Maduro: «La Colombia abbandona la sicurezza alla frontiera»

spi_20150826120125da Correo del Orinoco

«Domani il Ministro degli Esteri (Delcy Rodríguez) chiederà con forza a Cartagena che la Colombia riprenda l’attività di contrasto attraverso le forze di polizia, investigative e militari, contro le bande di assassini paramilitari. Adesso basta, noi andremo avanti con molta fermezza», ha affermato il Presidente

Il Presidente Nicolás Maduro Moros ha assicurato che il Venezuela esigerà dalla Colombia la riattivazione delle attività di sicurezza nelle zone di confine, perché a giudizio del capo dello stato, il governo di Bogotá ha letteralmente abbandonato la frontiera sul versante della sicurezza.

«Mi piacerebbe ascoltare l’opinione del presidente (Juan Manuel) Santos riguardo a tutti questi fenomeni di cui abbiamo fornito prova, la Colombia deve riattivare tutti i suoi organismi militari e di polizia contro il paramilitarismo alla frontiera, perché la Colombia dal punto di vista della sicurezza ha abbandonato la frontiera», ha spiegato.

Durante il suo programma ‘En Contacto con Maduro’ ha dichiarato: «Domani il Ministro degli Esteri (Delcy Rodríguez) chiderà con forza a Cartagena che la Colombia riprenda l’attività di contrasto attraverso le forze di polizia, investigative e militari, contro le bande di assassini paramilitari, contro i trafficanti di droga. Adesso basta, noi andremo avanti con molta fermezza».

Se Uribe si mette contro il Venezuela riceverà un’adeguata risposta

«Se si mette contro il Venezuela, riceverà un’adeguata risposta, nessuno mi può zittire, se (Álvaro) Uribe trama contro il Venezuela, arriverà una forte risposta del governo», ha evidenziato il Presidente venezuelano Maduro, in riferimento alle recenti dichiarazioni dell’ex presidente colombiano contro il Venezuela e la Rivoluzione Bolivariana.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Fabrizio Verde]

Assad: «Il terrorismo è lo strumento dell’aggressione israeliana alla Siria»

da Spondasud

Il presidente Bashar al-Assad ha dichiarato che i terroristi sono il vero e proprio strumento dell’aggressione israeliana contro la Siria e svolgono un ruolo pericoloso come quello di Israele.

In una sua intervista rilasciata al canale libanese Al Manar, al-Assad ha affermato che il motivo principale della crisi in Siria è l’intervento straniero: «Se cessassero tutte le forme di questo intervento, potremmo dire che la crisi è nelle sue fasi finali e la lotta contro al terrorismo diventerebbe più facile».

Il presidente al-Assad ha indicato che il clima favorevole e i parametri necessari per il successo di una soluzione politica della crisi, tra cui la presenza delle forze politiche siriane indipendenti appartenenti al popolo siriano finora non ci sono stati, sottolineando che i paesi che sostengono il terrorismo impongono personalità che non rappresentano il popolo siriano.

Assad ha assicurato che gli Stati Uniti non vogliono né che il terrorismo trionfi, né che si indebolisca affinché si raggiunga un livello di stabilità nella regione. «Gli Stati Uniti vogliono che ci sia caos e decadenza in tutti i paesi».

Ed ha proseguito: «La crisi ha confermato che Erdogan è un fantoccio con un sacco di sogni, l’ultimo è la buffer zone», assicurando che Erdogan difficilmente può agire senza il via libera del suo padrone statunitense.

Il presidente siriano ha evidenziato che la difesa del paese non sta solo nell’atto di portare le armi, ma anche in tutta la strada in ha consolidato la sua fermezza nell’affrontare l’offensiva.

Rispondendo ad una domanda sulla fiducia della Siria nella vittoria nella guerra, Assad ha ribadito che la Siria non avrebbe potuto resistere per quattro anni e mezzo senza che i cittadini avessero speranza di vittoria.

« In primo luogo contiamo sul popolo, perché senza il sostegno popolare è impossibile resistere, e in secondo luogo, contiamo su i nostri amici che sostengono con fermezza la Siria in Medio Oriente e nel mondo»..

Riguardo alla questione che la crisi in Siria è nel suo “ultimo quarto d’ora,” Assad ha spiegato che non si può dire che la crisi è nel suo ultimo quarto d’ora, fin quando non si risolve il problema alla radice, ovvero l’intervento straniero che fornisce soldi e armi ai terroristi in Siria.

«Quando coloro che cospirano contro la Siria e i paesi coinvolti nel bagno di sangue del paese, la smetteranno di fornire sostegno al terrorismo, si può dire che abbiamo raggiunto l’ultimo quarto d’ora della crisi, dal momento che tutti altri dettagli, come ad esempio la soluzione politica, l’aspetto politico o qualsiasi altra misura da intraprendere sarà facile, anche se la lotta contro i terroristi continua in Siria», ha aggiunto.

«Se si ferma il sostegno esterno al terrorismo, la lotta contro questo fenomeno sarà più facile».

Alla domanda su cosa dobbiamo intendere quando parla di una soluzione politica, al-Assad ha fatto notare che non usa la parola “soluzione politica”, ma di “componente politica”, che è il dialogo con le forze politiche per raggiungere una soluzione della crisi, precisando: «Siamo pronti ad impegnarci senza esitazioni con le forze in campo come rappresentanti del popolo siriano e  che confermino ciò che essi rappresentano in termini di consenso popolare. L’aspetto politico ha un effetto, ma deve essere effettuato tra le forze politiche siriane indipendenti appartenenti al popolo siriano. Ma noi non troviamo che molti le forze che dipendono dall’estero, finanziariamente e politicamente».

«La componente politica è necessaria non solo per risolvere la crisi, ma anche per sviluppare la Siria. Ma finora, i parametri necessari o il clima favorevole per ottenere i risultati finali attraverso questo dialogo non sono ancora certi, soprattutto con il costante sostegno al terrorismo, che costituisce uno dei principali ostacoli a qualsiasi azione vera politica il campo», ha detto Assad.

Alla domanda circa la visita del Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli esteri, Walid al-Moallem, in Oman e il contributo della visita alla soluzione della crisi, il presidente al-Assad ha affermato che Oman ha un ruolo importante da svolgere nel trattare con le diverse tensioni nella zona per sedare e po raggiungere un accordo, sottolineando che è chiaro che la visita del ministro degli Esteri è in questo contesto, ossia la risoluzione della crisi.

Per quanto riguarda le incursioni ripetute recentemente effettuate dal nemico sionista sui territori siriani e come affrontarle, Assad ha ricordato quello che successe nel corso degli ultimi decenni in Libano, dove alcune fazioni, dipendeva dall’estero, chiedevano ogni forma di intervento straniero, concedendo ad Israele l’opportunità di colpire, ha puntualizzato: «In Siria è lo stesso. Alcuni gruppi siriani, accettando di trattare con i nemici, incluso Israele,  chiedendo loro di intervenire in Siria, con l’obiettivo di incoraggiarli».

«I terroristi sono il vero e proprio strumento di aggressione israeliana contro la Siria e svolgono un ruolo pericoloso quanto quello di Israele».

Il presidente al-Assad ha fatto notare che se si vuole affrontare Israele, in primo luogo, si troverà di fronte i suoi seguaci, «perché è impossibile affrontare un nemico esterno se abbiamo un nemico interno», ha spiegato.

Alla domanda se il nemico sionista si avvale dell’impegno della Siria nella lotta contro il terrorismo per compiere attacchi contro di lei, il presidente al-Assad ha sottolineato: «Questo può essere un fattore, ma il  fattore più importante è la presenza di parti che sono disposti a lavorare con lui».

In merito alal questione che la Siria aveva dato la Patria alll’Iran e Hezbollah quando ha detto nel suo ultimo discorso che il paese non appartiene a chi vive lì, ma a chi lo difende e protegge la Assad ha spiegato che alcune persone pur non risiedendo in Siria, la difendono, mentre ci sono persone che sono nel paese e augura ogni giorno i raid della NATO o un intervento di terra delle forze straniere, assicurando che si parla solo dei siriani.

Circa la valutazione della inviato dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, che si è imbarcato su una qualsiasi dichiarazione delle accuse contro lo Stato siriano, al-Assad ha sottolineato che gli Stati Uniti e i paesi occidentali non accetteranno alcuna inviato Onu imparziale «dichiarazioni così distorte degli emissari fanno parte del ruolo che viene chiesto di loro», ha detto.

Sul successo della missione di De Mistura nel contribuire alla soluzione della crisi in Siria, al-Assad ha ricordato il sostegno diretto che la Siria aveva concesso a de Mistura quando ha avanzato la questione della riconciliazione in Aleppo, sottolineando che l’iniziativa era buona, ma l’inviato ONU non era stata autorizzata ad avanzare meccanismi in questo senso.

Ed ha aggiunto: «Noi non sosteniamo ogni iniziativa che si fondi sui nostri interessi nazionali».

Riguardo alla manipolazioni dei media, in particolare, quelle relative alla posizione russa verso la Siria, il presidente al-Assad ha affermato che la politica della Russia è fondata su dei principi e sulla coerenza, sapendo che la Russia non sosterrà una persona o un presidente, ma  principi definiti, cioè la sovranità dello Stato e del popolo, e la decisione del popolo che sceglie e elegge il presidente che gli si addice.

Alla domanda circa gli sforzi della Russia, il presidente ha espresso fiducia nei russi che hanno confermato questo appoggio durante la crisi con sincerità e trasparenza.

Per quanto riguarda le possibilità di partecipazione a Ginevra 3, il presidente al-Assad ha fatto notare che le riunioni tenute dalla Russia con le varie parti per raggiungere lo scopo di Ginevra 3 o Mosca 3, dipende dal clima internazionale, non da quello che pensa la Russia e la Russia e la Siria, perché ci sono diverse forze, come gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la posizione siriana su qualsiasi iniziativa senza prendere in considerazione le parti in anticipo, al-Assad ha precisato: «Ogni iniziativa deve rispettare la sovranità e l’integrità dei suoi territori siriani. In questa iniziativa, la decisione spetta al popolo siriano e la lotta contro il terrorismo deve essere una priorità».

 

Alla domanda se le iniziative avanzate, come quelle sul riscrivere la costituzione o lo svolgimento di elezioni sotto la supervisione internazionale, costituiscono un’ ingerenza negli affari siriani, il presidente al-Assad ha risposto che non c’è nessun problema fino a quando queste iniziative sono una decisione siriana e il risultato del dialogo e della riconciliazione nazionale, rifiutando lo svolgimento di qualsiasi elezione sotto supervisione internazionale che costituirebbe un’ingerenza nella sovranità siriana.

Sul fatto che  la Siria sia stata una vittima della conclusione dell’accordo sul nucleare iraniano, il presidente al-Assad ha replicato che la Siria non è stata una vittima, perché non era parte dei negoziati sul nucleare, sottolineando che le forze occidentali avevano cercato di convincere l’Iran a inserire la parte siriana nella questione del nucleare per farlo rinunciare alle questioni relative al supporto alla Siria per ottenere delle cose nel negoziato.

«La posizione iraniana in questo senso è stata decisiva e ha negato che qualsiasi falso dossier sia stato parte dei negoziati nucleari», ha riferito.

Rispondendo ad una domanda sulla creazione di nuove alleanze in tutto il mondo, in particolare quella che coinvolge Siria e l’Iran, il presidente al-Assad ha ricordato: «L’alleanza della Siria con l’Iran dura da tre decenni e mezzo, allora, cosa succede. I nostri rapporti sono forti e noi siamo alleati. Alla guerra ingiusta contro l’Iran, sosteniamo l’Iran che si attesta attualmente con noi nella guerra mirata la Siria».

Per quanto riguarda il sentimento di delusione del cittadino siriano e la sua insoddisfazione per lo Stato nazionale e l’arabismo, il presidente al-Assad ha spiegato che le circostanze hanno costretto i cittadini ad indignarsi sull’arabismo e a non fare la vera differenza tra l’arabismo e alcuni arabi che  lo sostengono mentre i loro cuori, ragioni, i sentimenti e gli interessi sono completamente fuori dalla regione, sostenendo che arabismo è un’identità essenziale.

Inoltre, il presidente al-Assad ha sottolineato il coordinamento tra Siria e Iraq, elogiando la grande maturità in Iraq sul fatto che la battaglia è la stessa, perché il nemico è lo stesso ed i risultati sono gli stessi vale a dire che ciò che accade in Iraq si rifletterà sulla Siria e viceversa.

Alla domanda circa la differenza tra la presenza di combattenti Hezbollah in Siria e il fatto che l’altra parte ha nazionalità ci sono combattenti stranieri, Assad ha precisato che la differenza è la legittimità, Hezbollah è arrivato in Siria tramite un accordo con lo Stato siriano, un governo legittimo che rappresenta il popolo siriano e che ha il sostegno della maggioranza del popolo siriano, sottolineando che lo Stato siriano ha il diritto di chiamare le forze che difendono il popolo siriano, mentre altre forze terroristiche sono venute in Siria per uccidere il popolo siriano, senza il consenso del popolo o della leadership dello Stato che lo rappresenta.

Per quanto riguarda i suoi rapporti con il Sayed Nasrallah, Assad ha ricordato che questo rapporto è forte e risale a più di 20 anni fa, ed ogni osservatore può vedere che questo è un rapporto caratterizzato da onestà e trasparenza, perché Nasrallah è una persona leale, assolutamente onesta, trasparente, di principio e fedele ai suoi principi e ai suoi amici.

Rispondendo a una domanda su un partito può decidere il cessate il fuoco da un altro paese, mentre i soldati siriani hanno un ordine dalla Stato al-Assad ha dichiarato che la questione era stata discussa con degli inviati che hanno parlato alla questione del cessate il fuoco, che si riferiscono al rifiuto della terminologia del cessate-il-fuoco che si svolge tra i paesi ed eserciti, non tra uno Stato e gruppi terroristici.

«Nessuno è garante per i gruppi terroristici, anche se dipendono da altre forze. Queste forze non sono in grado di costringerli ad attuare qualsiasi decisione», ha aggiunto.

In merito a come la Siria possa combattere contro il terrorismo accanto a quelli che accusa di sostenerlo al-Assad ha assicurato che nell’ azione politica, dobbiamo raggiungere un obiettivo che deve essere pagato nell’ interesse del popolo in Siria, sostenendo che «qualsiasi alleanza o il dialogo con conseguente che arresti lo spargimento di sangue  del popolo siriano deve essere una priorità per noi».

E il presidente al-Assad ha aggiunto: «Logicamente, è impossibile per i paesi che si trovavano a fianco del terrorismo sono gli stessi che lottano contro questo fenomeno, ma vi è una scelta semplice, vale a dire l’ammissione da questi paesi hanno seguito la strada sbagliata, o forse per motivi di interesse a causa della loro preoccupazione per la diffusione del terrorismo».

Per quanto riguarda l’escalation dell’Arabia Saudita contro la Siria, in particolare le dichiarazioni del suo ministro degli Esteri a seguito delle notizie trasmesse sulla riunione siro-saudita, il presidente al-Assad ha affermato che  le rivelazioni dei media «non hanno alcun significato, ciò che conta sono le pratiche di tale Stato. Se lo stato già sostiene il terrorismo, l’arrampicata e la sua assenza non avrà alcun valore».

Per quanto riguarda la formazione di un’opposizione siriana da Washington, al-Assad ha sottolineato che i rischi più importanti che dobbiamo temere è la mancanza di visione in Occidente, in particolare gli Stati Uniti, pericolo del terrorismo e il significato della vittoria del terrorismo nella regione.

Per quanto riguarda l’esistenza di una stanza per le operazioni di sicurezza comuni militari in Giordania e che il re di Giordania Abdullah II vuole essere coinvolto nella crisi in Siria, al-Assad non ha alcun dubbio: «La Giordania è indipendente nelle sue politiche? … la maggior parte dei paesi arabi dipende dagli Stati Uniti».

Ad una domanda sulle relazioni siro-egiziane, il presidente al-Assad ha assicurato che le relazioni tra la Siria, l’Egitto e l’Iraq hanno una particolarità, in quanto questi paesi sono alla base di tutta la civiltà araba, dicendo: «Certamente attribuiamo importanza al rapporto con l’Egitto. La Siria combatte nella stessa trincea con l’esercito e il popolo egiziano egiziano contro i terroristi», ha sottolineato il presidente al-Assad.

Sulle ulteriori misure per contribuire a migliorare le condizioni di vita del cittadino siriano, il presidente al-Assad ha parlato del lancio di progetti di ricostruzione, oltre al recupero dei progetti di produzione bloccate a causa della guerra, mettendo in evidenza la creazione del Dipartimento di riforma amministrativa per la lotta contro la corruzione e spreco di fondi.

Dieci frasi di Maduro sulla frontiera tra Colombia e Venezuela

maduro-venezuela-deportacion-colombia--644x362da Telesur

Il presidente venezuelano ha affermato che il paramilitarismo è un «fenomeno che colpisce la pace e la stabilità di tutti i venezuelani»

In una conferenza stampa con i mezzi d’informazione nazionali e internazionali, il capo dello stato ha spiegato che «quando saranno rispettate le condizioni minime», sarà riaperto il confine chiuso da venerdì scorso.

Ha inoltre affermato che nell’area rimarranno gli operativi che contrastano le attività illecite come il contrabbando, il narcotraffico e il paramilitarismo.

Queste le frasi più importanti pronunciate da Maduro sulla frontiera tra Colombia e Venezuela:

  1. «L’attacco sferrato contro un’unità dell’esercito venezuelano, ha oltrepassato ogni limite superando l’accettabile»

  1. «Juan Manuel Santos, lei, sta facendo qualcosa di nobile lavorando per la pace e questo io lo rispetto»

  1. «Quanti danni ha prodotto il paramilitarismo in Colombia? Perché nessuno denuncia questo?»

  1. «Stiamo cercando una nuova frontiera. Questo confine è marcito»

  1. «Non abbiamo preso nulla alla Colombia, tantomeno l’abbiamo occupata (…) Io amo la Colombia»

  1. «Nell’esodo (dei migranti colombiani) si inseriscono gruppi paramilitari»

  1. «Álvaro Uribe Vélez è il più grande anti-colombiano mai esistito, io sono anti-paraco (il termine paraco in Colombia indica un paramilitare)»

  1. «Un nuovo rapporto bilaterale (con la Colombia) dev’essere basato sul rispetto. Speriamo di poter costruire nuove relazioni»

  1. «Tutti i giorni dell’anno i mezzi d’informazione colombiani sono impegnati nel costruire campagne mediatiche dirette contro il Venezuela»

  1. «Amiamo così tanto il popolo colombiano che qui in Venezuela vivono oltre cinque milioni di colombiani»

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Fabrizio Verde]

DPRK: La Siria condanna le manovre militari di USA e Corea del Sud

da sana.sy

La Siria ha condannato fermamente le manovre militari degli Stati Uniti e della Corea del Sud e le campagne tendenziose attraverso la guerra psicologica contro la Corea democratica, chiedendo il loro arresto immediato.

«La Siria segue con preoccupazione gli sviluppi pericolosi nella Corea democratica rappresentata dal proseguimento delle manovre militari ad opera degli Stati Uniti e della Corea del Sud, così come le provocazioni psicologiche nelle zone di confine tra i due paesi volte a minare la sicurezza e la stabilità della Corea del Nord», si legge in un comunicato diffuso oggi dal Ministro degli affari esteri e espatriati siriano.

Nel documento si aggiunge che «la Siria esprime la sua piena solidarietà con il popolo e il governo della Corea Democratica e ribadisce la necessità di adottare tutte le misure possibili per fermare le provocazioni statunitensi e della Corea del Sud, al fine di allontanare dalla penisola il fantasma della guerra in Corea e della mancanza di sicurezza e di stabilità, minando sicurezza e stabilità, non solo dell’area, ma in tutto il mondo».

[Trad. dal francese per ALBAinformazione di Francesco Guadagni]

Cuba: giornate storiche, epoche storiche

10978489_10203124329939406_5158089211623053874_ndi Fernando Martínez Heredia – Cubadebate

20 agosto 2015.- A molti amici di “nostramerica” non è sfuggito l’articolo del politologo cubano Fernando Martínez Heredia di cui pubblico una parte nella mia traduzione. Chi si interroga sui rischi e le incognite derivanti dalla ripresa delle relazioni fra USA e Cuba, troverà qui un’eccellente analisi. (Alessandra Riccio)

[…] Da dicembre dell’anno scorso stiamo assistendo ad una nuova congiuntura politica. Due Stati divisi da una differenza abissale quanto a potere materiale, e che hanno vissuto per più di 56 anni in uno stato di guerra virtuale – perché il più potente applica permanentemente misure di guerra sull’altro -, si sono incontrati per negoziare la pace e sono riusciti a fare un primo passo, piccolo piccolo: ristabilire le relazioni diplomatiche. Il più potente le aveva rotte cinquantaquattro anni fa, quando era sicuro di sconfiggere il governo con un sistema diverso dall’invasione e dalla forza militare. Tutto il pianeta conosce di questa aggressione sistematica che va da allora fino ad oggi.

Ciascuno ha delle carte a suo favore. Per gli Stati Uniti, la necessità di Cuba di migliorare la sua posizione nei rapporti economici internazionali in un mondo in cui predomina ancora il capitalismo imperialista. La possibilità di contrattare e ottenere concessioni dal governo cubano in cambio dello smontaggio progressivo del suo sistema di aggressione permanente. La speranza di riuscire a dividerci fra i pratici e i sagaci, quelli che comprendono e i rabbiosi e ciechi, gli ostinati e gli antiquati. Il sogno che gli Stati Uniti incarnino l’ideale di “tecnologie” e consumi che potrebbero essere alla portata di una sorta di classe media che si comincia ad affacciare nello spettro nazionale cubano. Far balenare la speranza di migliorare la propria situazione ai settori meno consapevoli nell’ampia fascia di povertà che esiste. Esercitare la loro capacità di farci una guerra che non è di pensieri ma di induzione a non pensare, di un’idiotizzazione di massa. E, comunque, sempre una cosa che ha dichiarato a chiare lettere: la risorsa di utilizzare tutte le forme di sovversione del regime sociale cubano che siano alla sua portata.

Cuba è forte e ha molte carte a suo favore. La prima è l’immensa cultura socialista di liberazione nazionale e antimperialista accumulata, che è stata decisiva per vincere battaglie e guidare la resistenza negli ultimi decenni, essa regge la coscienza politica e morale della maggioranza, che non rinuncerebbe mai alla sovranità nazionale e alla giustizia sociale. La legittimità del mandato di Raúl Castro e il consenso sugli atti del governo da lui presieduto assicurano la fiducia e l’appoggio alla sua strategia e gli permettono di condurre i negoziati con rispetto assoluto dei principi e flessibilità tattica, La solidità del sistema statale, politico e di governo di Cuba, la potenza e qualità del suo sistema di difesa, il controllo degli elementi fondamentali dell’economia del paese, e le abitudini e le reazioni difensive, forniscono un insieme formidabile che è alla base delle posizioni cubane.

La storia degli atteggiamenti degli Stati Uniti contro l’indipendenza di Cuba nel secolo XIX, il crimine commesso contro la rivoluzione trionfante nel 1898 e la sua sfruttatrice e umiliante oppressione neocoloniale fino al 1958, e tutto quel che ha fatto e fa contro il nostro popolo dal 1959, tradiscono una condizione colpevole e spregevole che lo squalifica come parte della quale fidarsi durante un negoziato. Mi meraviglia davvero che dei funzionari nordamericani credano che far visita e mostrarsi simpatici sia sufficiente a far sì che i cubani si sentano riconosciuti e gratificati, una cosa che si spiega solo con la sottovalutazione di chi si sente imperiale e con il disprezzo che aveva già conosciuto José Martí.

Che Cuba abbia ragione nelle sue proteste contro gli Stati Uniti, è stato riconosciuto quasi universalmente per decenni da governi, parlamenti, istituzioni internazionali, organizzazioni sociali e politiche e dalle più svariate personalità. I negoziati non progrediranno davvero finché gli Stati Uniti non faranno dei passi unilaterali per cambiare la situazione illegale e criminale creata dai suoi continui atti in pregiudizio di Cuba. Restituire ai suoi cittadini parte dei diritti che gli hanno conculcato e facilitare a certi imprenditori di avere rapporti con Cuba non ha niente a che vedere con questi passi imprescindibili, né può sostituirli. Questa asimmetria favorisce Cuba. La compensazione di diritto per le nazionalizzazioni cubane degli anni sessanta darebbe un totale molto inferiore a quello degli indennizzi dovuti per la perdita di varie migliaia di vite e per i danni e le perdite occasionate a Cuba.

Eventi internazionali come quello di venerdì 14 agosto sono molto appariscenti e sommamente pubblicizzati. Ma il fatto decisivo per la politica internazionale di qualunque stato continuano ad essere i dati fondamentali della sua situazione e delle sue politiche interne. La vera questione è se il contenuto della fase cubana che si sta svolgendo negli ultimi anni sarà o non sarà post rivoluzionaria.

Nella post rivoluzione si retrocede, senza scampo, molto più di quello che le giudiziose persone addette hanno considerato all’inizio. Gli abbandoni, le concessioni, le divisioni e la rottura dei patti con le maggioranze preludiano a una nuova epoca in cui si organizza e si stabilisce una nuova dominazione, anche se si vede obbligata a riconoscere una parte delle conquiste dell’epoca precedente. Le rivoluzioni, al contrario, combinano iniziative audaci e salti in avanti con uscite laterali, pazienza e abnegazione, con un eroismo senza pari, astuzie tattiche con offensive incontenibili che liberano le qualità e le capacità della gente comune e creano nuove realtà e nuovi progetti. Sono l’impero della volontà cosciente che si trasforma in azione e sconfigge le strutture che ingabbiano gli esseri umani e i saperi imperanti. E quando arriva ad avere le dimensioni di un popolo, è invincibile.

Ben presto ci troveremo nel mezzo di una battaglia di simboli. La tranquilla e vergognosa esposizione di automobili “americane” durante la cerimonia di venerdì scorso pretendeva di cancellare tutta la grandezza cubana e di ridurre il paese alla nostalgia dei “bei tempi”, prima che imperassero la gentaglia e i castristi. L’attuale strategia degli Stati Uniti contro Cuba darà un buon numero di operazioni “dolci” e “intelligenti”, moderni fantocci della guerra del secolo XXI. E’ stata davvero positiva la dichiarazione che siamo disposti a mantenere relazioni diplomatiche anche se faranno parte di una nuova fase della politica diretta a sconfiggere e dominare Cuba. Oltre ad aver evitato di far ricorso all’ipocrisia che suole adornare certe uscite diplomatiche, è diretta più verso il nostro popolo che verso la controparte. Spazzar via le confusioni e sgonfiare le speranze puerili è uno dei compiti necessari. Nella misura in cui la maggioranza della popolazione parteciperà alla politica, in maniera sempre più attiva, essa stessa produrrà iniziative e genererà formule che annienteranno la pretesa nordamericana e i suoi commerci materiali e spirituali. Nelle rivoluzioni, il popolo è sempre decisivo.

[Trad. dal castigliano per nostramerica di Alessandra Riccio]

Venezuela: Intervista all’economista colombiano Rafael Enciso

di Geraldina Colotti – il manifesto

L’economista colom­biano Rafael Enciso ha appena finito il suo inter­vento e accetta di rispon­dere alle nostre domande. Del suo paese cono­sce bene l’esperienza del Sec­tor Coo­pe­ra­tivo Agro­pe­cua­rio, in par­ti­co­lare il lavoro orga­niz­zato delle coo­pe­ra­tive del caffè. Come stu­dioso e mili­tante di vari movi­menti, ha accom­pa­gnato per 25 anni i ten­ta­tivi – sem­pre nau­fra­gati — di por­tare a solu­zione il con­flitto armato che dura da oltre 50 anni. Dopo il fal­li­mento dei dia­lo­ghi di pace, nel 2002, ha dovuto lasciare la Colom­bia – paese alta­mente peri­co­loso per l’opposizione sociale — e vive da nove anni in Vene­zuela. Adesso è con­su­lente al Mini­stero del Lavoro e si occupa di imprese recu­pe­rate. In uno dei suoi saggi ana­lizza “Gli inse­gna­menti del modo di pro­du­zione sovie­tico per il socia­li­smo del secolo XXI in Venezuela”.

L’alternativa alla crisi siste­mica del capi­ta­li­smo – lei scrive – implica una rot­tura pro­fonda, un nuovo ordine inter­na­zio­nale a carat­tere mul­ti­po­lare e un nuovo modello pro­dut­tivo basato sul con­trollo ope­raio e comu­ni­ta­rio. Come si può costruire que­sta alter­na­tiva in un’economia ancora così basata sulla ren­dita petro­li­fera come quella venezuelana?

In que­sta fase di tran­si­zione, in cui l’impalcatura dello stato bor­ghese con­ti­nua a esi­stere, occorre arti­co­lare un sistema di con­trap­pesi per poterlo tra­sfor­mare dal basso sotto la spinta del potere popo­lare. Penso si possa svi­lup­pare un modello di gestione mul­ti­pla e socia­li­sta deter­mi­nato dalla par­te­ci­pa­zione dei diversi sog­getti orga­niz­zati. La prima è quella dei lavo­ra­tori orga­niz­zati in con­si­gli, nelle imprese e nelle isti­tu­zioni; la seconda è quella dei con­si­gli comu­nali e delle comuni, e riguarda la costru­zione del governo nei ter­ri­tori; la terza è quella dei con­si­gli dei pro­dut­tori e distri­bu­tori di mate­ria prima – pesca­tori, con­ta­dini -, che non sono sala­riati ma si pos­sono orga­niz­zare e par­te­ci­pare alla gestione della società. E poi c’è lo stato, che deve ade­guarsi, tra­sfor­marsi e agire come un attore in più, come fat­tore di coor­di­na­mento e di arti­co­la­zione, non di cen­tra­liz­za­zione ege­mo­nica. Que­sto mec­ca­ni­smo di con­trollo serve a impe­dire che una parte pre­valga sull’altra, che si svi­lup­pino inte­ressi paras­si­tari e buro­cra­tici, ma al con­tra­rio si impie­ghino le ener­gie per pia­ni­fi­care un’economia del bene comune basata sugli inte­ressi collettivi.

Osta­coli e con­trad­di­zioni, però, non mancano

Uno degli osta­coli prin­ci­pali è l’assenza di una cul­tura del lavoro, deter­mi­nata dal poco svi­luppo indu­striale, pro­dut­tivo e agri­colo. Per tutto il corso del XX secolo, i governi hanno pun­tato sull’estrazione e l’esportazione del petro­lio. Durante gli anni del neo­li­be­ri­smo sel­vag­gio (tra gli ’80 e il ’90), anche quei set­tori dell’economia che ave­vano rag­giunto un certo svi­luppo sono stati distrutti. Quando Cha­vez vince le ele­zioni, nel 98, trova un paese in ginoc­chio in cui, a fronte degli ele­vati indici di povertà estrema si è svi­lup­pata un’economia for­male di sus­si­stenza. Da un altro lato, pro­li­fe­rano forme di delin­quenza ende­mica e di cri­mi­na­lità orga­niz­zata legata al nar­co­traf­fico, forag­giato dagli Usa a par­tire dalla fine degli anni ’70. L’incidenza del para­mi­li­ta­ri­smo colom­biano e del ter­ro­ri­smo di stato impe­rante nel mio paese è sem­pre stata forte. In Vene­zuela vivono circa 5 milioni di colom­biani. Con l’arrivo del socia­li­smo abbiamo avuto accesso ai ser­vizi e alle coper­ture sociali, di cui hanno appro­fit­tato le orga­niz­za­zioni cri­mi­nali. Quando Alvaro Uribe va al governo in Colom­bia, aumenta in modo mas­sic­cio la pre­senza dei para­mi­li­tari in Vene­zuela, che cer­cano di appro­priarsi della ric­chezza del paese, in modo diretto o indi­retto. Nel 2006, ogni per­sona poteva inviare all’estero 300 dol­lari al mese, anche a un parente alla lon­tana. In molti si sono tra­sfe­riti qui per fare que­sto tipo di traf­fici. L’imperialismo cerca con ogni mezzo di “bal­ca­niz­zare” il Vene­zuela per distrug­gere il cam­bia­mento. La guerra eco­no­mica si ali­menta però anche di una catena per­va­siva di cor­ru­zione e pre­bende. I Con­si­gli ope­rai o quelli comu­nali si tro­vano a volte di fronte gruppi di potere o buro­crati che hanno accesso al con­trollo delle risorse e vedono minac­ciati i pro­pri inte­ressi. D’altro canto, manca la con­sa­pe­vo­lezza poli­tica che il socia­li­smo non è solo wel­fare, non basta ridi­stri­buire meglio la ric­chezza come si è fatto in Ita­lia per un periodo, occorre un cam­bia­mento strut­tu­rale nelle dina­mi­che pro­dut­tive e di potere. E il potere non si tra­sfe­ri­sce, si costrui­sce. Non pos­siamo idea­liz­zare la figura dell’operaio, del pro­le­ta­rio, né cer­care lo schema a tutti i costi. Ma non pos­siamo nep­pure igno­rare che, nella gestione dello stato, esi­stono gruppi il cui modo di pen­sare – al di là della loro estra­zione sociale – è legato a quello della pic­cola bor­ghe­sia e che eser­ci­tano il potere in fun­zione degli inte­ressi che rap­pre­sen­tano. Con loro, a un certo punto, biso­gnerà essere chiari: o accet­tano il potere dal basso oppure se ne devono andare.

Potere e Autogestione: oltre la resistenza

di Geraldina Colotti – il manifesto

 Il V Incontro internazionale. Esperienze e prospettive da tutto il mondo. Italia compresa

20ago2015.- Ope­rai, gior­na­li­sti, acca­de­mici, movi­menti sociali… Tante le voci a con­fronto nel V Incon­tro inter­na­zio­nale dell’Economia delle lavo­ra­trici e dei lavo­ra­tori, che si è svolto a Punto Fijo, in Vene­zuela, a fine luglio.

Per cin­que giorni, in uno spa­zio aperto e plu­rale, com­ple­ta­mente auto­ge­stito e auto­fi­nan­ziato, donne e uomini pro­ve­nienti dai cin­que con­ti­nenti hanno rac­con­tato la loro espe­rienza: sfide, ana­lisi e rispo­ste alla crisi strut­tu­rale del capitalismo.

Bren­dan Mar­tin è arri­vato da Chi­cago, dove gli ope­rai hanno recu­pe­rato una fab­brica di porte e fine­stre, tra­sfor­mata nella coo­pe­ra­tiva auto­ge­stita New Era Win­dows: con la loro tena­cia e anche gra­zie al sup­porto inter­na­zio­nale della Ong The Wor­king World, che aiuta le imprese recu­pe­rate a repe­rire fondi.

Rap­pre­sen­tanti delle uni­ver­sità auto­nome di alcune città del Mes­sico, hanno par­lato di nuove forme di sin­da­ca­li­smo e della lotta degli stu­denti, pagata a caro prezzo. E hanno rice­vuto la soli­da­rietà dei par­te­ci­panti, espressa nel docu­mento finale.

“Un testo a pro­ble­ma­tica aperta che risponde allo spi­rito dell’incontro, uni­ta­rio ma non dog­ma­tico, e mette le basi per il pros­simo con­fronto inter­na­zio­nale, fra due anni”, spiega l’antropologo argen­tino Andres Ruggeri.

Si deve al lavoro del pro­gramma che dirige alla Facoltà Aperta di Bue­nos Aires l’idea di que­sto ciclo di incon­tri inter­na­zio­nali, ini­ziato pro­prio in Vene­zuela su invito di Hugo Cha­vez, nel 2005.

“Abbiamo comin­ciato a lavo­rare con le imprese recu­pe­rate dopo la grande crisi del 2001 – dice ancora Rug­geri – con una visione più poli­tica che acca­de­mica. Vogliamo capire come può l’economia dei lavo­ra­tori auto­ge­stita essere un’alternativa vera al sistema capitalistico”.

Pur rima­nen­done all’interno e senza cam­bia­menti di sostanza nella strut­tura dello stato? “Que­sta, appunto, è la grande discus­sione. All’inizio, occu­pare è stata una stra­te­gia di soprav­vi­venza alla crisi. Ora, c’è chi pensa, insieme a una parte del governo, che le coo­pe­ra­tive pos­sono tra­sfor­marsi in imprese ed essere assor­bite dal sistema, diven­tarne fun­zio­nali. Biso­gna guar­darsi dalle astra­zioni inu­tili. La realtà è quella del sistema di accu­mu­la­zione capi­ta­li­sta, che a un certo punto può arri­vare a distrug­gere que­ste nuove espe­rienze. Ma, intanto, si crea una nuova coscienza, si pre­fi­gu­rano nuove forme eco­no­mi­che. Dall’esperienza pra­tica si pro­duce anche teo­ria. L’idea base dell’incontro è que­sta: riflet­tere su quel che sta nascendo e non sui mas­simi sistemi. Non a caso, la pro­por­zione fra acca­de­mici e ope­rai, che prima era di 80 a 20, ora si è inver­tita: aumenta il con­fronto concreto”.

Fra i temi dell’incontro, anche quello del lavoro pre­ca­rio, infor­male o ser­vile. Un’alternativa con­creta, la sta costruendo la rete Cestara, in Argen­tina, che federa coo­pe­ra­tive e pic­cole imprese augo­ge­stite, com­po­ste da figure che non hanno rap­pre­sen­tanza sin­da­cale né un vero sta­tuto amministrativo.

Per loro, ha par­lato Rodolfo, rac­con­tando anche l’esperienza di un bar alter­na­tivo chia­mato “Lo de Nestor”: Nestor che sta per Nestor Kirch­ner, “il pre­si­dente che, per primo, ci ha dato una grossa mano e ha lasciato la sua impronta inde­le­bile nel paese”.

Dall’Italia, hanno par­te­ci­pato rap­pre­sen­tanti della fab­brica recu­pe­rata di Milano RiMa­flow e delle Offi­cine Zero di Roma. Ma sono arri­vati a Punto Fijo anche dalla Fran­cia, dalla Spa­gna, dall’Olanda.

Dalla Gre­cia non ce l’hanno fatta, ma alla resi­stenza del popolo greco e a quella dei kurdi, il docu­mento finale ha espresso solidarietà.

Soli­da­rietà anche alla pic­cola ciurma del mani­fe­sto, che ha con­di­viso il tavolo sull’informazione alter­na­tiva con due espe­rienze di media auto­ge­stiti in Argen­tina: La Masa, di Rosa­rio, rac­con­tata da Manolo Robles, e El Dia­rio del Cen­tro del Pais, a Cor­doba, diven­tato Dia­rio de Villa Maria dopo la piccola-grande avven­tura del recu­pero della testata ad opera dei suoi lavoratori.

Con pre­ci­sione e poe­sia, Ser­gio Stoc­chero, gior­na­li­sta e docu­men­ta­ri­sta, ha rac­con­tato l’esperienza nel film El bar­quito de papel, che ha già rice­vuto premi e men­zioni in Ame­rica latina.

Venezuela: un laboratorio di nuove relazioni sociali

di Geraldina Colotti – il manifesto

Reportage Vtelca: fabbrica e compasso

20ago2015.- Un modello “inte­grato e soste­ni­bile, gestito dai lavo­ra­tori”. Così, Akram Maka­rem, pre­si­dente di Vtelca, rias­sume al mani­fe­sto la filo­so­fia della Vene­zo­lana de Tele­co­mu­ni­ca­cio­nes. Una fab­brica all’avanguardia nella costru­zione di tele­fo­nia e cel­lu­lari, la più grande del Venezuela.

Siamo a Punto Fijo, nella regione di Fal­con, peni­sola di Para­guana. Il Con­si­glio di fab­brica di Vtelca è stato uno dei pro­mo­tori del V Incon­tro inter­na­zio­nale sull’Economia dei lavo­ra­tori, che ha riu­nito rap­pre­sen­tanti di imprese recu­pe­rate e auto­ge­stite pro­ve­nienti da ogni parte del mondo.

C’era anche il mani­fe­sto, nella dop­pia veste di impresa auto­ge­stita da gran tempo, e poi recu­pe­rata di recente dal col­let­tivo di gior­na­li­sti e poli­gra­fici che la pro­duce. E tra i punti del docu­mento finale, che ha sot­to­li­neato l’importanza dell’informazione auto­ge­stita nella lotta “al lati­fondo media­tico”, si è espressa anche forte soli­da­rietà al nostro gior­nale, accom­pa­gnato nell’incontro da altre due coo­pe­ra­tive edi­to­riali auto­ge­stite in Argen­tina, di cui par­liamo in que­ste pagine.

Entriamo in una fab­brica che avanza nel futuro con lo sguardo vol­tato all’indietro, come l’Angelus Novus: l’angelo della sto­ria, qui, sug­ge­ri­sce ancora che “anche la cuoca può diri­gere lo stato”. Cam­mi­niamo fra i reparti, gli ope­rai salu­tano e spie­gano. Akram inter­viene per for­nire dati e cifre. E intanto risponde alle nostre domande.

E’ un qua­ran­tenne ener­gico di sta­tura media. La sua fami­glia è di ori­gine liba­nese, “antim­pe­ria­li­sta da sem­pre e sem­pre dalla parte del popolo pale­sti­nese”. L’8 marzo del 2010, l’allora pre­si­dente Cha­vez lo ha nomi­nato diret­tore di Vtelca, la cui infra­strut­tura si esten­deva su un peri­me­tro di 4200 mq, e ora supera i 30.000. Un’impresa pub­blica a cui par­te­cipa capi­tale cinese per poco più del 15%: “Dipen­diamo ancora da loro per la for­ni­tura dei mate­riali – dice il diret­tore – ma in que­sta fase stiamo avan­zando verso la piena autonomia”.

Qui si pro­duce il cel­lu­lare Ver­ga­ta­rio, da un’espressione popo­lare che signi­fica “uno in gamba”. Riprende il diret­tore: “Sarebbe molto più eco­no­mico con­ti­nuare con le for­ni­ture esterne, ma dob­biamo affran­carci dalla sto­rica dipen­denza dal petro­lio: non per seguire le orme dello svi­luppo capi­ta­li­sta, ma per prov­ve­dere alle neces­sità effet­tive dell’essere umano. A par­tire dalla fab­brica inte­grata, che mette al cen­tro la costru­zione di nuove rela­zioni sociali, stiamo pro­muo­vendo una visione del mondo alter­na­tiva alla cosid­detta effi­cienza capi­ta­li­sta, basata sulla rapina e la distru­zione delle risorse. Pro­du­ciamo tec­no­lo­gia soste­ni­bile in base a quel che serve dav­vero alla comu­nità. La nostra con­ce­zione dello svi­luppo non è la stessa che ha preso piede nel cosid­detto primo mondo: per pre­ser­vare la spe­cie, occorre eser­ci­tare un con­trollo sulla tec­nica e sui mezzi per pro­durla. Per que­sto non pen­siamo solo alla pro­du­zione mate­riale, ma a uno svi­luppo inte­grale dell’essere umano, il più pos­si­bile in armo­nia con la natura”.

Vtelca è un labo­ra­to­rio di nuove rela­zioni sociali. Entriamo nel reparto rici­clag­gio. Qui tutti gli scarti e i mate­riali recu­pe­rati ven­gono tra­sfor­mati in gio­cat­toli per bam­bini, in biblio­te­che o ban­chi per le scuole, o strut­ture per i par­chi pub­blici: non si pos­sono ven­dere, ma distri­buire gra­tui­ta­mente e l’occasione serve per mol­ti­pli­care i corsi sul rici­clag­gio e per far cono­scere il nuovo modello. Nella regione, vi è un grande parco eolico che pro­duce ener­gia alternativa.

“Quando rici­cliamo – spiega il respon­sa­bile per le rela­zioni pro­dut­tive, Nil Rodri­guez – agiamo anche sul sim­bo­lico, creiamo la meta­fora di un mondo diverso. Inol­tre, chie­diamo sem­pre ai lavo­ra­tori se vogliono par­te­ci­pare ai gruppi musi­cali, alla squa­dra spor­tiva, ai corsi di mura­les o di gior­na­li­smo comunitario”.

Durante l’orario di lavoro? Ma allora è vero quel che dice la destra, che la pro­du­zione crolla quando le fab­bri­che sono gestite dai lavoratori?

Akram Maka­rem sor­ride, mostra tabelle e gra­fici. “Abbiamo scelto di inve­stire sulla qua­lità della vita, sulla dignità del lavoro e della per­sona — dice — Non si può star bene in fab­brica se ci sono pro­blemi intorno. Cer­chiamo di agire come un com­passo: far leva su un punto e agire in cir­colo, per modi­fi­care l’ambiente intorno. Gli ope­rai pia­ni­fi­cano la pro­du­zione, che ogni anno aumenta. Lavo­riamo otto ore al giorno dal lunedì al venerdì, ma se rea­liz­ziamo la meta anzi­tempo, com­pen­siamo con tempo libero. Per que­sto, non abbiamo paura di sospen­dere la pro­du­zione quando c’è una gior­nata di ven­dita di qua­derni per i figli degli ope­rai, o una ven­dita di ali­menti, una gior­nata per la salute”.

In que­sti giorni, c’è stata una gior­nata di auto­di­fesa. La mili­zia popo­lare ha mostrato come resi­stere ai sabo­taggi e agli attac­chi desta­bi­liz­zanti. “Stiamo sof­frendo una guerra eco­no­mica da parte delle grandi imprese pri­vate che pro­vo­cano scar­sità dei pro­dotti, ma qui abbiamo un Pdval, una delle catene di distri­bu­zione ali­men­tare del governo”, dice il direttore.

Visi­tiamo anche il resto del com­plesso indu­striale. In que­sta zona c’è una delle cin­que più grandi raf­fi­ne­rie di petro­lio al mondo. La peni­sola di Para­guanà custo­di­sce anche un enorme patri­mo­nio in ter­mini di bio­di­ver­sità ed è una delle mete più fre­quen­tate dai turi­sti. Una Zona eco­no­mica spe­ciale (Zes) che si estende per 2.687,51 kmq e com­prende i comuni di Fal­cón, Los Taques e Carirubana.

Qui si pos­sono com­prare pro­dotti esen­tasse. Le stesse imprese – la cui par­te­ci­pa­zione deve comun­que rima­nere mino­ri­ta­ria rispetto a quella sta­tale — sono eso­ne­rate dalle impo­ste sulla ren­dita (Islr) al 100% : a con­di­zione di ade­guare il pro­cesso pro­dut­tivo alle esi­genze del mer­cato locale e alle espor­ta­zioni. Il secondo anno, se espor­tano il 70% della pro­du­zione, con­ti­nuano a non pagare le tasse, altri­menti ver­sano il 50% della Islr, e così via per 18 anni. Le com­pa­gnie stra­niere devono comun­que lasciare i gua­da­gni nella banca pub­blica nazio­nale per almeno cin­que anni e dar conto seme­stral­mente delle attività.

L’anno scorso, sono state isti­tuite altre Zes, una delle quali nel Tachira, alla fron­tiera con la Colom­bia, dove più lucroso per le mafie e deva­stante per l’economia vene­zue­lana è il traf­fico di pro­dotti al mer­cato nero.

Il Vene­zuela volta pagina nel 2007. Dopo aver assunto il suo secondo man­dato, Cha­vez spinge sul pedale delle nazio­na­liz­za­zioni: dalla tele­fo­nia, al petro­lio, dall’elettricità alla banca e alla finanza, dalla side­rur­gia ad alcune indu­strie di pro­du­zione di ali­menti. Un qua­dro con­tem­plato dalla costi­tu­zione – che comun­que tutela anche la pro­prietà pri­vata — e inau­gu­rato con l’espropriazione del grande lati­fondo. Un cam­bia­mento che ha già pro­vo­cato la rea­zione dei poteri forti e il colpo di stato del 2002, ma che non si è fermato.

Un pro­cesso basato comun­que più su com­pen­sa­zioni che su veri espro­pri. Nella Faglia dell’Orinoco – una zona di circa 55000 km2 che custo­di­sce le più grandi riserve di petro­lio al mondo – quasi tutte le mul­ti­na­zio­nali hanno accet­tato le com­pen­sa­zioni o le nuove regole per restare sotto l’egida di Pdvsa, la petro­li­fera statale.

Solo la mul­ti­na­zio­nale Usa Exxon Mobil è scesa sul piede di guerra e con­ti­nua il con­flitto nei tri­bu­nali inter­na­zio­nali o nelle acque dell’Esequibo, una zona con­tesa tra Vene­zuela e Guyana.

In molti casi, i lavo­ra­tori hanno spinto dal basso le deci­sioni di governo acce­le­rando il pro­cesso, come nel caso della Sidor, nazio­na­liz­zata nel 2009.

Al con­tempo, si è andato con­so­li­dando un qua­dro nor­ma­tivo per la crea­zione di Comu­nas e Imprese di pro­du­zione sociale, e si è dato nuovo impulso alla par­te­ci­pa­zione diretta dei lavo­ra­tori e delle lavo­ra­trici nella gestione, nella pia­ni­fi­ca­zione e nel con­trollo della pro­du­zione. Ma si apre il con­flitto anche all’interno delle fab­bri­che di stato, dove i con­si­gli ope­rai più com­bat­tivi accu­sano alcuni gerenti di fre­nare la tran­si­zione al socialismo.

“Qui assu­miamo il dibat­tito e la con­trad­di­zione – dice Akram – ma con spi­rito costrut­tivo e senza set­ta­ri­smi”. Su que­sti temi, nel V incon­tro inter­na­zio­nale di Punto Fijo, il dibat­tito teo­rico si è tra­sfe­rito nel con­fronto diretto con le diverse espe­rienze con­crete. “Da noi – spiega Jesus Gomez, del Movi­mento pro­le­tari uniti di Fal­con — l’intento è quello di tra­sfe­rire la gestione delle risorse diret­ta­mente nelle mani del popolo orga­niz­zato, per depo­ten­ziare dall’interno le strut­ture del vec­chio stato bor­ghese: per­ché il vec­chio tarda a morire e il nuovo fa ancora fatica a nascere”.

Wil­liam Godeyo, argen­tino che fa parte del movi­mento popo­lare Patria grande, ha osser­vato dall’interno lo svi­luppo delle Comu­nas. Per 3 anni, una bri­gata di 45 com­pa­gni ha tenuto corsi in varie comu­nità, appog­giati dal Mini­stero delle Comu­nas e da quello di Planificacion.

“Si tratta di un pro­cesso di costru­zione comu­nale dal basso – spiega – basato sulla fede­ra­zione di diversi con­si­gli comu­nali che, dopo essersi regi­strati, orga­niz­zano un pro­prio par­la­mento, deci­dono di cosa ha biso­gno la comu­nità. Spesso tutto si mette in moto con l’occupazione di edi­fici o ter­reni abban­do­nati, che poi ven­gono recu­pe­rati dal governo e resti­tuiti ai cit­ta­dini. Abbiamo par­te­ci­pato a pro­getti di costru­zione auto­ge­stita di case popo­lari, che pre­ve­dono anche lo svi­luppo di unità pro­dut­tive per garan­tire l’economia par­te­ci­pata sul territorio”.

Adesso siamo in una sala di Vtelca in cui tro­neg­giano grandi mani­fe­sti e mura­les: da una parte i padri sto­rici del mar­xi­smo, dall’altro quelli delle indi­pen­denze lati­noa­me­ri­cane e l’omaggio agli indi­geni e ai primi schiavi ribelli che qui hanno costruito le prime “repub­bli­che libere”.

Akram mostra un’altra parte dei pro­getti dedi­cata ai bam­bini: un per­corso ludico per­ché impa­rino a cono­scere il lavoro in fab­brica fin da pic­coli “e a impa­dro­nirsi della tec­no­lo­gia”. Un’operaia sale sul palco, spiega il per­corso di cono­scenza che ha por­tato la fab­brica a que­sto livello.

“Cre­diamo nel pen­siero di genere e nel ruolo pro­pul­sivo della donna nel socia­li­smo boli­via­riano”, approva il diret­tore. E cede la parola all’operaio Pacheco, che arriva sor­retto da un bastone.

A Vetelca, i diver­sa­mente abili dicono la loro. “E parte della tec­no­lo­gia pro­dotta viene modi­fi­cata per ren­dere più age­vole la loro condizione”.

Poi, si canta e si balla con le can­zoni di Ali Pri­mera, a cui la zona ha dato i natali.

AL: non epoca di cambiamenti, un cambiamento di epoca

11903537_820128578104618_664332439_ndi Ida Garberi*

«Nella storia degli uomini ogni atto di distruzione trova la sua risposta, presto o tardi, in un atto di creazione».

(Eduardo Galeano)

La famosa frase del titolo, enunciato del presidente ecuadoriano Rafael Correa, oggigiorno, non è oramai qualcosa di profetico, bensì una realtà invariabile.

Stavo pensando proprio questo osservando John Kerry mentre parlava nel cortile della nuova ambasciata statunitense a L’Avana. Lui stesso ha dovuto ammettere: “Prima di terminare voglio, sinceramente, ringraziare i leader delle Americhe, che hanno spronato gli Stati Uniti e Cuba per molto tempo affinché ristabiliscano lacci diplomatici normali”.

Questa dichiarazione dimostra che il popolo cubano ha sconfitto il vicino del Nord.

Dal trionfo della Rivoluzione nel 1959, Cuba ha rappresentato un raggio di luce nel continente: però poi, ha dovuto pagare molto caro la sua disobbedienza. Il suo nemico, che dista solo 90 miglia, ha tentato di isolarla dall’America Latina (nel 1962 l’OSA – Organizzazione degli Stati Americani – rompeva le relazioni diplomatiche con l’isola), condannandola ad un bloqueo genocida, ancora vigente.

Dopo l’espulsione dall’OSA, il popolo di Cuba ha emesso la “Seconda Dichiarazione de L’Avana”, un appello a tutti i popoli dell’America Latina e del mondo dove rivendica il lascito martiano e segnala il principale nemico dell’indipendenza e della sovranità del continente: il potere imperialista di Washington.

Questa dichiarazione costituisce un appello all’insubordinazione ed alla disobbedienza di tutte le nazioni contro un potere egemonico che vuole schiacciare le aspirazioni di libertà, uguaglianza e giustizia sociale degli umili e dei poveri della terra americana.

Penso che questo testo, pilastro dei distinti processi di integrazione e Resistenza agli appetiti imperiali degli USA, sia una delle fonti di ispirazione dei nuovi leader progressisti dell’America Latina. Chavez, Correa, Morales sono arrivati al potere nel momento in cui l’America Latina già non era più un fuoco insorgente, le armi non risultarono essere la soluzione per vincere il “Norte revuelto y brutal”; il socialismo del XXI secolo è l’evoluzione del progetto emancipatore del secolo XIX di Josè Martì e Simon Bolivar, ed i popoli latinoamericani hanno capito che dovevano creare una federazione di tutte le forze progressiste con un piano di integrazione regionale basato nella solidarietà, nella reciprocità, nella giustizia sociale e nella preservazione della cultura per vincere, nell’unità.

Un’altra volta, Cuba, col suo Comandante in capo Fidel Castro, è stata il faro che, con Hugo Chavez, ha creato nel 2004 l’Alternativa Bolivariana per le Americhe, ora Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, e che volle realizzare un’integrazione basata nella cooperazione, nella solidarietà e nella volontà comune per soddisfare le necessità e gli aneliti dei popoli latinoamericani e caraibici e, allo stesso modo, preservare la sua indipendenza, sovranità ed identità. Sorsero in seguito progetti come Petrocaribe, fino alla CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici), organizzazione regionale intergovernativa che riunisce i paesi dell’America Latina e dei Caraibi, senza l’ingerenza degli Stati Uniti e del Canada.

Il suo Vertice di fondazione è stato il 2 ed il 3 dicembre 2011 a Caracas con la presenza dei Presidenti e dei Capi di Governo di 33 paesi latinoamericani e caraibici, presieduta da colui che sempre rimarrà il nostro Comandante Eterno, Hugo Chavez.

Tra i governi progressisti del XXI secolo, la Rivoluzione Cittadina di Rafael Correa presiede questo anno la strategica organizzazione e lo stesso presidente ha affermato che “la CELAC dovrebbe sostituire l’OSA, che è sempre stato uno strumento di dominazione del governo statunitense”. “La nostra agenda di lavoro avrà 4 assi: la pianificazione dell’integrazione per far scomparire la povertà estrema; la nuova architettura finanziaria regionale; la regolazione del capitale multinazionale ed, in maniera fondamentale, la garanzia dei diritti umani”.

E come sicurezza che per Correa la solidarietà non è solo una parola, possiamo ricordare il suo appoggio incondizionato a Cuba dal suo arrivo al potere nel 2006: ha sempre contribuito con appoggi materiali in seguito ai danni degli uragani che hanno colpito l’Isola e nel 2012 ha istituito la “Missione di Appoggio alla Riabilitazione ed alla Costruzione Ecuador-Cuba Eloy Alfaro” che ha reso possibile l’edificazione di ben 1600 soluzioni domiciliari in Santiago di Cuba; nella lotta politica è stato il primo presidente che ha avuto il coraggio di chiedere agli USA la liberazione dei Cinque cubani nel Vertice dell’OSA di Trinidad e Tobago con Obama fisicamente presente nel forum; nel campo diplomatico fu il primo presidente che ha avuto l’idea di disertare i Vertici delle Americhe fino a che Cuba non fosse riammessa. Ed in tutte queste sfide chi ha vinto è stato Rafael Correa, con l’appoggio di “Nuestra América”.

L’Ecuador è quello che ha bisogno di solidarietà, poiché è minacciato da “un golpe soave” come parte della restaurazione conservatrice di quei settori di destra che persero il potere. Cuba è pronta per offrire il suo appoggio incondizionato. Si sono emesse dichiarazioni dell’Assemblea Nazionale cubana e perfino lo stesso popolo ha inviato il suo spirito di Resistenza a Rafael Correa ed alla Rivoluzione Cittadina ecuadoriana.

Un’altra volta, per concludere, voglio utilizzare alcune affermazioni di Fidel Castro che possono servire per riflettere, sia per Cuba che per Ecuador, due paesi che affrontano momenti determinanti. Alla sua entrata a L’Avana a Ciudad Libertad l’8 gennaio 1959 egli affermava: “Credo che sia questo un momento decisivo della nostra storia: la tirannia è stata abbattuta. L’allegria è immensa. E tuttavia, rimane molto da fare, ancora. Non dobbiamo farci illusioni credendo che da adesso tutto sarà facile; magari, da adesso, tutto sarà più difficile”.

*corrispondente di Cubainformacion a Cuba

Palmyra: l’Occidente ha armato la mano degli assassini

Riceviamo e pubblichiamo

Dopo l’ennesimo indicibile orrore, l’esecuzione a Palmyra dell’82enne archeologo siriano Khaled al Asaad, per mano dei terroristi del sedicente Stato islamico, in Occidente è una corsa da parte di tutti – governi, giornalisti, politici – a fregiarsi della sua memoria.  Strumentalizzando la sua morte. Ad esempio il martire sarà commemorato alle feste del Pd, ha comunicato il premier Renzi.

Peccato che molte delle organizzazioni e persone che ora si dichiarano commosse e indignate, in testa a tutti il Pd, da anni sostengano in vario modo la guerra in Siria e nel 2011 abbiano appoggiato la guerra Nato in Libia. A questi smemorati va ricordato quanto segue:

-Il sedicente Stato islamico (nato in Iraq dopo il 2003 grazie alla guerra di Bush) è cresciuto perché in Libia la Nato (Italia compresa) è stata la forza aerea delle milizie terroriste e razziste che hanno distrutto il paese e poi sono dilagate in Africa subsahariana e in Siria;

– In Siria lo Stato islamico è cresciuto (espandendosi dal 2014 anche in Iraq) con l’arrivo di combattenti stranieri grazie al 
flusso di aiuti materiali e all’appoggio politico dei paesi della Nato e delle petro-monarchie del Golfo, uniti nel cosiddetto gruppo di “Amici della Siria” (ora “Gruppo di Londra”), a vantaggio dei vari gruppi armati di opposizione. Questo ha alimentato – anche a colpi di propaganda e menzogne – una guerra che ha ucciso la Siria. E ha boicottato la pace.

-Eppure già dal 2012, come dimostrano documenti Usa desecretati e come tutti sapevano, l’opposizione armata era dominata da gruppi che miravano alla formazione di un califfato in Siria.

-Gli aiuti Nato/Golfo all’opposizione armata sono aiuti a gruppi estremisti, perché sono evidenti le porte girevoli fra le diverse formazioni, che sul campo o si alleano o cedono armi e uomini ai più forti. Il cosiddetto Esercito siriano libero è un guscio vuoto.

-L’appoggio a estremisti presenti o futuri continua: Usa e Turchia sono impegnati nel programma di addestramento e fornitura militare alla “Nuova forza siriana” (i cui adepti poi rifiutano di combattere contro l’Isis o si arrendono ad Al Nusra); Arabia saudita e Qatar continuano nell’appoggio finanziario perché la guerra vada avanti.

-L’Italia sta zitta. Pochi giorni fa il ministro Gentiloni ha accolto l’omologo saudita, impegnato anche a distruggere lo Yemen con la connivenza internazionale.
Lettera firmata da
Marinella Correggia, Torri in Sabina
Paolo D’Arpini, Treja

(FOTO) Venezuela-Siria: aquel hilo negro de los lacayos del imperialismo

«La ignorancia mata a los pueblos, por eso es preciso matar a la ignorancia».
(José Martí)

por ANROS Italia

Hay un sutil hilo negro que conecta, por un lado, los descuartizadores de Caracas al sueldo del partido fascista de Leopoldo López, de Maria Corina Machado y Capriles Radonski y, por otro lado, los criminales degolladores del autoproclamado “Estado islámico”.

Aunque no se conozcan entre ellos mismos, estos siervos del imperialismo se fijaron el mismo objetivo: desestabilizar los países no alineados con los intereses de la burguesía imperialista, llevando adelante una guerra de exterminio no declarada en la cual ellos son “útiles idiotas” y trágicos ejecudores.

Su nombre era Khalid Al-Asaad, 82 años; era el director del Museo Arqueológico de Palmyra, Patrimonio Mundial de la Unesco, en Siria.

Las bandas barbáricas de la más negra reacción del dicho “Estado islámico” lo ejecutaron y decapitaron porque él se puso como defensor del sitio arqueológico de la antigua ciudad siria que el fanatismo reaccionario takfirí no admite de alguna manera.

En 2001, el actual presidente de ANROS Italia, Emilio Lambiase, se entrevistó con el heróico director en el marco de su viaje en bicicleta desde Damasco hasta Baghdad con el fin de denunciar la agresión imperialista de Estados Unidos contra Irak.

En aquel entonces, se soñaba con un proyecto conjunto de cooperación y gestión entre los sitios de Palmyra, Paestum y Pompeya.

Hoy en día, podríamos tener un director arqueológico sirio en Italia.

Obama, Renzi, Merkel y Daesh han decido de manera diferente.

[Trad. en castellano para ALBAinformazione por Antonio Cipolletta]

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Brasil: La derecha ahora va por Lula

por Juan Manuel Karg

El próximo 16 de agosto habrá en Brasil una nueva movilización contra el gobierno de Dilma Rousseff, reelecto en 2014 por más de 54 millones de votos. En eso podría encontrarse una similitud con las marchas convocadas meses atrás, aunque ahora es el propio PSDB el que llama a movilizar. Sin embargo, el escenario cambió a partir de esta semana con la detención de José Dirceu, ex jefe de gabinete de Luiz Inácio Lula da Silva: subió un nivel más el acoso político-mediático contra el PT. ¿El intento consiste ahora en buscar disminuir los niveles de popularidad que aún conserva el ex presidente brasileño, a fin de evitar un posible retorno en 2018 al gobierno del nacido en Pernambuco? ¿La justicia brasileña, en connivencia con buena parte de la prensa de aquel país, busca ver en prisión a Lula para acabar con la era del PT en el gobierno?

De acuerdo a la declaración de la Comisión Ejecutiva Nacional del Partido de los , reunida el 4 de agosto pasado, la oposición conservadora brasileña busca tres objetivos, íntimamente vinculados entre sí:

a) Erosionar el gobierno de Dilma Rousseff;

b) Criminalizar al Partido de los;

c) Atacar la popularidad del ex presidente Lula da Silva.

En el primer y último punto se conjuga una idea central desde el punto de vista de la derecha brasileña: con Lula aún con -buenas- chances electorales, el PT seguirá vivo aún luego de un segundo gobierno complicado de Dilma. ¿Qué fenómeno explica esto? Es el ex presidente mejor valorado de la historia del país, muy por encima de Fernando Henrique Cardoso, fruto de las profundas transformaciones políticas, sociales y económicas que ha emprendido de 2003 a esta parte, luego de las administraciones neoliberales comandadas por el PSDB. Por ello ahora los cañones apuntan al nordestino, como bien marca la periodista Tereza Cruvinel en una reciente editorial, donde marca el “giro narrativo” detrás de la causa Lava Jato -Petrobras, que ahora buscaría llegar al propio ex presidente para intentar mermar un posible retorno a Planalto. Incluso la movilización del próximo 16 de agosto ya no se asoma como “espontánea” -aún cuando no lo haya sido así en el pasado-, sino que es reivindicada por el propio PSDB, quien la ha convocado.

Hay un elemento que fue poco destacado por los medios de comunicación de la región, pero que sirve para ilustrar el escenario de acoso que la derecha brasileña montó frente al PT en general y a Lula en particular: la bomba lanzada el 30 de julio pasado contra el Instituto Lula, el think thank creado por el ex metalúrgico para reflexionar sobre la integración regional. Para la Comisión Ejecutiva del PT, “el clima de intolerancia y odio que viene siendo desplegado por las fuerzas conservadoras derrotadas en las últimas elecciones es una afronta a las tradiciones del pueblo brasileño y agrava los problemas que el país viene superando”.¿Cuál sería la conclusión del PT en relación a esto? Los casos de corrupción deben ser investigados y juzgados, pero hay que evitar un pretexto en ellos para avanzar en una posible privatización de aquellas empresas públicas, como se parece pretender desde cierta élite conservadora que busca ahora retornar al gobierno.

Por ello, y como una respuesta a la marcha convocada por el PSDB, el PT se propone convocar a una gran movilización de movimientos sociales para el próximo 20 de agosto, en defensa de la democracia brasileña, de la empresa Petrobras, y del propio Partido de los. El “van por todo”, supuestamente atribuído a los cambios de los gobiernos posneoliberales, más bien podría explicarse en Brasil como una estrategia de la oposición conservadora: van por Dilma, pero también por Lula. Buscan frenar la posibilidad de que el PT permanezca en Planalto más allá de 2018. La “agenda de desestabilización” parece estar llegando a un climax en las semanas venideras. ¿A que más se animarán? ¿Qué tan masiva será la respuesta de la organizaciones sociales y políticas afines al PT? La respuesta a ambas preguntas ayudará a entender un poco más el escenario que viene.

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