de educación, sobre todo en los jóvenes, y ahora la gente se queja porque ya no puede comprar carros o pasar vacaciones en el exterior.

En su opinión, hay un proceso regresivo porque no se ha desarrollado una política sostenible, no hay una reforma estructural, agrarias, tributarias, presidenciales, políticas. “Encauzamos una política buena pero cosmética, carente de raíz, sin fundamentos para su sustentabilidad”.

Al referise a Brasil, espera que no pase lo peor, el regreso de la derecha al poder. Según su análisis, eso depende mucho de Dilma en los próximos dos o tres años. “Pero lamentablemente, por lo pronto, no hay señal de que va a cambiar la política económica que hace daño a los más pobres y favorece a los más ricos”, afirmó.

Aseveró que el consumismo y la corrupción están matando la utopía en pueblos de nuestra América, como Argentina y otros, porque -señaló- la gente no tiene perspectivas de sentido altruista, solidario, revolucionario, de la vida, se va hacia el consumismo, y eso afecta toda perspectiva socialista y cristiana, que es desarrollar en la gente valores solidarios. “La solidaridad es el valor mayor tanto del socialismo como del cristianismo”, subrayó.

Betto insistió en que en eso radica la falla en gobiernos progresistas. En su opinión no se hizo un trabajo de base, de formación ideológica de la gente.

Agregó que la educación para el amor, para la solidaridad, es un proceso que hay que desarrollar pedagógicamente, y como eso no se cuidó desde un primer momento, ahora se afrontan las consecuencias lamentablemente.

Al abordar el proceso de distopía, es decir, los intentos de presentar la utopía como algo del pasado, reiteró que en los países como Brasil o Venezuela, los gobiernos se equivocaron al creer que garantizar los bienes materiales equivalía a garantizar condiciones espirituales, y no es así.

Betto -en el caso de Cuba- expresó que el gobierno revolucionario, que ha hecho un trabajo ideológico de educación política con el pueblo, ha sido demasiado paternalista.

Explicó que la gente ha mirado a la revolución como “una gran vaca que le da leche a cada boca”, pero con eso no se moviliza a la gente para un trabajo más efectivo en la consolidación ideológica relacionada, por ejemplo, con la producción agrícola e industrial.

Consideró que, aunque admite poder equivocarse, la dependencia de la Unión Soviética llevó a Cuba a acomodarse un poco, y hoy importa del 60 al 70 por ciento de productos especiales de consumo y eso convirtió prácticamente en una nación que exporta servicios médicos, educadores, profesionales e importa turistas para conseguir más divisas.

Educación política, participación, compromiso efectivo con la lucha, adecuación de la teoría y la práctica, es lo correcto y ahí están los ejemplos de Martí, de Fidel Castro que han vivido dentro del monstruo, como el caso de Martí, y el de Fidel que proviene de una familia latifundista y se convirtió en revolucionario.

¿Qué pasó en la conciencia de José Martí y de Fidel Castro, quienes tenían la oportunidad de hacerse un lugar en la burguesía, pero tuvieron una dirección evangélica para los pobres y asumieron la causa de la liberación?, se preguntó.

La respuesta es la que va a indicarnos el camino que vamos a seguir para evitar que el futuro de América Latina sea de nuevo un lugar de mucha desigualdad, de mucha pobreza, porque corremos el riesgo de ser de nuevo neocolonia de Estados Unidos y de Europa Occidental.

Enfatizó que no es fácil vivir en un mundo en el que el neoliberalismo proclama que la utopía está muerta, que la historia ha terminado, que no hay esperanza ni futuro, que el mundo siempre va a ser capitalista, que siempre va a haber pobres, miserables, y ricos, y que, como en la naturaleza, siempre va a haber día y noche y eso no se puede cambiar.

Betto señaló que la derecha se une por interés, y la izquierda por principios, y cuando la izquierda pierde los principios. Y agregó: Cuando la izquierda viola el horizonte de los principios y va por los intereses, le hace el juego a la derecha.

La tarea de la izquierda es movilizarse en la línea de una alta formación política y por ese camino es que debemos trabajar, sentenció.

Sobre las restablecimiento de relaciones diplomáticas entre Cuba y Estados Unidos, expresó que la Isla debe lograr cómo establecer buenas relaciones con Estados Unidos y administrar bien la suspensión del bloqueo sin tornarse vulnerable a la seducción capitalista.

Mostró su preocupación cuando ve a los jóvenes cubanos irse del país para aprovechar la ley de ajuste porque es señal de que la gente está corriendo contra el tiempo para tornarse ciudadano de Estados Unidos, “porque en el momento en que termine el bloqueo esa ley va abajo”. Pero Cuba tiene que preguntarse por qué jóvenes formados en la revolución quieren ser ciudadanos de Estados Unidos?

“El peligro que hay aquí, dice, es que la revolución la ven esos jóvenes como un hecho del pasado y no un desafío del futuro, y cuando la gente la ve como un hecho del pasado ya mira las cosas no por sus valores, por su horizonte revolucionario, sino por el consumismo”.

El socialismo, aseguró, ha cometido el error de socializar los bienes materiales, y no socializó suficientemente los bienes espirituales, porque un pequeño grupo podía tener sueños de cosas distintas que se podían hacer, y los demás los han tenido que aceptar.

“El capitalismo lo hizo al revés, socializó los sueños para privatizar los bienes materiales… Y ahí llega el sufrimiento de los jóvenes que ponen en su vida cuatro cosas: dinero, fama, poder y belleza, y cuando no alcanzan ninguno de esos parámetros van siempre a los ansiolíticos, las drogas, viene la frustración de los falsos valores, la cual viene siempre desde donde hemos puesto nuestra expectativa”, concluyó.

Mentre l’aquila va a caccia di mosche, la crisi aumenta

venezuela

di Aram Aharonian* – rebelion.org

Il Venezuela è sommerso da una crisi ostinata e il sistema politico è bloccato, voltando le spalle alla stessa, la quale continua ad aumentare senza trovare risposte. Nel frattempo il presidente Nicolás Maduro è occupato a cacciare mosche nella sua ininterrotta guerra dei microfoni, quando invece la gente è lì ad aspettare che si trovino soluzioni alla scarsità di cibo, medicinali, ecc., all’inflazione, all’insicurezza. (Alcuni sostengono che la frase sia di Seneca, altri invece di Platone, ma chi l’ha resa popolare è stato Hugo Chávez: “L’aquila non va a caccia di mosche”).

C’è chi sostiene che esiste, di fatto, una certa forma di coabitazione nel paese, ma la realtà è che le fazioni che si contendono la guida della società, quella del governo e quella dell’opposizione, sembrano mancare di capacità – o interesse- per giungere a un accordo. Soprattutto quando l’autoproclamata Mesa de la Unidad Democrática (MUD), che raggruppa alla variopinta opposizione, ribadisce la sua promessa di espellere al presidente Nicolás Maduro dalla presidenza prima della metà di quest’anno.

I settori accademici di destra sono del parere che pian piano si sta costruendo un consenso il cui scenario più probabile e favorevole per cominciare a superare la crisi e aprire una transizione democratica deve passare attraverso la rinuncia di Maduro. Dello stesso parere è il segretario generale della MUD, Chúo Torrealba, il quale ha indicato che il primo passo è che il mandatario si metta da parte e consenta l’esecuzione di “un’uscita pacifica, costituzionale, elettorale, democratica e concordata dalla crisi”. Ha aggiunto che “Bisogna consentire che il Venezuela abbia un nuovo governo che inspiri fiducia al mondo e che possegga potere di convocazione sul piano interno”.

E il governo segue paralizzato, erratico, inoperoso (nonostante gli sforzi del vicepresidente dell’Esecutivo – Aristóbulo Istúriz- aperto al dialogo), diluito in incontri che convocano altri incontri e annuncia i prossimi annunci che mai arrivano, in balia ai canti di sirena della via capitalista e a soluzioni neoliberali, ma avviluppato nel recente ricordo della via al socialismo indicata da Hugo Chávez. Non solo sembra erratico, ma appare anche vuoto d’ideologia nello scontro con la MUD e la maggioranza oppositrice dell’Assemblea Nazionale.

La sociologa Maryclen Stelling ha segnalato che in questa congiuntura si sta potenziando la logica bellica della politica costruita intorno all’amico-nemico e fondata sulla dicotomia verità assoluta – errore assoluto. La dinamica del confronto tra i poteri, basata sulla concezione bellica della politica, danneggia la convivenza, il modo in cui affrontare la crisi multidimensionale che soffre il paese e, inoltre, le eventuali soluzioni pacifiche che dovrebbero essere sottoscritte in un clima di dissenso democratico.

Si tratta di stabilire i termini per una coabitazione di cui non sono abituati e sul come organizzarla nelle attuali circostanze, dove non sono accettate le idealizzazioni di approssimazioni consensuali. Si tratta di una convivenza fattibile e realista all’interno del confronto permanente che ha caratterizzato gli ultimi tre lustri, la quale si definirà quando si verrà a sapere a quale dei settori corrisponde l’egemonia. Non esistono spazi per un governo congiunto e men che meno per un’agenda unica.

La coabitazione sembra impossibile quando persiste la crisi economica e – parallelamente- la reticenza governativa d’introdurre dei cambi nella macroeconomia. Nel frattempo l’opposizione pubblicizza come irrevocabile la decisione di espellere a Maduro nei primi sei mesi dell’anno, un’iniziativa che difficilmente si potrà realizzare mediante l’impiego di mezzi legali.

Istúriz ha indicato che la guerra economica si fonda sull’attacco alla moneta – cappeggiato dal sito web, Dolar Today-, la distribuzione del cibo che è a carico dei privati e la caduta violenta del prezzo del petrolio, originata da fattori geopolitici che cercano di minare l’economia delle nazioni che difendono la propria sovranità.

“Dobbiamo fare un salto da un modello economico basato sulla rendita a un modello economico produttivo, abbiamo dei problemi perché non possediamo più una valuta come una volta, dobbiamo ragionare sull’importazione, dobbiamo unirci, da soli non ce la faremo, abbiamo bisogno della collaborazione di tutti i settori”, ha segnalato il vicepresidente. Tuttavia ha riconosciuto che il governo nazionale “non è stato capace” di risolvere problemi come le code, la scarsità di cibo e l’inflazione.

Julio Escalona ha avvertito che anche se in certa qual misura il petrolio è stato statalizzato, i principali profitti sono nelle tasche del capitale transnazionale; l’incremento delle entrate produce importazioni che distruggono la produzione interna, svalutano il bolívar, dollarizzano l’economia venezuelana, danneggiano la bilancia dei pagamenti, generano esportazione di capitali, indebitamento, inflazione. Un feticcio moltiplicatore dei conti bancari all’estero che rende più forte il dominio del capitale nella misura in cui siamo più dipendenti dal petrolio e gli imprenditori negoziano per continuare ad accumulare maggiori quantità di dollari.

Nonostante si sia aperto il dialogo con il settore produttivo, non ci sono progressi sul tavolo del dialogo politico. L’opposizione non dà segnali di avanzare nelle proposte, al di là di sbarazzarsi di Maduro e per quanto possibile (l’idea di un colpo di stato continua a ruotare intorno alle teste di non pochi, anche se bisogna avere l’appoggio delle forze armate) salvaguardando l’immagine della democrazia borghese: mediante una rinuncia o tramite un referendum revocatorio che non sembra nemmeno molto facile da realizzare.

Dall’egemonia alla “crisi umanitaria”

Antonio Gramsci aveva stabilito una differenziazione tra dominio – coercitivo- ed egemonia, di carattere culturale, ideologico, etico e spirituale. Mentre l’egoismo rappresenti il motore della società e il popolo conservi il culto dello Stato e le forme di coercizione statale siano dominanti, l’egemonia la possiede la borghesia, osserva il politologo Leopoldo Puchi.

La crisi avanza e non ci sono risposte. Le soluzioni acquisiscono carattere d’emergenza e all’interno della democrazia borghese il macchinario è del tutto bloccato.

Una situazione per nulla normale diventa normale, il linguaggio bellico diventa naturale. La nuova maggioranza nell’Assemblea nazionale disegna una strategia fondata sul confronto dei poteri e, più che un’apertura al dialogo, il parlamento si consolida come spazio di confronto e forza d’urto.

Quella stessa Assemblea che ha rifiutato il decreto d’emergenza economica del governo ha dichiarato l’esistenza di una “crisi umanitaria”. E’ la stessa cosa? Assolutamente no. Non si tratta di un problema semantico. Un anno fa il generale statunitense John Kelly, capo del Comando Sud, dichiarava ai quattro venti che quotidianamente pregava per “il popolo venezuelano” e si faceva garante che gli Sati Uniti sarebbero intervenuti solo se si dichiarasse una “emergenza umanitaria”. Per lo meno Kelly non è più al Comando Sud, ma altri lo stavano aiutando in quell’affermazione per avallare l’ingerenza esterna.

L’offensiva dell’opposizione continua a essere capeggiata dai mass media. L’editoriale del quotidiano EL Nacional, “¡Good Bye, Nicolás!”, è una chiamata al golpe. L’anticastrista, Fausto Masó, sulle pagine dello stesso giornale indicava che “Il governo è aiutato dall’inerzia e dalla mancanza di decisione dei suoi avversari, i quali non vanno oltre l’unità elettorale dello scorso dicembre, verso quella che dovrebbe essere una decisiva azione politica. Ciò arriverà più presto che tardi e allora entreremo in una nuova fase, si apriranno nuove porte”.

Perché e per chi si apriranno le porte?.

 

* Aram Aharonian è Magister in Integrazione, giornalista e docente uruguaiano, fondatore di Telesur, direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione e la Democrazia, presidente della Fondazione per l’Integrazione Latinoamericana.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

 

Roque Dalton: quando i poveri faranno le leggi

roque_dalton1da Tatuy Televisión Comunistaria

Una poesia di Roque Dalton che rivela con nitidezza il ruolo della legalità nell’ambito della lotta di classe 

Affermava il Comandante Chávez in relazione a questa poesia: “In questa nostra lotta mi vedo obbligato a cedere la parola al grande poeta rivoluzionario, martire salvadoregno, Roque Dalton (…) Non è forse compito dei poeti renderci più agevole il percorso? (…) lo sto dicendo in una maniera persino più edulcorata. Quando i poveri faranno le leggi svanirà la povertà. Stiamo percorrendo quella strada, verso il socialismo”.

Una poesia con un vigore sovversivo nel Venezuela odierno, dove si evidenzia con chiarezza la lotta di classe in un parlamento occupato nella sua maggioranza dai rappresentanti politici della borghesia venezuelana transnazionale.

 

Poesia XVI

 

Le leggi esistono perché le rispettino

i poveri.

Le leggi sono fatte dai ricchi

per mettere un po’ di ordine allo sfruttamento.

I poveri sono gli unici a rispettare le leggi

della storia.

Quando i poveri faranno le leggi

svaniranno i ricchi.

 

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

 

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