Napoli: il Venezuela alla Festa della Riscossa Popolare

di Ciro Brescia

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Il 25 luglio 2013 si è realizzato l’incontro del tavolo tematico internazionalista ed antimperialista all’interno della Festa della Riscossa Popolare, nel Parco dei Camaldoli, a Napoli, che si è centrato particolarmente sull’attualità della Rivoluzione bolivariana del Venezuela, approfittando della presenza a Napoli di Mario Neri, facilitatore del Circolo Bolivariano degli italo-venezuelani “Antonio Gramsci” di Caracas che vive in Venezuela da quasi 40 anni.

L’occasione è stata utile per evidenziare l’importanza della partecipazione massiva e popolare nei processi di trasformazione economica, sociale, culturale e politica come lo è el proceso in Venezuela.

Mario Neri ha sottolineato la centralità dei poteri creatori del popolo, come lo esprimeva il giornalista e poeta venezuelano Aquiles Nazoa nel suo “Credo”.

Ha evidenziato come il governo rivoluzionario agevoli l’espressione e la pratica di tale creatività attraverso la costruzione della nuova istituzionalità basata sui consejos comunales e las comunas socialistas, ambiti economici strategici, territoriali, sociali, culturali e politici dove il popolo esercita il proprio potere costituente, el Poder Popular, fonte primaria ed inalienabile di ogni potere costituito.

Altresì è importante per le trasformazioni in atto, conoscere le esperienze attuali o pregresse di costruzione comunitaria di altri popoli, stati e latitudini, di forme di democrazia diretta, consiliare che si sono avuti nella storia recente o passata, dalle comuni indigene dei Palmares del Brasile, alla Comune di Parigi o all’esperienza di costruzione comunalistica in Cina, come la Comune di Chiliying, testo ri-editato in Venezuela di recente e tratto dal libro Que es la Comuna popular, realizzato nei primi anni settanta dalle edizioni in lingue estere di Pechino.

Lo stesso Chávez aveva indicato l’importanza strategica all’attuale presidente Maduro che ha la costruzione delle Comuni nella transizione al socialismo, secondo il percorso in atto in Venezuela.

Mario Neri ha inoltre ricordato come il processo venezuelano si sia evoluto ascoltando e assecondando “il ritmo del popolo” e le sue relative peculiarità; in uno dei suoi primi comizi, Chávez  ha esordito facendo recitare, insieme a lui, alla relativamente ristretta folla di presenti, il padre nostro, anni dopo spiegava a una folla di qualche centinaia di migliaia di presenti i concetti gramsciani di blocco storico e crisi egemonica.  Se non fosse riuscito a connettersi sentimentalmente con le stesse masse popolari non sarebbe mai riuscito a raggiungere i risultati che oggi può vantare il Venezuela bolivariano in termini di riconoscimento dei diritti civili, sociali ed umani, così come per la comunicazione, fino al punto di offrire asilo umanitario al perseguitato USA Edward Snowden.

Ha ricordato come inizialmente – alla fine degli anni ’90 – anche lui, come tanti che provenivano da esperienze di attivismo sociale e politico (come la Mensa dei Bambini Proletari ed il Centro Antifascista Proletario nel centro storico della Napoli degli anni ’70) guardassero con sospetto la parabola politica di Chávez, che taluni consideravano l’ennesimo caso di caudillismo populista e reazionario, funzionale all’imperialismo, e di come successivamente hanno dovuto rielaborare i propri pregiudizi.

Successivamente ha evidenziato come i mezzi di comunicazione di massa in Italia denigrino l’esperienza bolivariana mentre occultano le informazioni più interessanti per il popolo italiano; in pochissimi hanno saputo della visita in Italia del presidente Maduro, delle sue proposte al papa Francesco, al quale ha chiesto di appoggiare les misiones sociales, che con l’appoggio dei paesi dell’ALBA e della volontà politica del Vaticano potrebbero essere esportate in Africa ed aiutare, in maniera non assistenzialistica, ma attraverso il protagonismo dei popoli stessi, ad uscire dall’oppressione della miseria milioni di bambini, uomini e donne. Informazioni che potrebbero apparire innocue ma che evidentemente risultano pericolose per lo status quo.

Così come in pochi hanno saputo del giuramento degli stessi dirigenti venezuelani sulla tomba di Gramsci. Esperienze che in qualche modo ci parlano anche dei compiti che abbiamo alle nostre latitudini e degli errori, di settarismo e di identitarismo inconcludente che si continuano a commettere nel contesto italiano.

Simón Rodríguez, maestro di  Simón Bolívar, sosteneva che o inventamos o erramos, o inventiamo o sbagliamo, se non si praticano sforzi creativi genuini, e se, soprattutto, non si riconoscono le capacità creative dei popoli non sarà possibile assumersi la responsabilità di proporre un sistema alternativo a quello attuale, e questo non sarà possibile farlo senza il protagonismo partecipativo di massa, con tutti i limiti e le contraddizioni di cui le stesse larghe masse sono portatrici, limiti e contraddizioni che solo possono essere superate misurandosi nella pratica.

E stata avanzata la proposta dai presenti di contribuire all’organizzazione di viaggi di interscambio e di reciproca conoscenza tra Italia e Venezuela.

Infine, ci si è dati appuntamento per il 6 agosto alle ore 19,oo, in occasione della venuta in Italia di Germán Ferrer, coordinatore dell’Associazione Nazionale delle Reti ed Organizzazioni Sociali (ANROS), un momento di approfondimento per la costruzione di quel ponte tra l’Italia ed il Venezuela, tra Napoli e l’America latina che stiamo collaborando a costruire insieme alla Red de los Movimientos Sociales, un’opportunità per “fare rete” al di qua ed al di là dell’oceano, incontro che si terrà nella cappella dell’ex Asilo Filangeri a Napoli, spazio gestito dalla Comunità dei lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale, presso la cappella al piano terra.

de Ciro Brescia

El 25 de julio 2013 se realizó el encuentro de la mesa internacionalista y antimperialista en la Festa della Riscossa Popolare, en el Parque Camaldoli, en Nápoles, que  trató el tema de la actualidad de la Revolución bolivariana del Venezuela, aprovechando de la presencia en Nápoles de Mario Neri, facilitador del Circulo Bolivariano de los italo-venezolanos “Antonio Gramsci” de Caracas, que reside en Venezuela desde casi 40 años.

El evento fue util para resaltar la importancia de la partecipación masiva y popular en los procesos de la transformación social, cultural y politica como es el proceso en Venezuela.

Mario ha hecho hincapié en la importancia fundamental de los poderes creadores del pueblo, como el periodista y poeta venezolano Aquiles Nazoa expresó en su “Credo”.

Demostró que el gobierno revolucionario facilita la expresión y la práctica de esa creatividad a través de la construcción de nuevas instituciones basadas en los consejos comunales y las comunas socialistas, espacios económicos estratégicos, territorial, social, cultural y políticos en los que el pueblo ejerce su poder constituyente, el Poder Popular, fuente primaria y inalienable de todos los poderes establecidos. También es importante para los cambios en curso, aprender acerca de las experiencias actuales o pasadas de la construcción comunitaria de otros pueblos, de las formas de democracia directa que se han producido en la historia recién o pasada, como la comuna de los pueblos nativos de Palmarés en Brasil, la Comuna de París o la experiencia de la construcción comunalistica en China, tales como la Ciudad de Chiliying, texto reeditado en Venezuela recientemente, y basada en el libro “¿Que es la Comuna popular?”, realizado a principios de los años setenta por las ediciones en lenguas extranjeras de Beijing.

El propio Chávez ha señalado la importancia estratégica al actual Presidente Maduro que representa la construcción de las comunas en el proceso de transición al socialismo en Venezuela.

Mario también ha recordado que el proceso venezolano ha evolucionado escuchando y trabajando “al ritmo del publo”; en uno de sus primeras manifestaciones de masas, Chávez comenzó el mitín invitando los presentes a rezar la oración del Padre Nuestro, así como años después explicaba a una multitud mucho mas grande los conceptos gramscianos del bloque histórico y la crisis hegemónica. Si no hubiese sido capaz de conectarse emocionalmente con la misma masa, nunca habría alcanzado los resultados que ahora puede enseñar la República Bolivariana de Venezuela en términos de reconocimiento de los derechos civiles, sociales y humanos, así como en le campo de la comunicación hasta el punto de ofrecer asilo humanitario a los perseguidos por EE.UU. como Edward Snowden.

Posteriormente demostró como los medios de comunicación de masas en Italia denigran la experiencia bolivariana, ocultando las informaciónes más interesantes para el pueblo italiano; subrayó como muy pocos han oído hablar de la visita a Italia del presidente Maduro y de sus propuestas al Papa Francisco, a quien pidió el apoyo a las Misiones Sociales, que con el resplado de los países del ALBA y el compromiso político del Vaticano se podrían realizar en África y contribuir, de una manera no asistencialista, sino a través de la dirección de los propios pueblos, a salir de la opresión de la miseria a millones de niños, mujeres y hombres. Informaciónes que pueden parecer inofensivas, pero que, evidentemente, son peligrosas para el status quo tambien en Italia.

Así como pocas personas han oído hablar del juramento de los dirigentes venezolanos sobre la tumba de Gramsci (ni siquiera el periodico L’Unità, fundado por el mismo Gramsci y hoy gestionado por una seudo-izquierda, reportó este acontecimiento). Experiencias que de alguna manera también hablan de las tareas que tienen los italianos en sus latitudes y de los errores de sectarismo esteriles que se continúan a practicár en el contexto italiano.

Simón Rodríguez, maestro de Simón Bolívar, afirmaba que  “o inventamos o erramos”, si no se practican esfuerzos creativos genuinos, y si, por encima de todo, no reconocemos la capacidad creativa de la gente, no será posible asumirse la responsabilidad de proponer un sistema alternativo al actual, y esto no será posible sin la participación protagonica de la masa, con todos las hidosincrasiás o contradicciones de las cuales los mismos peublos son afectos, contradicciones que sólo pueden ser superados con el compromiso cotidiano.

Ha sido propuesto por los presentes organizar viajes de intercambio y conocimiento mutuo entre Italia y Venezuela.

Por último, se decidió fijar para el 6 de agosto a las o7, oo pm, con motivo de la llegada a Italia de Germán Ferrer, coordinador de la Asociación Nacional de Redes y Organizaciones Sociales (ANROS) y el Consul venezolano en Nápoles Bernardo Borges, un encentro de reflexión para la construcción de ese puente entre Italia y Venezuela, entre Nápoles y América Latina que estamos trabajando juntos para construir la Red de los Movimientos Sociales, una oportunidad para el “construir redes” de este lado y más allá del océano, una reunión que se llevará a cabo en la capilla de la antiguo asilo Filangieri en Nápoles, espacio gestionado por la Comunità dei lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale.

Dalla Bolivia per la legalità internazionale fatta a pezzi dalle potenze

di Marinella Correggia

La Coordinadora nacional para el cambio (Conacam), coordinamento boliviano di decine di organizzazioni indigene, sindacali, contadine e politiche (*) riunitasi d’emergenza il 17 luglio a La Paz, «convoca le organizzazioni sociali antimperialiste e anticolonialiste, di lavoratori urbani e rurali, di contadini  di popoli e nazioni indigeni del mondo (…) al Vertice internazionale dei popoli in difesa dei diritti umani e del pieno rispetto dei trattati e convenzioni internazionali che reggono la convivenza fra gli stati», a Tiquipaya (Cochabamba) il 31 luglio e l’1 e il 2 agosto.

Il punto di partenza e tema centrale è il sequestro subito agli inizi di luglio dall’aereo del presidente boliviano Evo Morales Ayma, al quale varie potenze europee – Italia Spagna Francia Portogallo  – hanno negato il diritto di sorvolo costringendolo a un atterraggio di emergenza a Vienna per il rifornimento di carburante. La ragione? Fare un ennesimo favore ai sospettosi Usa, i quali temevano che l’aereo, in provenienza da Mosca (Morales aveva partecipato al vertice dei paesi produttori di gas) avesse a bordo Edward Snowden, agente pentito della Cia, il quale dopo aver reso noto al mondo che gli Stati uniti spiano anche i loro alleati europei si trova tuttora in un aeroporto russo in attesa di asilo, magari in un paese latinoamericano. Il documento dei boliviani definisce il gesto di questi quattro paesi «flagrante terrorismo di stato da parte di governi delle potenze imperialiste e colonialiste, dietro istruzioni impartite dagli Stati Uniti» spiega il documento dei movimenti boliviani;  «una grave minaccia alla vita del presidente» (l’aereo aveva infatti problemi di riapprovvigionamento) e «un’aggressione contro la dignità del popolo boliviano e latinoamericano». Per i movimenti, con il sequestro di Morales hanno raggiunto il culmine «le continue violazioni, da parte degli Stati Uniti e delle potenze loro alleate, dei trattati e delle convenzioni internazionali che disciplinano la pacifica convivenza fra gli Stati e il cui adempimento è garanzia del rispetto dei diritti umani dei popoli che fanno parte dell’Onu». Anche lo spionaggio denunciato da Snowden è una violazione dei diritti dei popoli e delle regole internazionali.

La denuncia della Coordinadora boliviana non trascura una delle principali violazioni della legalità internazionale messe in atto da certe potenze: la guerra, diretta o per procura. Quasi all’inizio del documento, infatti, si legge: (i governi delle potenze imperialiste) «legati alla Nato, eseguono continuamente aggressioni armate in diversi territori sovrani, non soltanto nel nostro continente, ma anche nei paesi fratelli di altri continenti, come è successo negli ultimi tempi in Libia e Siria, sotto la leadership degli Usa». I paesi e i popoli dell’Alleanza Alba  confermano la loro posizione per la pace e il dialogo e contro l’ingerenza armata. Nel marzo 2011, Hugo Chávez e Fidel Castro chiesero un appoggio internazionale (che non ottennero) per un’azione di mediazione in Libia che avrebbe evitato la guerra della Nato. E quando questa iniziò, il presidente Evo Morales chiese che a Obama fosso tolto il Nobel per la pace. Nel caso della Siria, come il nostro sito ha più volte ricordato, i paesi dell’Alba sono stati i più coerenti nel denunciare – anche nelle diverse sedi Onu –  la guerra per procura alimentata dalle potenze Nato e petromonarchiche: ecco un’altra delle loro flagranti violazioni del diritto internazionale, come abbiamo più volte fatto notare.

L’incontro a Cochabamba sarà anche l’occasione per analizzare «gli effetti della presenza di imprese multinazionali e gruppi affini all’imperialismo che operano nei nostri territori» visto che i popoli dell’America latina «affrontano da oltre 500 anni l’assalto colonialista e imperialista delle grandi potenze che sfruttano risorse, lavoratori e popoli e nazioni indigene attraverso le multinazionali».

Ricordiamo anche che la Bolivia è stata fatta oggetto di campagne di destabilizzazione a opera anche di «organizzazioni non governative» in prima linea anche nel fomentare le ingerenze in Libia e Siria. Ad esempio Avaaz.

Germán Ferrer: «Lottare per i più bisognosi sarà sempre una causa giusta»

Proponiamo qui di seguito una interessante intervista al Coordinatore dell’ANROS, Germán Ferrer

di Jhonny Castillo

Seduto su una vecchia poltrona di legno, sorseggiando un caffè insieme ad alcuni amici di infanzia, il deputato Germán Chino Ferrer ha iniziato la sua conversazione  con la tranquillità ed il silenzio che si respira nel patio della casa della Zia Carolina nel caratteristico barrio Torrellas di Carora.

Ferrer è stato deputato della Assemblea Nazionale per lo Stato Lara, membro della Commissione delle Finanze e della Sottocommissione delle banche e delle assicurazioni. Inoltre è stato candidato alle elezioni interne del Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) nelle quali sono stati scelti i candidati per le elezioni del 26 settembre del 2010.

Ferrer, è un uomo dai solidi principi e di forti convinzioni, anche se di poche parole; è conosciuto – tra le altre cose – per essere un politico particolare, sui generis, ha sempre preferito mantenere un profilo basso. Nonostante la sua reticenza a parlare degli aspetti più interessanti della sua carriera politica e della sua vita privata, talvolta ha lasciato da parte la sua solita discrezione decidendo di condividere i suoi trascorsi esistenziali; all’età di 16 anni entrò nelle fila del Partito Comunista del Venezuela e più tardi nel movimento guerrigliero.

Germán Ferrer iniziò a partecipare alla vita politica in giovanissima età, quando era appena un ragazzino, forse ancora ingenuo, con gli stessi sogni e le stesse speranze di tutti coloro che andavano in giro per le strade roventi e polverose di Torrellas.

«Mi sono dedicato alla militanza politica come i miei genitori adottivi, ero già orfano di padre e all’età di quindici anni se ne andò anche mia madre», afferma Ferrer con un ombra di malinconia in volto.

La famiglia Ferrer, così come altre del quartiere, ha dato rifugio a tante donne e tanti uomini che facevano parte di movimenti e gruppi rivoluzionari che negli anni sessanta e settanta furono perseguiti dai servizi di intelligence dello Stato. Raccontano alcuni bene informati che nella casa di Carlos Ferrer si rifugiò per un tempo il famoso Comandante Argimiro Gabaldón e tanti altri che fecero parte delle colonne guerrigliere organizzate nell’occidente del Paese per lottare contro i governi dei partiti AD e Copei.

Precisa Ferrer: «Indubbiamente siamo stati influenzati sin da bambini dall’impegno e dallo spirito di solidarietà mostrata da parte di Zio Carlos e per il coraggio e la determinazione di altre famiglie ed amici che difesero una causa che non solo era, ma continua ad essere giusta, la difesa degli interessi del nostro popolo e soprattutto dei più bisognosi».

Gli chiediamo come arrivò al movimento guerrigliero, ci risponde che con le letture del Manifesto Comunista di Marx ed Engels, e di altri ideologi e teorici del socialismo si è andato formando una coscienza critica e rivoluzionaria, che rafforzata con il trionfo della Rivoluzione Cubana, lo portò a credere nella lotta armata come una via possibile per conquistare la liberazione della Patria.

«Dopo un periodo molto breve come militante del Partito Comunista a Carora, andammo a Caracas nel 1962, e lì successivamente abbiamo cominciato a partecipare alla presa dei barrios, allo scontro con i corpi repressivi e agli attacchi alle sedi di interesse nordamericani», aggiunge rispondendo ad un telefono che non ha mai smesso di squillare.

Ci spiega che durante questo periodo ha fatto parte di una Unidad Táctica de Combate (UTC) appartenente alla Fuerzas Armadas de Liberación Nacional (FALN) che aveva come campo d’azione la capitale Caracas, e soprattutto nei barrios popolari dove ci racconta che hanno sempre avuto il sostegno di diversi vicini e commercianti che simpatizzavano con la causa, nonostante il pericolo che significasse tale sostegno e la conseguente violenta repressione che in quell’epoca il governo aveva scatenato.

Ci dice che ha formato parte di uno dei due gruppi che nel novembre del 1966 partirono per Cuba da Porto Cabello, per addestrarsi e formarsi, con due fragili e rudimentali imbarcazioni che naufragarono vivendo momenti molto difficili nel Mar dei Caraibi ma che alla fine riuscirono ad arrivare alle coste cubane.

Germán Ferrer ricorda, in relazione a questo storico episodio, che i membri delle due spedizioni furono sul punto di affondare a causa dei forti venti che interessarono la loro rotta, alla fine la prima barca si incagliò nei pressi delle coste cubane e l’altra, dove lui viaggiava, fu colpita da un ciclone di fronte alla Giamaica e il motore si fuse, per dodici ore furono alla deriva,  trascinati dalle correnti del golfo del Messico, fino a quando una nave cubana di passaggio non li salvò: «L’idea era andare a Cuba per ricevere l’addestramento e successivamente entrare in Venezuela dalle Coste dello Stato Falcón per poi raggiungere i differenti fronti guerriglieri e continuare la lotta dalle montagne».

Per quanto concerne la sua permanenza a Cuba, ci dice Ferrer che fu un’esperienza che lo ha segnato per tutta la vita, poiché stando lì si è formato una visione ed una filosofia del mondo che ha modellato parte del suo carattere e della sua personalità: «Nonostante fossero tempi difficili poiché non abbiamo potuto avere una vita normale come qualsiasi giovane della nostra età, sentivamo un grande amore ed un grande impegno per ciò che facevamo. Inoltre vedevamo Cuba ed il Comandante Fidel come un faro luminoso che ci guidava nel magnanimo proposito di ritornare a salvare il paese dalla repressione e dalla subordinazione all’impero».

Ritornato in patria insieme ai suoi compagni nel luglio del 1971, Germán Ferrer entra a far parte del Grupo Punto Cero per continuare la lotta, ma da quello che ci dice, arrivarono un po’ sfasati rispetto a quello che stava accadendo nel paese. Ingaggiarono scontri frontali piuttosto temerari con l’esercito, soffrirono molti caduti in combattimento.

Nel mezzo del fragore, delle alterne vicende, e anche di alcune delusioni dovute ad errori politici che commisero, nel marzo del 1972 Germán El Chino Ferrer fu arrestato e rinchiuso nelle celle tenebrose della Caserma San Carlos, dove ha espiato una condanna di quattro anni durante la quale ha sofferto torture e isolamento per avere aderito ad una causa che continua a considerare giusta. «Lottare per i più bisognosi, per la democrazia e la solidarietà, sarà sempre una causa giusta. Nonostante tutte le sofferenze e le molte frustrazioni, l’aspetto più importante è che stiamo dando battaglia per questa rivoluzione».

[trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Danilo Della Valle – si ringrazia José Leonardo Paniccia per il sostegno]

La stampa italiana vista dal Venezuela

di José Sant Roz *

La corrotta stampa italiana conduce contro il Venezuela una guerra bestiale. Isterici attacchi che fanno sembrare dei poppanti gli spagnoli “El Pais” e del suo Grupo Prisa.

Il più grande gruppo editoriale d’Italia, “La Repubblica” e “L’Espresso” (che dovrebbero essere di sinistra), non lesinano argomenti di ogni tipo per cercare di infangare il Venezuela. Sono sufficienti due esempi: dopo la vittoria elettorale in Venezuela di Maduro, “La Repubblica” ha parlato esplicitamente di frode (ma senza prove) e di “volontà popolare calpestata e manipolata”. Inoltre, quando si è scatenata la violenza provocata dall’opposizione del Majunche, ha commentato semplicemente: “scoppia un’ondata di violenza scatenata dal furto elettorale e dalla forte repressione poliziesca”…

Ovviamente evitando di parlare dei morti causati dalle bande impazzite dell’opposizione, istigate dalla rabbiosa chiamata del maledetto Majunche. Questi media – alla stregua degli spagnoli – difendono i propri interessi in America Latina, collegati alle transnazionali, insieme ai gringos. Sono mafie potenti. Tutta l’Europa vive di mafie (e ovviamente fanno le guerre). In quella merda il discorso sulla democrazia è solo una squallida barzelletta. Solitamente la versione delle notizie sul Venezuela proviene da fonti come The Miami Herald, confezionate dalla SIP.

Durante 14 anni di governo bolivariano non hanno mai scritto nulla di buono sul Venezuela. Questa è la loro strategia. Per loro Chávez era un mostro, un dittatore, un ladro o uno stupratore contumace dei diritti umani. Invece l’Italia, la Grecia, la Francia, la Germania e gli Stati Uniti sarebbero i campioni che dovrebbero dettare gli strandard del progresso e del benessere sociale a tutto il mondo, ma ogni giorno che passa annegano ulteriormente nella merda.

Ad ogni italiano andrebbe praticato un esame copro-rettale per verificare se sanno cantare come Caruso o giocare al calcio come Messi, visto che è l’unica cosa che a loro interessa a questo mondo: dopo bisognerebbe lanciarli in aria fino a che non si schiantano davvero.

Che babbei. Gli mancano gli attributi per guardare in faccia la realtà e riconoscere il disastro verso il quale stanno andando incontro, e continuano a vivere sorbendosi tutti i miasmi dell’informazione che costruiscono i loro media sul Venezuela.   

Qui alcune prove

Director de Ensartaos.com.ve. Profesor de matemáticas en la Universidad de Los Andes (ULA). autor de más de veinte libros sobre política e historia.

[Trad. dal castigliano di Ciro Brescia]

Racconti di Cuba

Poeti, artisti, scrittori, cineasti cubani noti e meno noti; e poi la bambina namibiana scampata all’esercito sudafricano; la piccola angolana mutilata che corre ad abbracciare Fidel: sono loro e molti altri a popolare i Racconti di Cuba di Alessandra Riccio che questa volta, abbandonando i panni della critica letteraria, si lascia andare a una prosa lieve e vibrante.

Dagli anni della “giovane e spavalda” Rivoluzione alla crisi del “periodo speciale” passando per la guerra in Angola, tra momenti di grande effervescenza e crisi profonda, la storia di Cuba è riletta attraverso i frammenti di vita di uomini e donne che ne hanno segnato profondamente la storia e la cultura.

Diciotto racconti di vita vera che, come le tessere di un mosaico, vanno a ricomporre la quotidianità degli abitanti di una Cuba multietnica, povera ma al contempo ricca, visceralmente amata e odiata, laica o credente, passata attraverso dittatura e rivoluzione, il tormento e mille altre contraddizioni. Sullo sfondo non sbiadiscono mai la vivacità dell’isola caraibica, i colori delle strade dell’Avana, l’impetuosità del mar Caribe.

Un libro che da una prospettiva del tutto insolita e originale, aiuta a comprendere dall’interno la meravigliosa complessità della Perla dei Caraibi.

(VIDEO) Evo Morales a Quito

Evo Morales a Quitoa cura di Davide Matrone

Quitolatino.- EVO MORALES PRESIDENTE DELLO STATO PLURINAZIONALE DELLA BOLIVIA

«…realmente, compagni e compagne, non si può comprendere come il governo degli Stati Uniti controlli mediante lo spionaggio i proprio alleati. Risulta comprensibile che spii Rafael Correa, Evo Morales, Maduro, Ortega, però come si può concepire lo spionaggio dei suoi alleati europei; per non parlare di quelli latinoamericani come Colombia, Perù e Messico. Gli Stati Uniti spiano anche loro.

Sappiamo benissimo come gli USA, negli ultimi anni abbiano cercato argomenti non solo per controllare i paesi se non anche per invaderli.

Io mi domando ancora oggi: a cosa serve la NATO? Perché ancora esiste la Nato? Lo sappiamo benissimo quando e perché è nata, cioè per contrastare l’avanzata dei paesi comunisti e socialisti. Oggi invece serve ad invadere e dominare altri paesi per sfruttarne le risorse naturali.

Per questo motivo fratelli e sorelle, dobbiamo avere maggiore coscienza politica non solo per la nostra Democrazia o per i nostri principi, se non per la difesa delle nostre risorse naturali.

Oggi che i paesi più industrializzati del pianeta non saccheggiano più le nostre risorse naturali vivono delle crisi finanziarie; probabilmente se avessero continuato a rubare oggi non avrebbero sofferto queste crisi finanziarie. Io non sono un’economista, non me ne intendo molto di economia però stiamo vedendo bene quello che sta accadendo in Europa».

RAFAEL CORREA PRESIDENTE DELL’ECUADOR

«… non dobbiamo cadere in errore, gli Stati Uniti hanno un potere che non rappresenta più nessuno a livello popolare però detengono ancora un immenso potere economico, mediatico, internazionale ed ora emerge il nuovo controllo che mettono in campo cioè lo spionaggio. Uno spionaggio a livello nazionale voluto e finanziato da alcuni settori della destra ed estrema destra americana. Questi poteri sono sempre lì, aspettano che noi commettiamo qualche errore. Come ha detto Evo Morales, dobbiamo essere sempre attenti a non commettere nessun errore.

Certo siamo esseri umani e possiamo sbagliarci però noi, un presidente come Evo Morales, un presidente della Nuestra América non lo tradiremo mai.

Abbiamo bisogno dell’appoggio delle organizzazioni sociali perché queste organizzazioni insieme al potere popolare possono davvero confrontarsi contro il potere dominante di cui prima vi parlavo.

Però c’è sempre il pericolo, la destra si oppone, le oligarchie si oppongono. Anche loro hanno le loro organizzazioni sociali, in funzione della difesa del proprio status quo, del proprio interesse, ma loro non sanno nulla della rivoluzione ciudadana, della partecipazione popolare.

Non dobbiamo cadere nell’errore.

Molte volte ci sono infiltrati nelle organizzazioni sociali in funzione reazionaria e molte volte per gli errori delle nostre organizzazioni sociali. Non dobbiamo cadere nel rischio di mettere in pericolo il nostro processo».

Quando il debito non è legittimo: l’esempio che arriva dall’Ecuador

di Elvira Corona

Articolo tratto dal Granello di sabbia. Info 231 di Giugno 2013

Il mensile per un nuovo modello sociale di Attac Italia

Euro Rotture

Era il 20 novembre del 2008 quando il Presidente de la Repubblica Rafael Correa Delgado, annunciava che il governo ecuadoriano non avrebbe pagato il debito estero perché “illegittimo, corrotto e illegale”, dopo aver sottolineato che il suo ammontare doveva essere ripartito tra  i responsabili che lo avevano contratto con mala fede, ricatto e tradimento. “Ognuno di loro dovrebbe assumersi le proprie responsabilità e pagarlo con i propri beni personali”.

 

Qualcuno poteva pensare che fosse una dichiarazione da campagna elettorale, invece faceva seguito alla presentazione dei risultati di una Commissione di Auditing Integrale per il Credito Pubblico (CAIC) istituita poco dopo la sua prima elezione.  Nel suo intervento Correa sottolineava che per il suo governo il criterio di sostenibilità del servizio al debito doveva considerare come conseguenze il benessere del popolo ecuadoriano “perché né questo governo né il suo popolo hanno avuto responsabilità dei fallimenti”. Correa in quell’occasione parlava anche della necessità di riformare l’architettura finanziaria mondiale, condizione necessaria per una soluzione non solo parziale del problema e anticipava la proposta del governo ecuadoriano per la creazione di un Tribunale Internazionale di Arbitrato sul Debito Sovrano alle Nazioni Unite.

Per la prima volta nella storia un capo di Stato rompeva un tabù. Fino ad allora il pagamento del debito veniva presentato come inevitabile, indiscutibile e obbligatorio. L’unica discussione possibile è sulla modalità di ripartizione dei sacrifici necessari per recuperare le risorse sufficienti al fine di rispettare gli impegni del paese indebitato. I governi  che hanno chiesto i prestiti sono stati eletti democraticamente quindi tutti i suoi atti sono legittimi. Bisogna pagare. Già nel 2005 Rafael Correa da ministro dell’Economia e Finanze sosteneva che l’80% delle entrate ottenute dalla vendita del petrolio ecuadoriano dovevano essere destinate alla popolazione e solo il 20% al pagamento del debito. Di fronte alle pressioni della Banca Mondiale si dimise da ministro sostenendo che non si sarebbe sottomesso ai dettami dell’istituzione internazionale.

Nel 2008 da presidente dell’Ecuador, dichiarò che il debito contratto dal paese era da considerare illegittimo, odioso e incostituzionale, visto che obbligava a destinare più del 50% delle risorse economiche del paese al pagamento dello stesso debito – prima di tutto la vita, poi il debito –  dichiarava allora. Il governo Correa dovette fare i conti con le pressanti richieste della Banca  Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, espulse gli inviati di queste due istituzioni in Ecuador e creò un Comitato di Audit per analizzare tutte le componenti del debito accumulatosi negli ultimi 30 anni. Questo Comitato concluse i propri lavori dichiarando che gran parte del debito di governi precedenti era illegittimo, in particolare i contratti di rinegoziazione risalenti al 2000.  In conseguenza ai risultati dei lavori del Comitato il governo dichiarò lo stop ai pagamenti per il 70% del debito dell’Ecuador. Di fronte all’interruzione dei pagamenti i creditori e i detentori di titoli di stato li rimisero sul mercato, con un valore di circa il 20% più basso rispetto al valore nominale. In realtà lo stato ecuadoriano ricomprò 3.000 milioni del suo stesso debito, operazione che di fatto ha significato una riduzione del debito reale e degli interessi, che si è tradotta  in un risparmio di 7.000 milioni di dollari per lo stato.

L’indebitamento pubblico metteva in luce un problema storico del paese, non solo per le sue dimensioni finanziarie e la sua incidenza nel bilancio dello stato, quanto per la sua incidenza come fenomeno geopolitico ed economico nella vita sociale. Questo problema si è acutizzato ed è diventato sempre più complesso negli ultimi tre decenni e ormai veniva considerato uno strumento di  dominio sia per le condizioni che venivano imposte, sia per l’impegno ineludibile di mettere a disposizione risorse pubbliche al servizio del debito a prescindere dalle disponibilità delle casse pubbliche del paese. Questa situazione ha motivato il governo nazionale ecuadoriano a prendere la decisione, la prima nella storia, di creare una Commissione di Audit – composta sta economisti, avvocati, esperti vari anche stranieri, ma anche una larga rappresentanza della società civile – che ne stabilisse la legittimità, la legalità, e la pertinenza dei prestiti e delle negoziazioni e rinegoziazioni; con in più il compito di segnalare le responsabilità e corresposabilità dei creditori, gli impatti sociali, economici e ambientali, e sopratutto che permetta di mettere in atto azioni sovrane e riparatorie rispetto ai pagamenti già effettuati e a quelli futuri.

I lavori durarono poco più di un anno. La CAIC analizzò i processi di indebitamento dell’Ecuador dal 1976 al 2006. Nel documento finale di 172 pagine è contenuto il risultato di analisi tecniche e giuridiche che mostrano il lato più oscuro delle politiche neoliberali. Il debito estero del paese passò da 240 milioni di dollari del 1970 a 17.400 milioni del 2007. Senza dubbio questo forte indebitamento non ha dato spazio a politiche volte al superamento della povertà, le disuguaglianze e l’arretratezza del paese latinoamericano. “È stato semmai strumento di sottomissione politica e saccheggio di risorse naturali da parte di privati e di organismi internazionali come pretesto per gestire questioni relative alle conseguenze dei crediti concessi” si legge nel documento.  Nel lavoro della commissione si dimostra l’illegalità e di conseguenza l’illegittimità del processo di indebitamento. Si mette in evidenza il carattere “odioso” del debito estero contratto durante la dittatura militare negli anni ’72/’79. Dal 1976 al 1982 vennero concessi prestiti per oltre 3.000 milioni di dollari di cui un terzo destinati al bilancio della difesa. È importante segnalare poi che il debito estero dell’Ecuador è stato oggetto di successive rinegoziazioni considerate fraudolente perché i rispettivi governi accettavano condizioni come quelle di contrarre nuovi debiti per pagare vecchi debiti, interessi  di mora e interessi sugli interessi.

Queste condizioni furono accettate nel Piano Brady del 1993, fortemente appoggiato del FMI, nel Piano  Adam del 1999 e nello scambio di titoli Brady e di Eurobond Global nel 2000. In questo ultimo caso le ripercussioni per l’Ecuador furono fortissime. “È evidente – si legge nel documento finale – che  il processo di indebitamento dell’Ecuador avvenuto tra il 1976 e il 2006 si è creato a beneficio del settore finanziario e di imprese multinazionali colpendo visibilmente gli interessi della nazione. Le condizioni imposte e il pagamento del debito limitano i diritti fondamentali delle persone e dei popoli, acutizzando la povertà, aumentando l’emigrazione e deteriorando le condizioni ambientali del paese”.  Nelle intenzioni del governo il lavoro della  CAIC costituisce un primo passo de quello che dovrebbe essere un processo permanente, almeno fino a quando autorità del governo e della società in generale non arrivano conoscere tutta la realtà su come si è costituito e prodotto l’indebitamento pubblico che senza dubbio ha deteriorato le condizioni di vita degli ecuadoriani e la loro giusta aspirazione a realizzare il Buen Vivir.  

 

A fine 2008 quando stava per terminare il lavoro della Commissione, la crisi che aveva investito nel Nord del mondo non mostrava nessun vincolo diretto con il debito e neppure si intravedeva il nuovo protagonismo del FMI che di li a poco avrebbe iniziato a proporre piani di salvataggio ai paesi europei, non più latinoamericani. Oggi, i piani di salvataggio di Grecia e le politiche di austerity imposte al resto d’Europa mostrano come il tema del debito acquista una nuova dimensione. Per questo una revisione del debito come quella che è avvenuta in Ecuador può dare spunti interessanti e aggiungere visioni differenti e alternative che mostrano come dal Sud del mondo possano arrivare spunti interessanti per soluzioni a livello globale.

Mairead Maguire, Nobel per la Pace, in Vaticano: «Non-violenza e dialogo sono l’unica via per la pace»

ASIA/SIRIA – 2013-07-24

Città del Vaticano (Agenzia Fides) – Non violenza, dialogo, riconciliazione, pace sono “le parole chiave per risolvere la crisi siriana”. Sono anche “l’unica strada possibile per evitare una degenerazione regionale del conflitto, con esiti imprevedibili”. Sono “i valori che promuove fortemente la Chiesa cattolica, secondo il messaggio evangelico di Gesù Cristo”: è quanto dice, in colloquio con l’Agenzia Fides, Mairead Maguire, Premio Nobel per la Pace nel 1976, per l’impegno nella soluzione del conflitto in Irlanda del Nord. La Maguire è stata nei giorni scorsi in Vaticano, dove ha avuto colloqui con il Segretario per i Rapporti con gli stati, l’Arcivescovo Dominique Mamberti, e con il Presidente del Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, il Card. Peter Turkson. “Ho espresso il desiderio di incontrare Papa Francesco e torno a casa piena di speranza che un forte messaggio di pace verrà dalla Santa Sede a sostegno della pace in Siria”, spiega a Fides.

“Nei colloqui intercorsi, abbiamo concordato che la Chiesa cattolica deve promuovere un forte messaggio di pace per la Siria. Urge un messaggio molto chiaro di nonviolenza e di riconciliazione come strade per la pace. Sono le vie che ha scelto Gesù”, chiarisce Maguire, che è di fede cattolica, e responsabile dell’Ong “Peace People” a Belfast. “E’ oltremodo necessario rilanciare nel mondo un messaggio di pace, una parola sull’amore al nemico e sul perdono. Se questo messaggio non lo diffonde la Chiesa, chi potrà offrirlo?”, nota.

Parlando a Fides dello scenario siriano, la Nobel nota che “la situazione sul terreno è oggi molto complicata da nuovi focolai, nuovi attori di violenza e da nuove armi. Le cifre delle vittime sono spaventose e, come ha detto l’Onu, comparabili solo genocidio del Ruanda. Ora, dopo due anni di conflitto, occorre fermarsi e sostenere chi cerca di far incontrare le persone, riproporre il dialogo, iniziando con un cessate-il-fuoco e con uno stop alla violenza indiscriminata. Occorre riconsiderare con forza una soluzione politica”.

Maguire ha compiuto un viaggio in Siria nel maggio scorso, a capo di una delegazione di pace: “Siamo stati in Siria e in Libano, visitando i campi profughi. Abbiamo partecipato a incontri di preghiera interreligiosa. Abbiamo incontrato gente comune, membri del governo e dell’opposizione. La maggior parte dei gruppi, civili e religiosi, invoca il dialogo e preme per la pace. La popolazione è stanca di morte, violenza e distruzione”. “Non possiamo che ribadire – prosegue – che la pace la riconciliazione sono il bene supremo e molte persone in Siria hanno scelto questa strada. Vi sono molte iniziative dal basso, magari poco note, come quella del movimento ‘Mussalaha’, sostenuta dal Patriarca Gregorio III Laham”.

In concreto, suggerisce Maguire, “occorre fornire supporto tecnico e materiale per promuovere una de-escalation del conflitto. Si deve parlare con tutti e riavviare un dialogo nazionale, tra governo e opposizione, tracciando una transizione, nel rispetto del principio di autodeterminazione, chiedendo al popolo siriano cosa vuole”.
Maguire propone di applicare il modello che ha portato la pace in Nordirlanda, in una società dove erano radicati odi e divisioni: “Abbiamo iniziato a promuovere amicizia, perdono e riconciliazione dal basso, per poi portarli a livello politico e istituzionale. Così può accadere per la Siria, ma le armi debbono tacere. La comunità internazionale dovrebbe supportare quanti promuovono questo approccio per un dialogo inclusivo”, conclude.

(PA) (Agenzia Fides 24/7/2013)

Cuba mette in guardia contro i pericoli di un intervento straniero in Siria

di Francesco Guadagni

Cuba ha messo in guardia contro i pericoli di un intervento straniero in Siria, per le gravi conseguenze di un tale intervento per la pace e la sicurezza internazionale, in particolare in Medio Oriente.

Nella stessa riunione sulla situazione in Medio Oriente, il delegato cubano alle Nazioni Unite, Rodolfo Reyes, ha condannato l’uso del termine “protezione dei cittadini” come pretesto per intervenire negli affari della Siria.

Egli ha altresì espresso preoccupazione per la persistenza di alcuni paesi che chiedono di modificare il regime siriano.

Reyes ha rifiutato i tentativi da parte della NATO di ottenere l’approvazione del Consiglio per un intervento di sicurezza in Siria, dicendo che le Nazioni Unite dovrebbero rafforzare la pace e prevenire la destabilizzazione del paese, invece di aiutare, finanziare e condurre i gruppi armati che portano avanti i loro atti terroristici.

(VIDEO) Campagna mediatica contro il vicepresidente dell’Andalusia: il sequestro dei media da parte del settore bancario

Capítulo Cubanodi José Manzaneda*
Volete sapere in che cosa consiste quel che chiamano “libertà di stampa”? Ve lo spieghiamo con un esempio attuale.
Diego Valderas, vicepresidente della giunta dell’Andalusia, ora governata da un patto tra il Partito Socialista (PSOE) e Izquierda Unida (Sinistra Unita), in questi giorni è il bersaglio di una campagna mediatica diffamatoria (1).
Valderas ha annunciato, ad esempio, che la giunta dell’Andalusia favorirà rapporti di cooperazione diretta -economica ma anche politica- con i governi rivoluzionari dell’America Latina, in particolare con Cuba e il Venezuela (2). Con queste parole ha parlato della Rivoluzione cubana durante l’ultimo Incontro Andaluso di Solidarietà con Cuba: “Quel che dobbiamo a Cuba è molto di più di quello che Cuba deve a noi (Andalusia): l’esempio che offre esportando solidarietà, integrità politica, coraggio e sofferenza rivoluzionaria, la speranza che è possibile fermare e sconfiggere il capitalismo, non inchinarsi o inginocchiarsi davanti imperialismo” (3). Ed ecco cosa disse durante un omaggio postumo tenutosi a Madrid in memoria del leader della Rivoluzione Bolivariana Hugo Chavez. “Lottiamo per una società più giusta, dove ci siano dirigenti e governi in grado di difendere apertamente, fermamente, coloro che vivono in basso contro quelli che vivono in alto, gli sfruttati contro gli sfruttatori. Questo era il significato del discorso e dell’azione politica del comandante Hugo Chávez” (4).
Ma non sono state le sue attitudini in politica estera ad aver scatenato la citata campagna mediatica. Ricordiamo che pochi mesi la giunta dell’Andalusia, su iniziativa della Izquierda Unida, ha approvato un decreto che permette il sequestro di abitazioni vuote di proprietà delle entità bancarie (5).
La reazione della banca non si è fatta attendere. E si è manifestata attraverso i media che controlla più direttamente, come il potente diario ABC. L’ABC appartiene al Gruppo Vocento, il cui azionariato è nelle mani di diverse famiglie legate alla banca spagnola e ad altri potenti settori (6): il suo principale azionista è la famiglia Ybarra, molti de cui membri sono alti funzionari di una delle principali banche, la BBVA (7).
Il diario ABC –servendosi di informazioni private evidentemente ottenute dalla banca- ha pubblicato di recente che Diego Valderas acquistò nel 1995, attraverso una banca, un appartamento che era stato espropriato ad un’altra famiglia (8). Il messaggio è chiaro: colui che si dice difensore delle persone sfrattate dalle banche in passato ha approfittato delle loro disgrazie (9).
A nulla è servito che lo stesso Valderas abbia smentito completamente questa accusa e abbia confermato che acquistò la sua casa -attraverso un’ipoteca comune- tre anni dopo l’esproprio (10). L’accusa, trasformata in realtà informativa dall’ABC, è stata poi riprodotta da giornali, talk show televisivi e radiofonici, compresi i programmi televisivi di maggiore audience. L’accusato -senza alcun diritto di difesa- è stato condannato socialmente dai media (11).
La portavoce della Piattaforma delle Persone Colpite dal’Ipoteca Ada Colau ha difeso Diego Valderas, e definito queste informazioni come “un’offensiva mediatica” contro il governo regionale andaluso a causa del citato decreto (12).
Questa campagna ricorda la stessa che portò avanti, per anni, lo stesso diario ABC, contro la vecchia giunta di Siviglia, anch’essa governata da una coalizione PSOE-Izquierda Unida. L’ABC pubblicò uno dopo l’altro ogni tipo di montaggio e menzogna sugli accordi di cooperazione di Siviglia con Cuba (13). Il suo obiettivo di allora era macchiare, ad esempio, l’immagine del programma di alfabetizzazione che si stava appena diffondendo nella città andalusa con assistenza tecnica del Governo cubano, e l’esempio -così fastidioso per i potenti- che un paese povero come Cuba fosse in grado di aiutare le fasce deboli di una città del cosiddetto Primo Mondo (14).
L’attuale campagna mediatica contro il Vicepresidente dell’Andalusia Diego Valderas è un eccellente esempio del controllo esercitato dalle banche e dai grandi gruppi di potere economico sui media. E un’ulteriore prova che l’Europa dovrebbe seguire il sentiero tracciato da alcuni paesi dell’America Latina per smantellare i latifondi mediatici, veri predatori della libertà di informazione, parola e stampa.
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19 luglio 1979: 34 anni dal trionfo della Rivoluzione Sandinista in Nicaragua

da itanicaviterbo.org

«Mai, prima, in America Latina una rivoluzione è stata così vicina agli ideali libertari (con l’eccezione di alcuni aspetti della Rivoluzione messicana), e con tante similitudini con la Spagna pre-Guerra civile, quella delle comuni agricole, che cercava di cambiare non solo un governo o le sole condizioni economiche, ma i rapporti tra gli esseri umani, sognando l’avvento di quello che il sandinismo definiva El Hombre Nuevo, così come Durruti parlava del “mondo nuovo che ci portiamo nel cuore”. Ho conosciuto quel Nicaragua, e vedendo com’è ridotto oggi, rimpiango il molto che, allora, era ancora possibile fare. Era stato l’unico paese a mettere in discussione la “necessità del carcere”, trasformando le prigioni in fattorie aperte, gestite come cooperative dove i semi-detenuti si dividevano il ricavato dei lavori, e mi capitò spesso di vedere folti gruppi di “condannati” andare a fare il bagno nel Gran Lago, accompagnati da una sola guardia, e disarmata. Del resto, la prima misura presa dal “governo di ricostruzione” fu l’abolizione non solo della pena di morte, ma anche dell’ergastolo, introducendo misure che avrebbero comunque ridotto enormemente l’uso di celle e sbarre». (Pino Cacucci “Un po’ per amore, un po’ per rabbia” Feltrinelli, ’08)

Facile giudicare con il senno del poi, certo. Resta il fatto che se al Nicaragua fosse stato lasciatoil tempodi scegliere la propria strada, senza l’aggressione militare ed economia di cui è stato vittima, siamo convinti che il cammino del sandinismo sarebbe stato diverso, evitandogli le condizioni di sbandamento e le lotte intestine. E lo stesso sandinismo, avrà pur sbagliato per eccesso di ambizione ideologica e per difetto di realismo storico, a evocare la figura dell’uomo nuovo. Ma il bisogno era quello.

Per noi, dell’Associazione italia-Nicaragua, rimane “la certezza che si possa sbagliare dalla parte giusta” senza che questo significhi affatto che loro avessero ragione.

19 LUGLIO! Un’occasione importante per aderire all’Associazione Italia-Nicaragua.

«Non bisogna osservare la civiltà capitalista nelle città, dove va in giro travestita, ma nelle colonie, dove passeggia nuda» (Karl Marx)

Solo che di quanto  avviene nelle “colonie” ce ne dimentichiamo presto. Sono storie che cadono nell’oblio, ed apparentemente ingessate che parlano solo alla nostalgia e al tempo passato. Noi le guardiamo con sufficienza, con un benevolo sorriso, però c’è da domandarsi se quelle non erano la “corrente calda” della storia. È valido anche per la  rivoluzione sandinista del Nicaragua, così nota a chi ha fatto in tempo a viverla e così difficile oggi da rendere a parole; sembra archeologia lontana. Non a caso, chi ha creduto al sogno di un mondo diverso che è andato a pezzi, venendone travolto, ora guarda a quella stagione con un senso di amarezza, di illusioni perdute.

Un piccolo popolo cercava di fare la sua storia, grazie alla spinta rivoluzionaria annientava una feroce dittatura durata 30 anni. Allora non c’era ancora internet ed i cosiddetti social media avrebbero ricoperto un ruolo decisivo nelle proteste e nelle insurrezioni solo dal 1994 con la rivoluzione zapatista. Quel 19 luglio fu come se d’improvviso la rabbia e la miseria non fossero più capaci di nascondersi, iniziarono a uscire attraverso gli sguardi, attraverso la voce, attraverso i corpi; e mentre le strade, di tutto il Nicaragua, si riempivano cambiavano, al riconoscersi occhi negli occhi, la paura, la frustrazione, la rabbia, si trasformavano in un groviglio informe e adrenalinico; fino a essere qualcosa di nuovo, ancora più forte. Speranza. Travolgeva chiunque le capitasse a tiro, una valanga di emozioni cieca e implacabile, una freccia scoccata con precisione, pronta a conficcarsi nel cuore, senza chiedere permesso. A Managua, all’ingresso dei combattenti del Fronte Sandinista, la piazza cantava, ruggiva, migliaia di occhi, mani, sogni, respiravano assieme: era un animale vivo, che si muoveva. La folla che urlava reclamava giustizia sociale! Libertà! Dignità! Speranza, passioni, sui volti d’insorti e combattenti nel nome dei diritti e della libertà. Nel clima della guerra fredda degli anni ‘80, l’originalità sandinista non avrebbe avuto spazio.

Viene stretto un partenariato informale fra il Vaticano e gli Usa di R. Reagan per combattere il governo sandinista, che è di ispirazione allo stesso tempo cristiana e marxista, per combattere fra le altre cose la “minaccia comunista” in America centrale.

«Il Nicaragua è pericoloso perché esporta un esempio… non si attacca il Nicaragua perché non è democratico ma affinché non lo sia» (dal Messaggio del Tribunale dei Popoli).

Così la rivoluzione popolare sandinista ci ha fatto toccare la sofferenza nella pietas, la verità nella follia, la bellezza nella miseria, la nonviolenza nella paura, la disperazione nella luce, l’immaginare l’utopia nel cuore della notte. Anche se alla fine il vincitore è stato ancora una volta il Golia statunitense. Resta il fatto che se al Nicaragua fosse stato lasciato il tempo di scegliere la propria strada, senza l’aggressione militare ed economica di cui è stato vittima, siamo convinti che l’esito del sandinismo sarebbe stato diverso. Quella rivoluzione, avrà pur sbagliato per eccesso di ambizione ideologica e per difetto di realismo storico, a evocare la figura dell’uomo nuovo. Ma il bisogno era quello. Del resto, senza impeti rivoluzionari non succede niente, non solo nella vita politica, anche in quella personale. Per noi dell’Ass.ne Italia-Nicaragua, rimane la certezza “che si possa sbagliare dalla parte giusta” senza che questo significhi affatto che “loro” avessero ragione. Finché un popolo non diventa soggetto della sua storia, la società non è umana, è alienante. Popoli che la violenza la subiscono per tutta la vita e non rispondono con la violenza ma con la solidarietà, con la lotta comune. Non c’è uomo comune che abbia senso di giustizia che non debba sentirsi dalla loro parte. Vale per sempre.

Per questo durante i governi liberisti, che sono succeduti alla rivoluzione, abbiamo sostenuto le lotte delle organizzazioni popolari contro gli effetti devastanti del neoliberismo e delle multinazionali. Come non ricordare la vicenda dei bananeros, e delle multinazionali Usa per l’uso irresponsabile dei pesticidi nelle piantagioni di banane in Nicaragua. Segnaliamo l’uscita in dvd del film “Big boys gone bananas” del regista svedese Fredrik Gertten (www.bigboysgonebananas.com), con al centro la reazione della multinazionale Dole : tentativo di sequestrare il film, denunce a registra e produttori, minacce ai festival che lo proiettavano. Gertten racconta da involontario protagonista uno dei casi più eclatanti di tentativi di limitazione della libertà di espressione da parte di una corporation, dopo che aveva dato voce ai lavoratori in “Bananas” (2009). Con l’avvento del governo Ortega, che ha posto fine a 16 anni di governi liberisti, le cose in Nicaragua sono certamente cambiate e questo richiede di ridefinire le modalità della nostra solidarietà in un momento così difficile in Italia, in cui da una parte è più problematico raccogliere fondi e dall’altra la nostra associazione, come più in generale il mondo dei movimenti e della sinistra, attraversa una fase molto travagliata. Mentre in Italia si arretra su tutti i fronti delle conquiste relative ai diritti e al lavoro, in Nicaragua si assiste ad una fase positiva in cui da una mancanza totale di garanzie e opportunità, si sta avanzando verso un miglioramento economico e verso un processo partecipativo e di riconquista dei diritti. Per questo stiamo cercando di focalizzare i nostri progetti su tre temi: ambiente (ricerca fonti di energia alternativa pulita come la eolica e geotermica), sindacato (formazione sindacale e lotta per la riforma delle pensioni e tributaria), partecipazione (comitati presenti in ogni quartiere), che ci sembrano le realtà più interessanti del Nicaragua attuale.

Ex Presidenti spazzatura: storie parallele dalla Colombia e dalla Spagna

di Juan Carlos Monedero

Pubblicato il 2 giugno 2013.- Ci sono delle volte in cui con grande evidenza si manifesta un vecchio aneddoto della politica sovietica. La storia è il racconto delle due lettere che avrebbe scritto Nikita Krusciov al suo successore, Leonid Breznev, in occasione della sua forzata dimissione. Lettere d’amore tra presidenti, scritte in quell’occasione molto tribolata che determinò la successione del presidente sovietico che aveva sbattuto una scarpa nella tribuna dell’ONU alcuni decenni prima che Chávez affermasse che quel posto puzzasse di zolfo. Le lettere che fece recapitare Krusciov al suo successore contenevano delle istruzioni: «Quando non vedi più nessuna via di uscita, apri la prima lettera. Quando si ripresenti un’altra situazione insormontabile, apri la seconda».

Sembra che Breznev così avesse fatto l’anno successivo. Trovò scritto un rigo che riecheggiava un’aria di bolero: «Tutta la colpa dalla a me. Tutta quanta». Le cose ripresero a marciare normalmente dopo aver proferito questo balsamo. Alcuni mesi più tardi, imperversavano di nuovo i problemi e siccome la prima lettera aveva funzionato, Breznev aprì la seconda con lo stesso stile conciso: «Scrivi due lettere e rimetti la carica». Questa leggenda ha invecchiato male, perché sembra che oggi i vecchi presidenti non scrivano più lettere per i loro successori, ma si presentano su un set televisivo per essere intervistati da giornalisti pennivendoli, o scrivono 140 caratteri su Twitter per ricordare ai loro eredi che la politica somiglia molto a un cartello – con delle regole fisse e obbligatorie, dove se cade uno, tutti gli altri lo seguiranno. In confidenza – poiché dire pentito sarebbe un’esagerazione – nessuno può superare un presidente di governo.

In Colombia il presidente Santos, che giunse a essere il “migliore amico” di Chávez, e che sembrava interessato a risolvere il conflitto con le FARC con l’aiuto del Venezuela, ha ceduto alle pressioni del narcopresidente Uribe e dal guantanamovicepresidente nordamericano Joe Biden. Patetico cedimento che offuscherà il suo mandato. Le FARC hanno pubblicato un comunicato nel quale esprimono enorme preoccupazione per le manovre di Santos. Sembra che ci sono politici, di qua e di là, ai quali interessa che esistano sempre dei gruppi terroristi operativi.

Santos appartiene all’oligarchia più rancida della Colombia e l’aumento delle pressioni lo conferma. L’avviamento dell’Alleanza del Pacifico, iniziativa spalleggiata dagli USA, con il fine di riarticolare i paesi che non aderiscono al nuovo impulso di democratizzazione dell’America latina è stata vista come un momento per giocare di nuovo la carta della destabilizzazione nei confronti del Venezuela. Sembra che la Colombia voglia tornare a quel momento in cui voleva diventare l’Israele dell’America latina. Dai documenti di wikileaks abbiamo appresso che Uribe offriva questa opportunità ai suoi padrini nordamericani. Un gran parlare della Colombia, un gran parlare della Spagna, quando la vera patria si trova in Svizzera.

Di recente Uribe, appoggiato dalla stampa golpista colombiana, continua a dare spago all’insostenibile lagnanza di Capriles che sostiene che nelle elezioni venezuelane ci sia stata una truffa. Ecco perché Capriles non ha smesso di insultare pubblicamente Santos, rimproverandogli di aver assistito ai funerali di Chávez, aver dichiarato lutto nazionale e, infine, aver assistito alla presa di possesso del presidente Maduro. Uribe continua a lottare per difendere la propria impunità, giacché è consapevole che in qualsiasi momento può finire in un carcere gringo com’era già accaduto a Noriega.

Gli Stati Uniti di Obama continuano a pensare che l’America latina sia il loro patio trasero, il cortile di casa – espressione ripescata recentemente dal Segretario di Stato John Kerry. Hanno pensato che questa sia l’ora opportuna per proseguire con l’aggressione contro il Venezuela, approfittando di questo momento in cui il presidente Maduro ha davanti a sé il compito di ricostruire il blocco di potere che Chávez era riuscito a creare nei suoi 14 anni di governo e che attualmente si sente la necessità di rinnovare. Risultato? Gli enormi progressi per la pace in Colombia con alcuni accordi appena discussi all’Avana tra il governo e le FARC, nei quali finalmente s’introducono dei punti che concernono la riforma agraria, possono andare a puttane per merito del disonesto gesto di Santos di accogliere Capriles a Bogotà. Uno schiaffo in  faccia a Maduro che con enorme generosità ha fatto il possibile e l’impossibile perché finisse la guerra civile in Colombia.

Come si difende la democrazia con questi nemici? Diventa molto difficile proteggerla quando scegli la via elettorale – e per il momento, non esiste un’altra – e i vecchi poteri, appoggiati dagli Stati Uniti, quelli del colpo di stato in Honduras e in Paraguay, si trovano intatti con tutto il loro potere reale, mettendo costantemente i bastoni tra le ruote. A Cuba gli attori del vecchio regime se ne sono andati a Miami. In Venezuela continuano con le loro banche, le loro ditte, i loro mezzi di comunicazione, i loro contatti internazionali, le loro università e i loro giudici in attesa del momento propizio per smontare tutto quello che è stato costruito. Questo fatto ricorda molto da vicino quanto è accaduto nella prima metà del secolo scorso quando in Spagna, durante la II Repubblica, vinse la CEDA (Confederación Española de Derechas Autónomas). S’impegnarono a rendere difficile il compito dei governi repubblicani progressisti. Quando vinse le elezioni del 1933 – grazie alle divisioni della sinistra – la CEDA decise di smontare tutto quanto si era riuscito a ottenere in quegli anni. Il malcontento sfociò nella rivoluzione delle Asturie.

Quando parliamo di controrivoluzione nel Regno di Spagna o in America latina, spunta di solito Aznar (e la sua Fondazione FAES). Al pari di Uribe è preoccupato di finire in galera. Tutta la rete Gürtel, tutta la trama di Bárcenas, tutti gli extra, gli imputati Fabra Camps, Barberá, la sospettata Esperanza Aguirre, l’allegro Miguel Ángel Rodríguez e i suoi cocktail a elevata gradazione, la jaguar nel garage di Ana Mato, le truffe di Urdagarín e della sua presunta socia o l’attico di Ignacio González: in altre parole, il cuore di tutta la trama corrotta che devasta il Regno di Spagna, appartiene a un altro momento che non è più quello attuale, Rajoy e Soraya Saenz de Santamaría dixit. Sicuramente Rajoy non dimentica l’umiliazione che gli inflisse Aznar quando dichiarò pubblicamente che quella del notaio sarebbe statala sua seconda scelta, dopo che Rato aveva dichiarato le dimissioni.

I presidenti come Aznar, che sono in politica per fini di lucro, non scrivono sulla prima lettera che capita solo perché vogliono dare una mano. Altrettanto le pressioni di Uribe sono alla ricerca di un salvacondotto. L’intervista – ormai si definisce intervista qualsiasi cosa – ad Aznar che tanto subbuglio ha causato, non si trattava tanto di una minaccia di ritornare, ma un avviso sulle conseguenze di scoperchiare la pentola. Affari personali che colpiscono le nostre deboli democrazie. Ad Aznar che ci ha ficcato nella guerra d’Iraq, anche se sapeva che non c’erano armi di distruzione di massa, interessa solo il proprio tornaconto. Come anche a sua moglie, Ana Botella, che si allontanava per un attimo dalla Spa di Portogallo per venire con l’aereo in Spagna al fine d’informare brevemente sulle adolescenti morte nel Madrid Arena. Sappiamo che nell’odierna politica “cartellizzata” le uniche lettere che si spediscono alcuni presidenti sono simili a quelle che invia Cosa Nostra a chi non paga. Pare che per il presidente Santos la speranza sia una cosa simile, soprattutto nelle zone rurali dove da alcuni giorni è prevista l’approvazione del primo punto dei negoziati tra la guerriglia e il governo.

La totalità dei casi di corruzione che conosciamo non ha niente a che fare con il giornalismo d’inchiesta. Escono alla luce perché qualcuno che si trovava in mezzo alla faccenda ha un po’ scoperto il coperchio della pentola – la cosa giusta da fare – perché non ha ricevuto la fetta che gli spettava. Altrimenti avremmo mangiato l’indigesto racconto dell’esemplare coppia felice, Urdangarín e l’Infanta, e l’enorme prole che aspetta di essere sfamata. E, certamente, la rivista “Hola” continuerebbe a pubblicare fotoservizi su quelle magioni da Sissi che accontentano gli umili quando le vedono apparire sulla carta patinata delle riviste e che i loro padroni ci vendono come se fossero lettere d’amore indirizzate al popolo onesto.

Il comportamento del narcopresidente Uribe – un’importante parte del suo partito è inquisita per via dei collegamenti con i paramilitari – e del bugiardo Aznar mettono in apprensione i loro paesi. Ciò avviene perché formano parte della “cartellizzazione” della politica che ha plagiato la democrazia tanto in Colombia quanto in Spagna. Cupole cooptate, ostaggi del denaro e della geopolitica nordamericana, tutti quanti retti da quella trama globale che reclama delle maggiori dosi di modello neoliberale, sobillata dai venali mezzi d’informazione. Una parte della popolazione è avvelenata da questi ultimi, mentre l’altra parte che fa riferimento alla chiesa li considera come una soluzione. Abbiamo davanti a noi un bel panorama.

È ancora in sospeso il fatto che i popoli sostituiscano le riviste del cuore con i quaderni delle querele.

Anche prima della Rivoluzione Francese si provava maggiore interesse per i vestiti di Maria Antonietta che per il suo collo.

[trad. dal castigliano per ALBAinFormazione di Vincenzo Paglione]

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per un'educazione di sani principi e insane fini

JoséPulido

La página del escritor venezolano

Donne in rosso

foglio dell'ADoC (Assemblea delle donne comuniste)

Conferenza Mondiale delle Donne - Caracas 2011

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