Bolsonaro ed il fascismo

Risultati immagini per mst reforma agraria populardi Atilio A. Borón

È diventato un luogo comune caratterizzare il nuovo governo di Jair Bolsonaro come “fascista”. Questo, a mio avviso, costituisce un grave errore. Il fascismo non discende dalle caratteristiche di un leader politico, per quanto nei test di personalità o negli atteggiamenti della vita quotidiana, come nel caso di Bolsonaro – emerga una schiacciante predominanza di atteggiamenti reazionari, bigotti, sessisti, xenofobi e razzisti. È quello che i sociologi e gli psicologi sociali americani misuravano, dopo la seconda guerra mondiale, con la famosa “scala F”, in cui l’EFFE si riferiva al fascismo. In quel tempo si pensava, e alcuni ancora nutrono questa convinzione, che il fascismo fosse la cristallizzazione sul piano dello Stato e della vita politica di personalità squilibrate, portatrici di gravi psicopatologie, che per motivi circostanziali erano arrivate al potere. L’obiettivo politico di questa operazione era evidente: per il pensiero convenzionale e delle scienze sociali del tempo, la catastrofe del fascismo e del nazismo era da attribuire al ruolo di alcuni individui: la paranoia di Hitler o le manie di grandezza di Mussolini. Il sistema, cioè il capitalismo e le sue contraddizioni, era innocente e non aveva alcuna responsabilità rispetto all’olocausto della seconda guerra mondiale.

Superata questa interpretazione, ci sono coloro che insistono sul fatto che la presenza di movimenti o anche di partiti politici con chiare tendenze fasciste, inevitabilmente contrassegneranno in maniera inconfondibile il governo di Bolsonaro.

Si tratta di un altro errore: non sono questi a definire la natura profonda di una forma di stato come il fascismo. Nel primo Peronismo degli anni quaranta e nel Varguismo brasiliano, diverse organizzazioni e figure fasciste o fascistoidi brulicavano negli ambienti vicini al potere. Ma né il Peronismo né il Varguismo costruirono uno stato fascista. Il Peronismo classico è stato, usando la concettualizzazione gramsciana, un caso di “cesarismo progressivo”, che gli osservatori hanno potuto caratterizzare come fascista solo a causa della presenza di gruppi e persone tributari di quella ideologia. Loro erano davvero fascisti ma il governo di Perón no. Per parlare dei nostri tempi: Donald Trump è un fascista, se si guarda alla sua personalità, ma il governo degli Stati Uniti non lo è.

Dal punto di vista del materialismo storico, il fascismo non lo definiscono né le personalità né i gruppi. È una forma eccezionale dello Stato capitalista, con caratteristiche assolutamente uniche e irripetibili. Questa emerse quando il suo modo ideale di dominio, la democrazia borghese, affrontò una crisi molto grave, nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Per questo, diciamo che è una “categoria storica” ​​e che non sarà più in grado di riprodursi, perché le condizioni che hanno reso possibile la sua comparsa sono scomparse per sempre.

Quali furono le condizioni speciali che segnarono ciò che potremmo chiamare “l’era del fascismo”, assenti nella fase attuale?

In primo luogo, il fascismo era la formula politica con cui il blocco egemonico dominante di una borghesia nazionale risolse per via reazionaria e dispotica una crisi di egemonia causata dalla mobilitazione insurrezionale senza precedenti delle classi subalterne e dall’ampliamento del dissenso all’interno del blocco dominante, alla fine della prima guerra mondiale. Come se non bastasse, le borghesie in Germania e Italia lottavano per ottenere un posto nella divisione coloniale del mondo e contro i poteri dominanti sulla scena internazionale, in particolare il Regno Unito e la Francia. Il risultato fu la seconda guerra mondiale.

Oggi, nell’era della transnazionalizzazione e finanziarizzazione del capitale e col predominio di mega-società che operano su scala globale, la borghesia nazionale giace ormai nel cimitero delle vecchie classi dominanti. Il suo posto lo occupa adesso una borghesia imperiale e multinazionale, che ha subordinato, fagocitandoli, i suoi omologhi nazionali (compresi quelli dei paesi del capitalismo sviluppato) e agisce sulla scena mondiale attraverso una centralina che si riunisce periodicamente a Davos, per disegnare strategie globali di accumulazione e dominio politico. E, senza borghesia nazionale, non esiste un regime fascista, a causa dell’assenza del suo principale protagonista.

Secondo, i regimi fascisti furono radicalmente statalisti. Non solo non credevano nelle politiche liberali, ma erano apertamente antagonisti nei loro confronti. La loro politica economica era interventista, promuoveva il ruolo delle società pubbliche, proteggeva quelle del settore privato nazionale e stabiliva un rigido protezionismo nel commercio estero. Inoltre, la riorganizzazione dell’apparato statale, necessaria ad affrontare le minacce di insurrezione popolare e di discordia tra i “vertici”, proiettò ad un posto di rilievo nello Stato la Polizia politica, i servizi di intelligence e gli uffici della propaganda.

È impossibile per Bolsonaro tentare qualcosa del genere, data l’attuale struttura e complessità dello stato brasiliano, specialmente quando la sua politica economica sarà affidata a un “Chicago boy”, che ha proclamato ai quattro venti la sua intenzione di liberalizzare la vita economica.

In terzo luogo, i fascismi europei erano regimi di organizzazione e mobilitazione di massa, in particolare degli strati intermedi. Mentre perseguitavano e distruggevano le organizzazioni sindacali del proletariato, inquadravano vasti movimenti delle fasce medie minacciate e, nel caso italiano, portavano questi sforzi tra i lavoratori, dando origine a un sindacalismo verticale e subordinato ai mandati del governo. Vale a dire, la vita sociale era “corporativizzata” e resa obbediente verso i “vertici”. Bolsonaro, al contrario, promuoverà la de-politicizzazione – purtroppo avviata quando il governo di Lula cadde nella trappola tecnocratica e arrivò a credere che il “rumore” della politica spaventasse i mercati – e approfondirà la disintegrazione e atomizzazione della società brasiliana, la privatizzazione della vita pubblica, il ritorno delle donne e degli uomini a casa loro, ai loro templi e al loro lavoro, per adempiere ai loro ruoli tradizionali. Tutto questo è agli antipodi del fascismo.

Quarto, i fascismi furono Stati rabbiosamente nazionalisti. Lottavano per ridefinire a loro favore la “suddivisione del mondo”, il che li mise commercialmente e militarmente contro i poteri dominanti. Il nazionalismo di Bolsonaro, d’altra parte, è retorica inconsistente, pura logorrea senza conseguenze pratiche. Il suo “progetto nazionale” è quello di trasformare il Brasile nel  lacché preferito di Washington in America Latina e nei Caraibi, scalzando la Colombia dal ruolo infamante di “Israele sudamericano”. Lungi dall’essere riaffermazione degli interessi brasiliani, il bolsonarismo definisce il tentativo, speriamo infruttuoso, di sottomettere totalmente e ricolonizzare il Brasile sotto l’egida degli Stati Uniti.

Ma una volta chiarito tutto ciò, significa che il regime di Bolsonaro si asterrà dall’applicare le brutali politiche repressive che hanno caratterizzato i fascismi europei? Assolutamente no! Lo abbiamo detto prima, ai tempi delle genocide dittature “civico-militari”: questi regimi possono essere – eccettuando il caso della Shoa eseguita da Hitler – ancora più atroci dei fascismi europei. I trentamila prigionieri scomparsi in Argentina e la generalizzazione delle forme esecrabili di tortura ed esecuzione di prigionieri illustrano la perversa malvagità che questi regimi possono acquisire. Il fenomenale tasso di detenzione su centomila abitanti che ha caratterizzato la dittatura uruguaiana non ha eguali in tutto il mondo. Gramsci sopravvisse undici anni nelle segrete del fascismo italiano, mentre in Argentina sarebbe stato gettato in mare come tanti altri giorni dopo il suo arresto. Pertanto, la riluttanza a descrivere il governo di Bolsonaro come fascista non intende addolcire l’immagine di un personaggio emerso dalle fogne della politica brasiliana o di un governo che sarà fonte di enormi sofferenze per il popolo brasiliano e per tutta l’America Latina. Sarà un regime simile alle più sanguinose dittature militari conosciute in passato, ma non sarà fascista. Perseguiterà, imprigionerà e ucciderà senza pietà coloro che resisteranno ai suoi abusi. Le libertà saranno compresse e la cultura sottoposta a persecuzioni senza precedenti, allo scopo di sradicare “l’ideologia di genere” e qualsiasi variante del pensiero critico. Qualsiasi persona o organizzazione che gli si opponga, sarà il bersaglio del suo odio e della sua rabbia. I Senza Terra, i Senza Tetto, i movimenti delle donne, la LGTBI, i sindacati dei lavoratori, i movimenti studenteschi, le organizzazioni delle favelas, tutti saranno oggetto della sua frenesia repressiva.

Eppure, Bolsonaro non ha tutte le carte favorevoli in mano e incontrerà molte resistenze, anche se in maniera spontanea e disorganizzata all’inizio.

Le contraddizioni sono molte e gravi: l’imprenditoria – la “borghesia autoctona”, se non nazionale, come diceva il Che – si oppone all’apertura economica, perché teme di essere fatta a pezzi dalla concorrenza cinese; i militari in servizio non vogliono nemmeno saperne di un’incursione nelle terre venezuelane, né di offrire il loro sangue per un’invasione decisa da Donald Trump e basata sugli interessi nazionali degli Stati Uniti; le forze popolari, anche nella loro attuale dispersione, non si lasceranno facilmente soggiogare. Inoltre, cominciano ad apparire gravi accuse di corruzione contro questo falso “outsider” della politica, che è stato per ventotto anni deputato al Congresso brasiliano, in quanto testimone o partecipe di tutti gli intrallazzi che si sono covati in quegli anni. Pertanto, sarebbe bene ricordare ciò che è accaduto a un altro Torquemada brasiliano: Fernando Collor de Melo, che, come Bolsonaro, arrivò negli anni novanta con il fervore di un crociato della restaurazione morale e finì i suoi giorni da presidente con una fuga precipitosa dal Palazzo del Planalto. Presto potremo sapere che futuro aspetta il nuovo governo, però il pronostico non è molto favorevole e l’instabilità e le turbolenze saranno all’ordine del giorno in Brasile. Bisognerà essere pronti, perché la dinamica politica può assumere una velocità fulminante e il campo popolare deve poter reagire tempestivamente.

Perciò, l’obiettivo di queste riflessioni non era perdere tempo per inseguire distinzioni accademiche sulle diverse forme di dominio dispotico possibili nel capitalismo, bensì contribuire a una precisa caratterizzazione del nemico, senza la quale non si potrà mai combattere con successo. Ed è importantissimo sconfiggerlo, prima che faccia troppi danni.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione a cura di Marco Nieli].

Bolsonaro y el legado de Paulo Freire

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por Sofia Freire Dowbor*

Unas horas después de haber asumido Jair Bolsonaro, siento bronca. Mucha bronca. Me duele ver un presidente que no va a representar ni a defender los derechos de un pueblo, pero que fue elegido democráticamente en una elección que se inserta en un cuadro más amplio, de una ola conservadora que está barriendo el país, las américas e incluso Europa.

Bolsonaro propuso entrar con un “lanzallamas” al ministerio de Educación para erradicar hasta el último vestigio que nos dejó mi abuelo. Quiere anular el pensamiento crítico y el trabajo grupal. La crisis educativa en Brasil es un proyecto político: una educación de calidad, consciente y liberadora sería una gran amenaza para la clase dominante de uno de los países más desiguales del mundo. La enseñanza pública viene, desde la profundización del neoliberalismo con el golpe de Temer en 2016, pasando por un proceso de desmonte, que se profundizará con él en el poder: sus propuestas no son conexas, claras o estructuradas. Lo que sí se puede entender de sus declaraciones es que encara esta área tan fundamental para el desarrollo de la sociedad como una mercancía más en su lógica privatizadora.

El flamante presidente apoya la Base Nacional Curricular Común, que propone que sólo las áreas de lengua y matemática sean obligatorias en la currícula, desvalorizando a las ciencias naturales, humanas y sociales. Además, promulga la censura a los profesores a través del Proyecto de Ley Escuela sin Partido, que dice erradicar el “adoctrinamiento ideológico”; quiere ampliar la educación a distancia a partir de los seis años, debido a que miembros de su gabinete son empresarios en ese rubro; y busca cobrar mensualidades en las universidades públicas. Pero esto no es todo: también apoya la ley que congela los gastos en educación y salud por los próximos ¡veinte años! En definitiva, la educación es el fiel reflejo de un proyecto neoliberal que se radicalizará en nuestro país.

Me invade el alma tamaña injusticia, cuando veo que desprestigian el legado de Paulo Freire. Con ayuda de los medios de comunicación dominantes, e incluso de fake news, se construyó una campaña basada en emociones y no en la racionalidad, manteniendo la narrativa falsa de que el Partido de los Trabajadores (PT) fue el partido más corrupto. “Una mentira repetida mil veces se vuelve verdad”, aseguraba una máxima de la estrategia de comunicación del nazismo. Con su asunción, llegan a ocupar cargos políticos personas que apoyan un discurso totalitario y afirman que “el error de nuestra dictadura militar fue haber torturado en vez de matar más personas”. ¡Es temible nuestro futuro! Siento una inmensa angustia, por mí y por el resto de mis hermanas y hermanos.

Desde las prácticas educativas populares podremos comprendernos, aumentando nuestra capacidad de transformación, ocupando los espacios políticos, reivindicando debates y combatiendo los retrocesos institucionales de nuestra política; luchando en las escuelas, en las periferias, partiendo del afecto, construyendo caminos hasta lograr la libertad, esa que tanto les molesta. Hoy más que nunca, la educación popular resulta fundamental para generar un ser colectivo, porque como bien decía mi abuelo “si la educación no es liberadora, el sueño del oprimido será convertirse en opresor”.

No nos quedaremos dormidos, aunque anestesie el televisor…

El pueblo brasilero en la calle,
¡será nuestro motor!

*nieta de Paulo Freire

Bolsonaro y el fascismo

por Atilio A. Boron

Se ha vuelto un lugar común caracterizar al nuevo gobierno de Jair Bolsonaro como “fascista”. Esto, a mi juicio, constituye un grave error. El fascismo no se deriva de las características de un líder político por más que en los tests de personalidad –o en las actitudes de su vida cotidiana, como en el caso de Bolsonaro- se compruebe un aplastante predominio de actitudes reaccionarias, fanáticas, sexistas, xenofóbicas y racistas. Esto era lo que medían los sociólogos y psicólogos sociales estadounidenses a la salida de la Segunda Guerra Mundial con la famosa “Escala F”, donde la efe se refería al fascismo. Se pensaba en esos momentos, y algunos todavía alimentan esa creencia, que el fascismo era la cristalización en el plano del Estado y la vida política de personalidades desquiciadas, portadoras de graves psicopatologías, que por razones circunstanciales se habían encaramado al poder. La intencionalidad política de esta operación era obvia: para el pensamiento convencional y para las ciencias sociales de la época la catástrofe del fascismo y el nazismo debían ser atribuidas al papel de algunos individuos: la paranoia de Hitler o los delirios de grandeza de Mussolini. El sistema, es decir, el capitalismo y sus contradicciones, era inocente y no tenía responsabilidad alguna ante el holocausto de la Segunda Guerra Mundial.

Descartada esa visión hay quienes insisten que la presencia de movimientos o inclusive partidos políticos de clara inspiración fascista inevitablemente teñirán de modo indeleble al gobierno de Bolsonaro.

Otro error: tampoco son ellas las que definen la naturaleza profunda de una forma estatal como el fascismo. En el primer peronismo de los años cuarenta así como en el varguismo brasileño pululaban en los círculos cercanos al poder varias organizaciones y personajes fascistas o fascistoides. Pero ni el peronismo ni el varguismo construyeron un Estado fascista. El peronismo clásico fue, usando la conceptualización gramsciana, un caso de “Cesarismo progresivo” al cual sólo observadores muy prejuiciados pudieron caracterizar como fascista debido a la presencia en él de grupos y personas tributarios de esa ideología. Esos eran fascistas pero el gobierno de Perón no lo fue.

Viniendo a nuestra época: Donald Trump es un fascista, hablando de su personalidad, pero el gobierno de EEUU no lo es.

Desde la perspectiva del materialismo histórico al fascismo no lo definen personalidades ni grupos. Es una forma excepcional del Estado capitalista, con características absolutamente únicas e irrepetibles.

Irrumpió cuando su modo ideal de dominación, la democracia burguesa, se enfrentó a una gravísima crisis en el período transcurrido entre la Primera y la Segunda Guerra mundiales. Por eso decimos que es una “categoría histórica” y que ya no podrá reproducirse porque las condiciones que hicieron posible su surgimiento han desaparecido para siempre.

¿Cuáles fueron las condiciones tan especiales que demarcaron lo que podríamos llamar “la era del fascismo”, ausentes en el momento actual?

En primer lugar el fascismo fue la fórmula política con la cual un bloque dominante hegemonizado por una burguesía nacional resolvió por la vía reaccionaria y despótica una crisis de hegemonía causada por la inédita movilización insurreccional de las clases subalternas y la profundización del disenso al interior del bloque dominante a la salida de la Primera Guerra Mundial. Para colmo, esas burguesías en Alemania e Italia bregaban por lograr un lugar en el reparto del mundo colonial y las enfrentaba con las potencias dominantes en el terreno internacional, principalmente el Reino Unido y Francia. El resultado: la Segunda Guerra Mundial. Hoy, en la era de la transnacionalización y la financiarización del capital y el predominio de mega-corporaciones que operan a escala planetaria la burguesía nacional yace en el cementerio de las viejas clases dominantes. Su lugar lo ocupa ahora una burguesía imperial y multinacional, que ha subordinado fagocitado a sus congéneres nacionales (incluyendo las de los países del capitalismo desarrollado) y actúa en el tablero mundial con una unidad de mando que periódicamente se reúne en Davos para trazar estrategias globales de acumulación y dominación política. Y sin burguesía nacional no hay régimen fascista por ausencia de su principal protagonista.

Segundo, los regímenes fascistas fueron radicalmente estatistas. No sólo descreían de las políticas liberales sino que eran abiertamente antagónicos a ellas. Su política económica fue intervencionista, expandiendo el rango de las empresas públicas, protegiendo a las del sector privado nacional y estableciendo un férreo proteccionismo en el comercio exterior. Además, la reorganización de los aparatos estatales exigida para enfrentar las amenazas de la insurgencia popular y la discordia entre “los de arriba” proyectó a un lugar de prominencia en el Estado a la policía política, los servicios de inteligencia y las oficinas de propaganda. Imposible que Bolsonaro intente algo de ese tipo dadas la actual estructura y complejidad del Estado brasileño, máxime cuando su política económica reposará en las manos de un Chicago “boy” y ha proclamado a los cuatro vientos su intención de liberalizar la vida económica.

Tercero, los fascismos europeos fueron regímenes de organización y movilización de masas, especialmente de capas medias. A la vez que perseguían y destruían las organizaciones sindicales del proletariado encuadraban vastos movimientos de las amenazadas capas medias y, en el caso italiano, llevando estos esfuerzos al ámbito obrero y dando origen a un sindicalismo vertical y subordinado a los mandatos del gobierno. O sea, la vida social fue “corporativizada” y hecha obediente a las órdenes emanadas “desde arriba”. Bolsonaro, en cambio, acentuará la despolitización -infelizmente iniciada cuando el gobierno de Lula cayó en la trampa tecnocrática y creyó que el “ruido” de la política espantaría a los mercados- y profundizará la disgregación y atomización de la sociedad brasileña, la privatización de la vida pública, la vuelta de mujeres y hombres a sus casas, sus templos y sus trabajos para cumplir sus roles tradicionales. Todo esto se sitúa en las antípodas del fascismo.

Cuarto, los fascismos fueron Estados rabiosamente nacionalistas. Pugnaban por redefinir a su favor el “reparto del mundo” lo que los enfrentó comercial y militarmente con las potencias dominantes. El nacionalismo de Bolsonaro, en cambio, es retórica insustancial, pura verborrea sin consecuencias prácticas. Su “proyecto nacional” es convertir a Brasil en el lacayo favorito de Washington en América Latina y el Caribe, desplazando a Colombia del deshonroso lugar de la “Israel sudamericana”. Lejos de ser reafirmación del interés nacional brasileño el bolsonarismo es el nombre del intento, esperamos que infructuoso, de total sometimiento y recolonización del Brasil bajo la égida de Estados Unidos.

Pero, dicho todo esto: ¿significa que el régimen de Bolsonaro se abstendrá de aplicar las brutales políticas represivas que caracterizaron a los fascismos europeos. ¡De ninguna manera! Lo dijimos antes, en la época de las dictaduras genocidas “cívico-militares”: estos regímenes pueden ser –salvando el caso de la Shoa ejecutada por Hitler- aún más atroces que los fascismos europeos. Los treinta mil detenidos-desaparecidos en la Argentina y la generalización de formas execrables de tortura y ejecución de prisioneros ilustran la perversa malignidad que pueden adquirir esos regímenes; la fenomenal tasa de detención por cien mil habitantes que caracterizó a la dictadura uruguaya no tiene parangón a nivel mundial; Gramsci sobrevivió once años en las mazmorras del fascismo italiano y en la Argentina hubiera sido arrojado al mar como tantos otros días después
de su detención. Por eso, la renuencia a calificar al gobierno de Bolsonaro como fascista no tiene la menor intención de edulcorar la imagen de un personaje surgido de las cloacas de la política brasileña; o de un gobierno que será fuente de enormes sufrimientos para el pueblo brasileño y para toda América Latina. Será un régimen parecido a las más sanguinarias dictaduras militares conocidas en el pasado, pero no será fascista. Perseguirá, encarcelará y asesinará sin merced a quienes resistan sus atropellos. Las libertades serán coartadas y la cultura sometida a una persecución sin precedentes para erradica “la ideología de género” y cualquier variante de pensamiento crítico. Toda persona u organización que se le oponga será blanco de su odio y su furia. Los Sin Tierra, los Sin Techo, los movimientos de mujeres, los LGTBI, los sindicatos obreros, los movimientos estudiantiles, las organizaciones de las favelas, todo será objeto de su frenesí represivo.

Pero Bolsonaro no las tiene todas consigo y tropezará con muchas resistencias, si bien inorgánicas y desorganizadas al principio.

Pero sus contradicciones son muchas y muy graves: el empresariado –o la “burguesía autóctona”, que no nacional, como decía el Che- se opondrá a la apertura económica porque sería despedazado por la competencia china; los militares en actividad no quieren ni oír hablar de una incursión en tierras venezolanas para ofrecer su sangre a una invasión decidida por Donald Trump en función de los intereses nacionales de Estados Unidos; y las fuerzas populares, aún en su dispersión actual no se dejarán avasallar tan fácilmente. Además, comienzan a aparecer graves denuncias de corrupción contra este falso “outsider” de la política que estuvo durante veintiocho años como diputado en el Congreso de Brasil, siendo testigo o partícipe de todas las componendas que se urdieron durante esos años. Por lo tanto, sería bueno que recordara lo ocurrido con otro Torquemada brasileño: Fernando Collor de Melo, que como Bolsonaro llegó en los noventas con el fervor de un cruzado de la restauración moral y terminó sus días como presidente con un fugaz paso por el Palacio del Planalto. Pronto podremos saber qué futuro le espera al nuevo gobierno, pero el pronóstico no es muy favorable y la inestabilidad y las turbulencias estarán a la orden del día en Brasil. Habrá que estar preparados, porque la dinámica política puede adquirir una velocidad relampagueante y el campo popular debe poder reaccionar a tiempo.

Por eso el objetivo de esta reflexión no fue entretenerse en una distinción académica en torno a las diversas formas de dominio despótico en el capitalismo sino contribuir a una precisa caracterización del enemigo, sin lo cual jamás se lo podrá combatir exitosamente. Y es importantísimo derrotarlo antes de que haga demasiado daño.

(FOTO) L’incontro con Manuela D’Ávila a Napoli

Romina Capone (sx) e Antonio Cipolletta (dx) della redazione di ALBAinformazione con la compagna Manuela D’Ávila

di Romina Capone

Napoli. Dal primo gennaio 2019 Jair Bolsonaro ha assunto la presidenza del Brasile. A chiusura del 2018 Manuela D’Ávila, parlamentare brasiliana, già candidata alla vicepresidenza del Brasile per il Partito Comunista do Brasil e per il PT di Lula, nelle uniche due tappe italiane di Roma e Napoli, quest’ultimo tenutosi il 13 dicembre 2018 presso la Sala “Annamaria Cirillo” della Città Metropolitana, avverte: “Il fascismo è tornato è minaccia le nostre ricchezze, i diritti umani e i diritti sociali”.

Le forze progressiste del mondo esistono e sono la voce dell’altra metà del popolo brasiliano che, nonostante il discorso sciovinista adottato da Bolsonaro, resiste.

Ad analizzare ciò che sta accadendo da anni fino alle ultime ore in Brasile, con la cerimonia di insediamento del neo presidente di estrema destra Bolsonaro, è Manuela D’Ávila. «Siamo molto preoccupati per quanto sta accadendo in Brasile e tutti i segnali che arrivano dal mondo intero ci allertano sulle difficoltà a cui andremo in contro». Fa autocritica e analizza gli errori del suo partito nei precedenti anni: «abbiamo sbagliato, non riusciamo a parlare direttamente con il popolo, abbiamo fatto degli errori, il mio paese vive un lungo processo di deindustrializzazione, abbiamo limiti perché non riusciamo a gestire il problema della sicurezza: sessantadue mila morti ammazzati nell’ultimo anno. Già da quindici anni il Brasile ha tentato di camminare da solo provando ad avere un commercio prioritario con i paesi del Sud e dominare le tecnologie per le estrazioni del petrolio. Siamo nel 2019 ma viviamo fermi al 2001. Nel 2008 comincia la crisi economica capitalista e siamo riusciti a tenere lontani i suoi effetti dal Brasile fino al 2011. Abbiamo tentato e cercato diverse soluzioni per combattere il capitalismo dall’interno senza gravare sul salario degli operai e sui contratti di lavoro. Nel 2013 parte un’azione di mobilitazione sociale per garantire e riconoscere diritti a tutte quelle persone che fino ad allora non ne avevano, alla gente più povera. Nel 2013 parte dell’America Latina ha avuto presidenti progressisti: Correa, Lula e Maduro. Nel 2014 Dilma Rousseff è al governo. La destra “democratica” brasiliana non riconobbe il risultato delle elezioni» . «Il Brasile già dal 2016 vive un governo di destra “democratica” che non è un governo Lula né Bolsonaro. Temer ex presidente del Brasile ha posto al centro delle azioni dei governo l’agenda di austerità. Ha generato una riforma del lavoro, ha cancellato tutte le leggi contro il lavoro nero, ha scritto un emendamento alla Costituzione Brasiliana in cui è proibito investire su finanziamenti pubblici per i prossimi venti anni e lo ha fatto nonostante negli ultimi trent’anni il Brasile ha già avuto riduzioni drastiche sugli investimenti pubblici. È in questi frangenti e in questi ambienti che è emerso Bolsonaro. Vivevamo una crisi e abbiamo avuto un indebolimento delle istituzioni, abbiamo avuto l’entrata dei giudici nella gestione interna del nostro Paese e abbiamo avuto l’assassinio di Mariel Franco e infine Lula, il quale avrebbe vinto senza dubbio le elezioni, detenuto ingiustamente».

Manuela D’Ávila con il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris

Ma chi è Bolsonaro?

«Bolsonaro è un prersonaggio assolutamente autoritario. Agirà in due modi nel corso del suo mandato. Prima fase: farà entrare i militari nel governo. Perseguirà tutti coloro che la pensano diversamente da lui. Si scaglierà contro le associazioni e i movimenti sociali presenti sul territorio e i partiti di sinistra. Seconda fase, ancora più vicina al fascismo, non è solo la violenza dello Stato, qualsiasi diversità sarà considerata nemica. Non possiamo evitare che questo accada, ma possiamo e dobbiamo resistere», continua D’Ávila.

Chi sono i suoi nemici?

«I comunisti. Io non sapevo di fare parte del partito più grande del mondo – ironizza D’Ávila – perché tutti coloro che non hanno votato per lui sono comunisti. Quindi secondo Bolsonaro, chi sono i comunisti? Sono le donne, la Chiesa Cattolica, gli uomini che pensano che le donne debbano avere i propri spazi, i religiosi che credono che lo Stato debba essere laico. E quando Bolsonaro parla di tutto questo, dice che la violenza è giustificata, legittima. Ci sta rendendo disumani».

«Ho una bambina di tre anni – racconta D’Ávila – e la prima volta che mi hanno aggredita mia figlia aveva quarantacinque giorni, colpendola, sostenendo che la figlia di una comunista non è una bambina. Chi è stato? Non il governo ma la gente ispirata dall’ideologia del presidente eletto nel Paese».

«Bolsonaro deve ricordarsi che è presidente di un paese povero e il discorso reazionario nei paesi poveri è molto peggio che nei paesi ricchi. Questo significa che consegnerà il Brasile agli statunitensi, perché questo alimenterà il neocolonialismo e perché questi sono capi di stato che regalano i paesi poveri al capitalismo. Con certi personaggi al governo è inevitabile la fine del mercato unico dei paesi del Sud America. Stiamo per perdere le nostre ricchezze, i nostri diritti
umani e sociali. Ci sarà un cambio di gestione nelle politiche sociali e popolari. Avverrà una privatizzazione nel campo energetico e petrolifero».

«Tema più importante nelle elezioni brasiliane è stato il Venezuela. Ammiro e apprezzo molto il popolo fraterno venezuelano, ma perché quando giro per il mondo mi chiedono spiegazioni riguardo alla situazione venezuelana e non del Brasile? Semplice: preoccuparsi del Venezuela significa preoccuparsi del petrolio. Ma Brasile e Venezuela hanno una linea di confine unica al mondo: l’Amazzonia. Lì c’è l’acqua più pura al mondo. Questa frontiera custodisce la più grande biodiversità della Terra. Questo è il motivo per cui si inventa che il Brasile ha conflitti con il Venezuela. Il capitalismo antidemocratico mira all’Amazzonia».

«Le ultime elezioni in Brasile si sono basate sulle fake news, ma non intese come semplici bugie. In un giorno solo sono riuscita a smascherare settanta post falsi che mi riguardavano. Queste fake news sono arrivate a tredici milioni di visualizzazioni. Chi ha letto queste fake news? Le persone interessate all’argomento. È così che funziona il meccanismo del big data: generare dal nulla una notizia appositamente per catturare l’attenzione di quel pubblico interessato a quell’argomento specifico. Internet non è solo spazio di fake news ma organizzazione popolare, è scambio di idee, è organizzazione. Ma la destra “democratica” sta per mettere in atto l’unico mezzo di controllo in assoluto: la censura. Un meccanismo autoritario su di noi. Di fronte a tutto questo, la cosa più importante in Brasile è resistere e mantenere l’unità. La democrazia – così conclude Manuela D’Ávila – è la strada per il futuro».

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Napoli 13dic2018: Incontro con Manuela D’Avila e Amarilis Gutiérrez Graffe

Il sicario giudiziario

Morodi Atilio Borón

3 novembre 2018

La prematura nomina del giudice Sergio Moro a ministro della Giustizia del Brasile verrà registrata nella storia come il caso paradigmatico, per la sua sfrontatezza al limite dell’osceno, dell’emergere di un giocatore sinistro nella democrazia dell’America Latina, perennemente sotto ricatto: il “sicario giudiziario”. A differenza dei suoi predecessori che annientavano le loro vittime fisicamente, il sicario giudiziario, come il suo collega economico di più antica data (si veda il famoso libro di John Perkins, Confessioni di un Sicario dell’Economia), le elimina con un’arma silenziosa e quasi invisibile agli occhi dei suoi contemporanei: la “legge”. Si tratta dell’uso arbitrario e distorto del diritto, consistente nel violare i principi e le procedure stabilite dal giusto processo, allo scopo di demolire – con la prigione o l’esilio – chi, per qualche ragione, costituisce una figura fastidiosa per classi dominante o l’imperialismo. In altre parole, ucciderlo politicamente.

Il sicario giudiziario incarna il processo di putrefazione della giustizia di un paese, mettendo a nudo sfacciatamente il suo carattere di classe e la sua sottomissione abietta agli ordini dei potenti. Per estensione, rivela anche il degrado della vita democratica che tollera le azioni di questi criminali. Come l’assassino prezzolato, il sicario giudiziario agisce su comando. Si tratta di un “killer” di nuovo tipo che, grazie alla sua posizione nella struttura del sistema giudiziario, può disporre a piacimento della vita e della proprietà delle sue vittime, per cui viola impunemente non solo la lettera ma anche lo spirito delle leggi, sovvertendo assiomi giuridici fondamentali (la presunzione di innocenza, per esempio) e inviando in galera senza prove evidente. E come i suoi precursori operano con la pistola e gli esplosivi, egli agisce sotto una coltre di protezione,  il che garantisce non solo che i suoi crimini restino impuniti, ma che le sue “uccisioni civili” saranno esaltate come fulgidi esempi di rispetto della legge e delle istituzioni della repubblica.

Per perpetrare i suoi crimini, deve essere protetto dalla complicità dell’intero sistema giudiziario. I giudici, i pubblici ministeri e i consigli giudiziari chiudono gli occhi di fronte al suo agire; la stampa egemonica, complice indispensabile del malfattore con le sue fake news e le sue post-verità, produce il linciaggio mediatico dei suoi avversari, facilitandone la successiva condanna, la reclusione e l’ostracismo politico. La popolarità di questo nuovo tipo di gangster giudiziario si basa sulla spettacolarità dei suoi interventi, quasi sempre provenienti dai dati e dalle piste indicate dalle agenzie di intelligence, dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e selettivamente dirette contro coloro che sono sospettati di essere nemici dell’attuale ordine sociale.

Sergio Moro era uno studente normale dei corsi di “buone pratiche”, che, per decenni, Washington ha organizzato per educare i giudici e i pubblici ministeri a una buona amministrazione della giustizia. Una cosa che ha imparato a fare è stata espellere dalla corsa un leader popolare e creare le condizioni per consentire la demolizione di una costruzione politica moderatamente riformista, ma che tuttavia ha suscitato un intenso ripudio da parte dell’impero. Questo nuovo e sfortunato attore politico ha fatto irruzione sulla scena latino-americana, non per sparare proiettili ma sentenze; non per uccidere, ma per condannare, imprigionare e stabilire una gigantesca frode elettorale, dal momento che, come si diceva in Brasile, “senza Lula, l’elezione è frode.”

E così è stato. Come ogni sicario, lavora su richiesta e riceve grandi ricompense per il suo spregevole lavoro. Nel caso in questione, la scandalosa violazione del diritto è stata compensata dal suo mandante con il Ministero della Giustizia, e da lì sicuramente organizzerà nuove cacce per la produzione di “pulizia” politica e sociale, che ha promesso l’energumeno che dal prossimo anno sarà Presidente del Brasile. Con la sua designazione, sono smascherate le mire della trama ordita per evitare, ad ogni costo, il ritorno di Lula al governo. L’emergere di questo nuovo attore ci costringe a coniare una nuova – inquietante – categoria dell’analisi politica: il sicario giudiziario, ancora più dannoso degli altri sicari. Certo, sarebbe un grave errore pensare che Moro sia una manifestazione esotica della politica brasiliana. L’uovo del serpente, all’interno del quale matura questo sinistro personaggio, si vede ormai chiaramente in Argentina, Ecuador, Bolivia e Paraguay.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Marco Nieli]

Brasil: la previa del “Gran Día”

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Aproveché mi viaje de regreso a Buenos Aires para charlar con varios empleados en el Aeropuerto de Río de Janeiro. La conversación me dejó desolado, ahondando la sensación que cosechara en las calles de Río durante toda la semana. Hablé con varios empleados de limpieza, ayudantes de las aerolíneas, changarines y vendedores en negocios y bares. Todas, sin excepción, gentes de un origen social muy humilde y preguntándome por qué me marchaba en las vísperas del “Gran Día”.

Fingiendo ser un distraído turista que ignoraba los asuntos políticos del país pregunté qué tenía de especial este próximo domingo. Respuesta: “mañana Brasil elige si será gobernado por un gigante o por un ladrón”. Varios me aclararon: el gigante es Bolsonaro, y Haddad es el ladrón. Y va a ganar el gigante, aseguraron todos. ¿Y qué va hacer el gigante?, le pregunté a otra. “Va a hacer la revolución que Brasil necesita”, me respondió sin titubear. “¿La revolución?”, pregunté fingiendo sorpresa e incredulidad. “Si”, me dijo. “Una revolución para acabar con bandidos y ladrones. El gigante se encargará de limpiar este país”. En un discurso calcado de lo que a diario se escucha en la Argentina mis interlocutores decían que los petistas “se habían robado todo”, que Lula merecía estar en la cárcel, que su hijos se habían convertido en multimillonarios. “Bolsonaro”, me dijo uno de los más enfervorizados, “es un patriota que ama a Brasil y con la limpieza de bandidos que va a hacer este país será grande y respetado otra vez.” La siniestra mano de Steve Bannon -el ultrareaccionario asesor de campaña de Donald Trump y cuyo equipo hace meses está instalado en Brasil- apareció de manera inconfundible. Al fin y al cabo, el slogan del “gigante” es una copia al portugués del empleado en la campaña de Trump: “Hagamos que América sea grande otra vez” , decía el estadounidense. Ahora es Brasil quien, de la mano de Bolsonaro, debe resurgir de las cenizas a las cuales lo redujo el PT.

Había un elemento adicional en estas respuestas. Más allá de las creencias se percibía un vigoroso sentimiento de camaradería entre estos empleados precarizados y explotados, que al cruzarse en los pasillos del aeropuerto se decían: “¡mañana, mañana será el Gran Día!” Un fervor religioso los “religaba” (de ahí el origen de la palabra “religión”). El Mesías -Jair Messias Bolsonaro, que adoptó su segundo nombre luego de un fantasioso bautismo en las aguas del Jordán en medio de una amplia cobertura mediática- estaba por llegar y este sábado estábamos en las vísperas de la epifanía que proyectaría al Brasil al lugar que le corresponde en el mundo. “Dieciséis años (¡Sic!) de gobierno de los bandidos” habían convertido a esta gran nación en una suerte de mendigo internacional por causa de la corrupción oficial, mancillando el honor de toda una nación y sumiéndola en la violencia y la desesperanza.

Las letanías se repetían con milimétricas similitud. En un momento a uno de ellos le pregunté si el programa Bolsa Familia, que había sacado de la pobreza extrema a más de cuarenta millones de brasileños, no había acaso servido para mejorar la situación de los más pobres. La respuesta: “No. Fue una limosna. Quieren que la gente siga como está para que ellos puedan robar a voluntad”.

Ante mi cara de sorpresa otro agregó: “Arroz y feijao para el povao, grandes “propinas” (coimas, en portugués) para los gobernantes.” Uno de ellos, con una cruz tatuada en su cuello, fue más lejos y afirmó que “Haddad es aún más corrupto que Lula, tanto que con sus delitos estuvo a punto de producir la bancarrota de la alcaldía de Sao Paulo.” No tenía mejor opinión de su compañera de fórmula, Manuela D’Avila, del PCdB, porque le habían dicho que como era atea ilegalizaría todas las religiones. Un tercero agregó que de triunfar el PT sería Lula quien gobernaría desde la cárcel, en la cual permanecería poco tiempo más. Luego, indultado por Haddad, se iría al exterior y desde un refugio seguro para su fortuna mal habida manejaría a Haddad a su antojo. Los ladrones seguirían en el poder. Pero “por suerte se levantó el gigante”, dijo con un suspiro.

Me exigió un esfuerzo enorme escuchar tantas mentiras e infamias. Y me asombré ante la inédita eficacia de las nuevas técnicas de la propaganda política. Campañas de terrorismo mediático no son nuevas en Latinoamérica. En 1970 la candidatura de Salvador Allende en Chile fue combatida con un torrente cotidiano de difamaciones a través de El Mercurio y el Canal 13 de la Universidad Católica. Pero la eficacia de esas maniobras no era muy grande. Ahora, en cambio, se produjo un salto cualitativo y el impacto de estos lavados masivos de cerebro –neuromarketing político y big data mediante- creció exponencialmente. Para los movimientos populares es imperativo comprender los procesos de formación de la conciencia política en la era digital si es que se quiere neutralizar este tipo de campañas. En Brasil, el WhatsApp se convirtió en el vehículo preferente, si no excluyente, mediante el cual gran parte de las clases populares se informa sobre los asuntos públicos y, con la ayuda de los evangélicos, decide su voto a favor de candidatos hiperconservadores. El acceso a los big data permitió la intrusión de la propaganda de Bolsonaro en millones de grupos de WhatsApp, no sometidos al mismo control que hay en Facebook, y desde allí lanzar una avasallante andanada diaria de mentiras y difamaciones en contra de los petistas y diseminar centenares de fake news cada día. El objetivo de éstas es incentivar la disonancia cognitiva entre los receptores y crear una sensación de incertidumbre y caos –convenientemente magnificada por los medios- que exige la mesiánica aparición de un líder fuerte que ponga orden entre tanta confusión. Téngase en cuenta que los menores de treinta años sólo prenden la TV para ver fútbol, no leen los diarios y sólo escuchan música por las radios o con sus smart phones. Su nivel de información es bajísimo, y sus creencias y percepciones fueron magistralmente manipuladas por Bannon y sus asociados locales, operando sobre ese sector social desde marzo de este año. No obstante, cuando las encuestas preguntan en las favelas y barriadas periféricas cuáles son los principales problemas de su comunidad la corrupción (“los ladrones”) aparece en tercer lugar, después de la inseguridad y los problemas económicos (carestía, desempleo, bajos salarios, etc.). Pero la pérfida y muy eficaz propaganda de la derecha logró hacer de la corrupción -la lucha contra los supuestos ladrones y la regeneración moral del Brasil- el eje excluyente de esta campaña, en donde no se habla de otra cosa. Y hasta ahora sus resultados han sido notables. Este domingo sabremos cuán exitosos fueron sus malévolos planes y qué lecciones deben extraer otros países de la región que están transitando por una situación similar a la de Brasil, especialmente la Argentina.

Fernando H. Cardoso y su incomprensible neutralidad

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Escribo estas pocas líneas desde el corazón. Sumido en el estupor no alcanzo a comprender cómo quien fuera el maestro de toda una generación de sociólogos, politólogos y economistas de América Latina y el Caribe hoy prefiere mantenerse “neutral” ante la trágica opción que enfrentarán los brasileños el próximo 28 de Octubre: restaurar la dictadura, bajo nuevos ropajes, o retomar la larga y dificultosa marcha hacia la democracia. Para justificar su actitud el ex presidente declaró a la prensa que “de Bolsonaro me separa un muro y de Haddad una puerta.”

Sorpresa, estupefacción, asombro. Porque, ¿cómo es posible que quien fuera una de las más brillantes mentes de las ciencias sociales desde comienzos de los años sesentas del siglo pasado pueda exhibir tal indiferencia cuando lo que está en juego es o bien el retorno travestido y recargado de la dictadura militar (la misma que luego del golpe de 1964 lo obligó a exiliarse en Chile) o la elección de un político progresista, heredero de un gobierno que, con todos sus defectos, fue quien más combatió la pobreza en el Brasil y lo hizo en un marco de irrestrictas
libertades civiles y políticas? A quienes fuimos sus alumnos en la FLACSO de Chile, en la segunda mitad de los sesentas, nos deslumbraban sus brillantes lecciones sobre el método dialéctico de Marx y las enseñanzas de quien a su vez fuera su maestro, Florestán Fernándes; o cuando disertaba sobre la teoría de la dependencia mientras escribía su texto fundamental con Enzo Faletto; o cuando diseccionaba con la sutileza de un eminente cirujano la naturaleza de las dictaduras en América Latina. 

Por eso, quienes atesoramos esos recuerdos estamos sumidos en el más profundo desconcierto ante su atronador silencio en relación a la que, sin dudas, es una de las coyunturas más críticas de la historia reciente del Brasil. A los que tuvimos la suerte de enriquecernos intelectualmente con
sus lecciones nos cuesta creer las noticias que nos llegan hoy de Brasil y que informan de su escandalosa abstención. Y cuando aquellas se confirman, como ha ocurrido en estos días, lo hacemos con el corazón sangrante y la mente convulsionada.

¿Cómo olvidar de que fue usted quien en aquellos años finales de los sesentas nos ayudó a sortear las estériles trampas de la sociología académica norteamericana y la ciénaga del estructuralismo althusseriano, moda que estaba haciendo estragos en las juventudes radicalizadas de Chile. Después, desde mediados de los setentas y a lo largo de los ochentas la suya fue la voz de la sensatez y la sensibilidad histórica que debatía con algunos “transitólogos” deslumbrados por la ciencia política de la academia estadounidense y a quienes, a fuerza de argumentos y ejemplos concretos, obligó a revisar sus ingenuas expectativas sobre las nacientes democracias latinoamericanas. Recordamos como si fuera hoy sus advertencias diciéndole a sus colegas que en Nuestra América el “modelo de La Moncloa” -erigido como el arquetipo no sólo único sino también virtuoso de nuestra todavía inconclusa “transición hacia la democracia”- enfrentaría enormes dificultades para reproducirse en el continente más injusto del planeta. Y sus previsiones fueron confirmadas por el inapelable veredicto de la historia: ahí están nuestras languidecientes democracias, incumpliendo sus promesas emancipatorias, impotentes para instaurar la justicia distributiva y cada vez más vulnerables a la acción destructiva del imperio y sus lugartenientes locales. Democracias, en suma, en rápida transición involutiva hacia la plutocracia y la sumisión neocolonial. Fue Cardoso uno de los principales animadores del Grupo de Trabajo sobre Estado de
CLACSO que se creara a comienzos de los setentas. Su espíritu crítico combinado con su fina ironía orientaron buena parte de las labores de ese pequeño conjunto de colegas. Tanto en las discusiones sobre la transición a la democracia y la naturaleza de las dictaduras que asolaron
la región usted decía que “sin reformas efectivas del sistema productivo y de las formas de distribución y de apropiación de riquezas no habrá Constitución ni estado de derecho capaces de eliminar el olor de farsa de la política democrática.” (1) Y la historia otra vez le dio la razón.

Más allá de sus errores y limitaciones la experiencia de los gobiernos de Lula y Dilma avanzaron, si bien con demasiada cautela, para tratar de eliminar ese insoportable “olor de farsa” de las democracias latinoamericanas. ¿Que en esos gobiernos hubo corrupción, que aumentó la inseguridad ciudadana, o que algunos problemas no fueron encarados correctamente, o inclusive se agravaron? Es cierto. Pero nada de esto constituye una novedad en la historia brasileña ni es un producto exclusivo de los gobiernos del PT, y usted como analista tanto como en su calidad de ex senador, ex ministro y ex presidente lo sabe muy bien.

Tomar como “chivos expiatorios” de la tradicional y secular corrupción de la política brasileña a Lula y el PT es un insulto a la inteligencia de sus conciudadanos además de una maliciosa mentira. Pero aún si estas críticas fueran ciertas –cosa sobre lo cual no viene al caso expedirse en estas líneas- ellas son “peccata minuta” ante el peligro que acecha a Brasil y a toda América Latina.. Y usted, con su inteligencia, a esta altura de su vida no puede arrojar por la borda todo lo que enseñara a lo largo de tantos años. Usted escribió páginas imborrables sobre las dictaduras latinoamericanas y en uno de sus libros denunció con valor la pretensión de “sustraerse de la responsabilidad política de caracterizar como dictatorial a un régimen que se afirma sobre la violencia irrestricta y el atropello sistemático de los derechos humanos.” (2)

¿Qué cree que va a hacer Bolsonaro cuando exalta a los torturadores y rinde loas a la dictadura del 64? Por eso estoy convencido que de persistir en su actitud neutral cometería usted el mayor y más imperdonable error de su vida, que arrojaría un ominoso manto de sombra no sólo sobre su trayectoria como intelectual de Nuestra América sino también sobre su propia gestión como presidente de Brasil.

¿Qué hay una puerta que lo separa a usted de Fernando Haddad? Es cierto, pero el candidato petista ya lo invitó a pasar. Abra esa puerta y entre, porque aquel muro que lo separa de Bolsonaro no sólo caerá con todos sus horrores encima de las clases y capas populares de Brasil sino también sobre su cabeza y su renombre. Nadie le pide que apoye incondicionalmente a lo que hoy, nos guste o no, representa la única opción democrática que hay en Brasil frente a la monstruosa reinstalación de la dictadura militar por la vía de un electorado manipulado como jamás antes en la historia del Brasil. Que la fórmula petista sea la única opción democrática en las próximas elecciones no sólo es producto del empecinamiento de los gobiernos y del liderazgo del PT. Usted fue presidente, por ocho años, y algo de responsabilidad le cabe también por esta imposibilidad de construir alternativas políticas más de su agrado. Su delfín, Geraldo Alckmin, tuvo un desempeño catastrófico en la primera vuelta. Por eso un hombre como usted no puede ni debe permanecer
neutral en esta coyuntura. Sus pasiones y su ostensible animosidad hacia Lula y todo lo que él representa no pueden jugarle tan mala pasada y nublar su entendimiento. Usted sabe que la victoria de Bolsonaro dará luz verde a sus tropas de asalto a la democracia, la justicia, los derechos humanos, la libertad. Tropelías y aberraciones que, para espanto de la población, ya prometen y anuncian sin tapujos a través de la prensa y las redes sociales en Brasil. En este caso su neutralidad se transforma en complicidad.

Ante tan grave encrucijada, ¿cómo puede usted declararse prescindente en esta batalla crucial entre dictadura y democracia? A veces la vida nos coloca en estas incómodas encrucijadas, y no queda hay otro remedio que elegir y actuar. Recuerde que Dante, en La Divina Comedia, reservó el círculo más ardiente del infierno a quienes en tiempos de crisis moral optaron por la neutralidad. Usted, por su historia, por lo que hizo, por su magisterio, por la memoria de sus propios maestros debe oponerse con todas sus fuerzas a la re-encarnación de la dictadura bajo el mascarón de proa de un político mediocre, violento y reaccionario que ni bien instalado en el Palacio de Planalto será fácil presa de los actores más siniestros del Brasil. Su nombre, Fernando Henrique, no debe quedar inscripto entre los cómplices de la tragedia en ciernes en su país. Créame si le digo, siendo fiel a sus enseñanzas, que a diferencia de Fidel si usted persiste en esa actitud, en esa suicida neutralidad, la historia no lo absolverá sino que lo condenará y lo atormentará hasta el fin de sus días. Contribuya con su palabra a que Brasil sortee el peligro del inicio de un nuevo – y probablemente extenso- ciclo dictatorial que sólo agravará los problemas que hoy lo atribulan. Y luego, despejada esa amenaza, discuta sin concesiones como mejorar la democracia en su país; critique las políticas que proponen Haddad y D’Avila, pero primero asegure que su pueblo no volverá a caer en los horrores que con tanta fuerza usted condenó en el pasado. Su silencio, o su abstención, serán implacablemente juzgados por los historiadores del futuro, como ya lo son hoy por sus asombrados contemporáneos que no pueden entender las razones de su postura. Tiene poco tiempo para evitar tan triste final y evitar que la neutralidad se convierta en complicidad.

Recuerdo cuando, en medio del furor causado por el auge de la teoría de la dependencia usted exhortaba a sus cultores a no apartarse de las enseñanzas de Lenin cuando exigía, antes de parlotear superficialmente sobre el tema, llevar a cabo “un análisis concreto de la realidad concreta.”

Y remataba esa observación advirtiendo sobre el peligro de que “el hechizo de las palabras sirva para ocultar la indolencia del espíritu”. (3)

Ojalá que su brillante inteligencia no haya caído víctima de la indolencia y prevalezca, en esta hora decisiva, sobre la fuerza de unas incontrolables pasiones que le impiden abrir la puerta que lo separa de Fernando Haddad y evitar que Brasil se hunda en el basural del fascismo.

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(1) Cf. “La democracia en las sociedades contemporáneas”, en Crítica & Utopía, Buenos Aires, N°6, 1982, y también en “La Democracia en América Latina”, Punto de Vista, Buenos Aires, Nº 12, Abril 1985.

(2) Ver su Autoritarismo e democratização, Río de Janeiro, Paz e Terra, 1975, p. 18.

(3) Fernando H. Cardoso, Ideologías de la burguesía industrial en sociedades dependientes. Argentina y Brasil, Buenos Aires, Siglo XXI, 1971, p. 60.

 

Nasce un mostro

Bolsdi Atilio Borón

07ott2018.- In una maleodorante taverna dei bassifondi della Monaco del primo post-guerra un ufficiale smobilitato dell’esercito imperiale austriaco – fallito come pittore e ritrattista – cercava di guadagnarsi la vita, scommettendo con gli ubriachi del locale che non sarebbero stati capaci di colpirlo con i loro sputi da una distanza di tre metri. Se li schivava, vinceva; in caso contrario, doveva pagare. Tra l’uno e l’altro tentativo, dava voce a tremendi insulti antisemiti, malediceva bolscevichi e spartachisti e si impegnava a eliminare dalla faccia della terra zingari, omosessuali ed ebrei. Il tutto in mezzo alle grida dei clienti incontrollati riuniti lì, imbottiti di alcol e che ripetevano con scherno i suoi slogan, mentre gli lanciavano i resti della birra dai boccali e gli tiravano monete tra insulti e risate a crepapelle. Anni dopo, Adolf Hitler, perché di lui stiamo parlando, si convertirà, con queste stesse arringhe, nel leader “del popolo più colto dell’Europa”, secondo quanto  più di una volta dichiarato da Friedrich Engels. Colui che in quei momenti – gli anni 1920, ’21, ’23 – era oggetto del crudele sarcasmo tra i fedeli frequentatori della taverna resusciterà come una specie di semidio per le grandi masse del suo paese e l’incarnazione stessa dello spirito nazionale tedesco.

Fatte le debite distanze, qualcosa di simile sta accadendo con Jair Bolsonaro, che conduce comodamente i sondaggi del primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile. Le sue esternazioni reazionarie, sessiste, omofobe, fasciste e la sua difesa della tenebrosa dittatura militare brasiliana del 1964 e della tortura hanno causato una diffusa repulsione nella società. Nel migliore dei casi, veniva considerato solo come un buffone, uno zimbello nostalgico del tempo del regime, che si è abbattuto sul Brasile tra il 1964 e il 1985. Di conseguenza, per due anni il suo consenso elettorale non ha mai superato il 15 o 18 per cento.

I sondaggi delle ultime due settimane, tuttavia, mostrano una crescita spettacolare della sua candidatura. Il più recente gli attribuisce un 39% nell’intenzione di voto. Sappiamo che oggi i sondaggi dell’opinione pubblica hanno enormi margini di errore; possono anche essere operazioni mediatiche della borghesia brasiliana, pronta a installare a Brasilia chiunque impedisca il “ritorno del populismo petista” al potere. Ma sappiamo anche, come affermato da un recente articolo di Marcelo Zero che, in Brasile, la CIA e i suoi alleati locali hanno scatenato una travolgente valanga di “notizie false” e diffamatorie riguardo i candidati dell’alleanza PT, che hanno trovato terreno fertile nelle favelas e nei quartieri popolari delle grandi città di quel paese (“Tem dedo da CIA nas eleições do Brasil”, su www.brasil247.com).

Questi settori sono stati portati fuori dalla povertà estrema e resi protagonisti dalla gestione di Lula e Dilma. Ma non sono stati politicamente istruiti e la loro organizzazione territoriale o di classe non è stata favorita. Sono rimasti come masse disponibili, come avrebbero detto i sociologi degli anni ’60.

Coloro che li stanno organizzando e sensibilizzando sono le chiese evangeliche, che hanno come alleato Bolsonaro, il quale promuove un duro discorso conservatore, ipercritico verso il “disordine” causato dalla sinistra in Brasile, con le sue politiche di inclusione sociale e di genere, di rispetto della diversità e dei LGBT e di “mano morbida” contro la criminalità – la sua ossessione per i diritti umani “solo per i criminali.”

Uno dei loro metodi per conquistare le favelas alla causa della destra radicale sta nell’inviare presunti sondaggisti a chiedere se vorrebbero che il loro figlio José cambiasse nome e si chiamasse María, per esacerbare l’omofobia. La risposta è unanimemente negativa e indignata. La predicazione dell’ex-capitano si sintonizza naturalmente con quel conservatorismo popolare abilmente stimolato dalla reazione. In questo clima ideologico, le sue assurdità oltraggiose e violente, come quelle di Hitler, sedimentano come un ragionevole buon senso popolare e potrebbero catapultare un mostro come Bolsonaro al Palazzo del Planalto.

Bisogna ricordare, come dato ulteriore, che Bolsonaro ha promesso a Donald Trump di autorizzare l’installazione di una base militare americana ad Alcántara, sul promontorio strategico del Nordest brasiliano, che è il punto più vicino tra le Americhe e l’Africa, qualcosa che i governi PT hanno rifiutato. Se dovesse avere successo, sarebbe l’inizio di un incubo orribile, non solo per il Brasile ma per tutta l’America Latina.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Marco Nieli]

Grillo ed Esquivel: appello al governo italiano per la liberazione di Lula

Risultati immagini per Luladi Beppe Grillo

Adolfo Maria Pérez Esquivel è un pacifista argentino, vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1980, per le denunce contro gli abusi della dittatura militare argentina negli anni ’70. Ha incontrato in carcere Luiz Inácio Lula da Silva, ex presidente del Brasile, simbolo di coraggio e onestà, arrestato senza che siano state trovate prove delle accuse a lui mosse.

Quello che sta avvenendo in Brasile va contro ogni libertà e principio di democrazia, come avevo già manifestato sul mio Blog tempo fa. Per questo condivido l’appello di Adolfo Maria Pérez Esquivel che ha inviato al governo italiano.

Eccolo:

“Faccio appello al popolo e al governo italiano per la sua solidarietà e appoggio ai popoli di fronte alla grave situazione che vive il popolo del Brasile. Chiedo di pronunciarvi per la difesa dei diritti del popolo a vivere in democrazia. Il Brasile ha subito un colpo di Stato istituzionale che ha deposto senza alcuna ragione la Presidente Dilma Rousseff per procedere poi alla detenzione dell’ex Presidente Luiz Inácio Lula da Silva e impedirne la sua candidatura alle elezioni presidenziali. Sono riuscito a vedere Lula in prigione, dove è mantenuto isolato e senza alcun contatto con il popolo del Brasile. Lula è un prigioniero politico, questo è quanto ho manifestato pubblicamente il 13 agosto scorso alla riunione con la Presidente del Superior Tribunal Federal, dott.ssa Carmen Lucia, esortandola a considerare l’incostituzionalità di mantenere in prigione un leader che non ha commesso alcun delitto. Invece Lula è stato condannato a 12 anni di carcere sotto l’accusa di “fatti indeterminati”, senza sia stata trovata alcuna prova del delitto di cui è accusato. Molte altre voci si sono pronunciate in questo senso, personalità, legislatori e giuristi lo affermano: è in prigione per aver lottato contro la povertà e la fame, per aver sottratto dalla miseria 36 milioni di brasiliani e brasiliane, per aver restituito loro la dignità come persone, insieme alla capacità di educarsi, di essere persone degne, di avere casa e lavoro. Lula è un innocente in carcere e l’obiettivo è quello di impedirgli di essere candidato presidenziale. Le elezioni in Brasile senza Lula sono una frode, ed è ciò che cercano di portare a termine coloro che, con la complicità di giudici e legislatori, vogliono imporre politiche di austerità, capitalizzazione e privatizzazione a spese della vita del popolo; cercano di ricolonizzare il paese e oggi i fatti lo confermano con l’incremento della povertà, della fame e della repressione che soffre il popolo del Brasile. Venerdì 17 agosto le Nazioni Unite hanno esortato il governo brasiliano a concedergli il diritto di candidarsi alle elezioni e di avere libero accesso ai mezzi di comunicazione. Nella libertà e la candidatura di Lula sono in gioco non solo il ritorno alla democrazia e alla giustizia in Brasile, ma anche il valore delle sue politiche di governo per strappare milioni di persone dalla povertà e avere cura del prossimo, così come le sue politiche per unire i popoli fratelli con organizzazioni come la UNASUR e la CELAC che sono riuscite a proclamare l’America Latina una “Zona di Pace”. Lula è un grande costruttore di pace nel mondo e così il mondo lo riconosce. Proprio per questo, insieme a Rigoberta Menchu Tum, anche lei Premio Nobel, lo postuliamo al Premio Nobel per la Pace. Vi ringrazio tutto quanto possiate fare per il bene del popolo del Brasile e per la libertà di Lula: è un atto di Verità e Giustizia. Ricevete un forte abbraccio e i migliori auguri di forza e speranza.”

Adolfo Pérez Esquivel Premio Nobel per la Pace 1980

Buenos Aires, 8 settembre 2018

(traduzione di Claudio Tognonato)

Haddad al governo, Lula al potere. La strategia del Pt per rendere «il popolo di nuovo felice»

di Claudia Fanti – (Da Adista n. 32/18)

Non è bastata la pioggia di ricorsi presentati dai legali di Lula al Tribunale superiore elettorale e alla Corte Suprema né un nuovo e ancor più incisivo pronunciamento del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha ribadito l’obbligatorietà per il Brasile di garantire l’immediato esercizio dei diritti politici dell’ex presidente: la corsa di Lula alla presidenza del Paese si è definitivamente infranta contro la giustizia golpista, secondo un copione che era già stato scritto al momento della farsa giudiziaria allestita dal giudice Sergio Moro e dal Tribunale di appello di Porto Alegre.

Eppure, l’obbligata rinuncia di Lula a candidarsi alle presidenziali del 7 ottobre non ha il sapore della sconfitta, ma solo quello di un momentaneo arretramento. Per l’ex presidente, per il Pt, per le forze pregressiste e di sinistra è insomma l’ora della cosiddetta «strategia Perón»: il metodo, cioè, impiegato con successo da Juan Domingo Perón nel 1973, quando, dal suo esilio in Europa, sostenne con forza la candidatura di Héctor Cámpora alla presidenza dell’Argentina, con lo slogan «Cámpora al governo, Perón al potere» (dopo la vittoria, Campora si sarebbe dimesso proprio per permettere a Perón di assumere la guida del Paese).

Non dal suo esilio, ma dalla sua cella a Curitiba, dove è rinchiuso illegalmente da cinque mesi, Lula ha seguito la stessa strada, indicando al Pt e alla coalizione “O Povo Feliz de Novo” (il popolo di nuovo felice) la sostituzione della sua candidatura con quella di Fernando Haddad e dunque chiedendo «con tutto il cuore» a tutti quelli che avrebbero votato per lui – e che di certo lo avrebbero portato alla guida del Paese, con ogni probabilità già al primo turno – di dare la loro preferenza al candidato da lui indicato. «Se vogliono far tacere la nostra voce e sconfiggere il nostro progetto di Paese si sbagliano di grosso», ha scritto Lula in una lettera al popolo brasiliano che, l’11 settembre, è stata letta a Curitiba dall’avvocato Luiz Eduardo Greenhalgh subito dopo l’annuncio della candidatura di Haddad alla presidenza della Repubblica, in coppia con la vice Manuela D’Avila del PCdB. E ha aggiunto: «Siamo ancora vivi, nel cuore e nella memoria del popolo. E il nostro nome ora è Fernando Haddad». E sarà esattamente questa la strategia del Pt: presentare Haddad, il cui numero resterà non a caso il 13, lo stesso dell’ex presidente, come “il candidato di Lula”, il suo rappresentante, la sua voce.

E per lui egli ha avuto parole di grande elogio: «Ministro dell’Educazione nel mio governo, è stato responsabile di una delle più importanti trasformazioni nel nostro Paese. Insieme, abbiamo aperto le porte dell’università per quasi 4 milioni di alunni delle scuole pubbliche, neri, indigeni e figli di operai, che non hanno mai avuto questa opportunità», come pure costruito «un numero di scuole tecniche quattro volte superiore a quanto fatto in cento anni. Abbiamo creato il futuro».

Solo note positive nella conclusione della lettera di Lula: «Io so che un giorno la giustizia, quella vera, sarà fatta, e sarà riconosciuta la mia innocenza. Quel giorno sarò insieme ad Haddad per fare il governo del popolo e della speranza. Noi tutti saremo lì, insieme, per rendere il Brasile nuovamente felice. Siamo già milioni di Lula e, d’ora in avanti, Fernando Haddad sarà lui per milioni di brasiliani».

E tutto indica che i brasiliani seguiranno Lula su questa strada. Non a caso, l’11 settembre, l’hasthag #HaddadÉLula occupava il primo posto tra i trending topics di Twitter nel mondo. E, soprattutto, dal sondaggio di Datafolha in cui Haddad, non ancora ufficializzato come sostituto di Lula, figurava già al 9%, con un balzo in avanti di cinque punti, è emerso come gli elettori certi di votare per il candidato indicato dall’ex presidente rappresentino il 33% dei brasiliani, più un altro 16% orientato a fare la stessa scelta. Mentre Jair Bolsonaro, malgrado la coltellata ricevuta e tutto il frastuono che l’ha accompagnata, è cresciuto di appena due punti, passando dal 22 al 24%, restando peraltro il candidato con il maggior indice di disapprovazione: gli elettori che non votebbero per lui in nessuna circostanza sono anzi aumentati di 4 punti, dal 39% al 43%. Ma ancor più favorevole si rivela il sondaggio, di poco successivo, dell’istituto Vox Populi, secondo cui Haddad, in questo caso indicato come il candidato di Lula, è già passato al primo posto con il 22% delle intenzioni di voto, seguito da Bolsonaro con il 18% delle preferenze.

Carta de Lula: el PT oficializa la candidatura de Fernando Haddad

Risultati immagini per Lula somos todospor tricontinental.cu

“Si quieren acallar nuestra voz y derrotar nuestro proyecto para el país, están muy equivocados. Nosotros seguimos vivos, en el corazón y en la memoria del pueblo. Y nuestro nombre ahora es Haddad”, afirmó el ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, en una carta que oficializó a Fernando Haddad como candidato que reemplazará a Lula en la lista electoral del Partido de los Trabajadores a la presidencia. El anuncio tuvo lugar este martes (11), en frente a la sede de la Policía Federal en Curitiba.

Luiz Eduardo Greenhalgh, abogado de Lula, fue el responsable de leer la carta del exmandatario, junto con Fernando Haddad y Manuela D’Àvila, candidata a vicepresidente en la lista electoral y Gleisi Hoffmann, presidenta del Partido de los Trabajadores y parlamentarios del partido.

“Por acción, omisión y protección, el Poder Judicial brasileño ha privado al país de un proceso electoral con la presencia de todas las fuerzas políticas. Han impedido la realización del derecho del pueblo de votar libremente”, argumentó Lula.

Nosotros ya somos millones de Lulas y, a partir de hoy, Fernando Haddad será Lula para millones de brasileños, escribió.

“Pueden apresar injustamente a un hombre, pero no a sus ideas. Ningún opresor puede ser mayor que el pueblo. Por eso, nuestras ideas van a llegar a todo el mundo por la voz del pueblo, más alta y más fuerte que la Globo”.

Lea la carta completa:

CARTA AL PUEBLO BRASILEÑO

Mis amigos y mis amigas,

Ustedes deben saber ya que los tribunales han prohibido mi candidatura a presidente de la República. En verdad, han prohibido que el pueblo brasileño vote libremente para cambiar la triste realidad del país.

Nunca he aceptado la injusticia, ni la voy a aceptar. Desde hace más de 40 años camino junto al pueblo, defendiendo la igualdad y la transformación de Brasil en un país mejor y más justo. Y fue recorriendo nuestro país que vi de cerca el sufrimiento quemando en el alma y la esperanza brillando de nuevo en los ojos de nuestra gente. He visto la indignación ante las cosas tan equivocadas que están haciendo y las ganas de mejorar la vida otra vez.

Fue para corregir tantos errores y renovar la esperanza en el futuro que decidí ser candidato a presidente. Y pese a las mentiras y la persecución, el pueblo nos ha abrazado en las calles y nos ha llevado al liderazgo absoluto en todas las encuestas.

Desde hace más de cinco meses estoy preso injustamente. No he cometido ningún crimen y he sido condenado por la prensa mucho antes de ser juzgado. Sigo desafiando a los fiscales de la Lava Jato, al juez Sérgio Moro y al TRF-4 a que presenten una única prueba contra mí, pues no se puede condenar a alguien por crímenes que no ha practicado, por dinero que no ha desviado, por actos indeterminados.

Mi condena es una farsa judicial, una venganza política, siempre usando medidas de excepción contra mí. Ellos no quieren arrestar e impedir tan solo al candidato Luiz Inácio Lula da Silva. Quieren arrestar e impedir el proyecto de Brasil que la mayoría ha aprobado en cuatro elecciones consecutivas, y que solo fue interrumpido por un golpe contra una presidenta legítimamente electa, que no cometió ningún crimen de responsabilidad, golpe que lanzó al país al caos.

Ustedes me conocen y saben que yo jamás desistiría de luchar. He perdido a mi compañera Marisa, que se fue con la amargura de todo lo que le sucedió a nuestra familia, pero no he desistido, incluso en homenaje a su memoria. He enfrentado las acusaciones con base en la ley y en el derecho. He denunciado las mentiras y los abusos de autoridad en todos los tribunales, entre ellos el Comité de Derechos Humanos de la ONU, que reconoció mi derecho de ser candidato.

La comunidad jurídica, dentro y fuera del país, se indignó con las aberraciones cometidas por Sérgio Moro y por el Tribunal de Porto Alegre. Líderes de todo el mundo han denunciado el atentado a la democracia en el que mi proceso se ha convertido. La prensa internacional mostró al mundo lo que la Globo intentó esconder.

Aun así los tribunales brasileños me han negado el derecho que garantiza la Constitución a cualquier ciudadano, siempre y cuando no se llame Luiz Inácio Lula da Silva. Han negado la decisión de la ONU, violando el Pacto Internacional de los Derechos Civiles y Políticos que Brasil ha firmado soberanamente.

Por acción, omisión y protección, el Poder Judicial brasileño ha privado al país de un proceso electoral con la presencia de todas las fuerzas políticas. Han impedido la realización del derecho del pueblo de votar libremente. Ahora quieren prohibirme de hablarle al pueblo y hasta aparecer en televisión. Me censuran, como en la época de la dictadura.

Tal vez nada de esto habría ocurrido si yo no liderara todas las encuestas de intención de voto. Quizá yo no estaría preso si aceptara renunciar a mi candidatura. Pero yo jamás cambiaría mi dignidad por mi libertad, a causa del compromiso que tengo con el pueblo brasileño.

Me incluyeron artificialmente en la Ley Ficha Limpia para arrancarme de forma arbitraria de la disputa electoral, pero no permitiré que se haga de esto un pretexto para aprisionar el futuro de Brasil.

Es frente a estas circunstancias que tengo que tomar una decisión, en el plazo que se me ha impuesto arbitrariamente. Estoy indicando al PT y a la Coligación “El Pueblo Feliz de Nuevo” la sustitución de mi candidatura por la del compañero Fernando Haddad, que hasta este momento ha desempeñado con extrema lealtad la posición de candidato a vicepresidente.

Fernando Haddad, ministro de Educación en mi gobierno, fue responsable de una de las transformaciones más importantes de nuestro país. Juntos, hemos abierto las puertas de la Universidad a casi cuatro millones de estudiantes que nunca antes habían tenido esta oportunidad. Juntos creamos el ProUni, el nuevo Fies, la política de cupos, el Fundeb, el Enem, el Plan Nacional de Educación, el Pronatec e hicimos cuatro veces más escuelas técnicas que lo que habían hecho en cien años. Hemos creado el futuro.

Haddad es el coordinador de nuestro Plan de Gobierno para sacar al país de la crisis, recibiendo contribuciones de miles de personas y discutiendo cada punto conmigo. Él será mi representante en esta batalla para que retomemos el rumbo del desarrollo y de la justicia social.

Si quieren acallar nuestra voz y derrotar nuestro proyecto para el país, están muy equivocados. Nosotros seguimos vivos, en el corazón y en la memoria del pueblo. Y nuestro nombre ahora es Haddad.

A su lado, como candidata a vicepresidenta, tendremos a la compañera Manuela D’Ávila, confirmando nuestra alianza histórica con el PCdoB, y que también cuenta con otras fuerzas, como el PROS, sectores del PSB, líderes de otros partidos y, sobre todo, con los movimientos sociales, trabajadores de la ciudad y del campo, exponentes de las fuerzas democráticas y populares.

Nuestra lealtad, la mía, de Haddad y Manuela, es con el pueblo en primer lugar. Es con los sueños de quienes quieren vivir otra vez en un país en el que todos tengan comida en la mesa; en el que haya empleo, salario digno y protección de la ley para los que trabajan; en el que los niños y niñas tengan escuelas y los jóvenes tengan futuro; en el que las familias puedan comprarse su coche, su casa y seguir soñando y realizando cada vez más. Un país en el que todos tengan oportunidades y nadie tenga privilegios.

Yo sé que un día la verdadera justicia se hará y mi inocencia será reconocida. Ese día estaré junto a Haddad para hacer el gobierno del pueblo y de la esperanza. Todos nosotros estaremos allí, juntos, para hacer a Brasil feliz de nuevo.

Quiero agradecer la solidaridad de los que me envían mensajes y cartas, hacen oraciones y actos públicos por mi libertad, protestan en el mundo contra la persecución y luchan por la democracia, y especialmente a los que me acompañan a diario en la vigilia frente al sitio en el que estoy.

Pueden apresar injustamente a un hombre, pero no a sus ideas. Ningún opresor puede ser mayor que el pueblo. Por eso, nuestras ideas van a llegar a todo el mundo por la voz del pueblo, más alta y más fuerte que la Globo.

Por eso, quiero pedirles, de corazón, a todos los que me votarían a mí, que voten al compañero Fernando Haddad para presidente de la República. Y les pido que voten a nuestros candidatos a gobernador, diputado y senador para que construyamos un país más democrático, con soberanía, sin la privatización de las empresas públicas, con más justicia social, más educación, cultura, ciencia y tecnología, con más seguridad, vivienda y salud, con más empleo, salario digno y reforma agraria.

Nosotros ya somos millones de Lulas y, a partir de hoy, Fernando Haddad será Lula para millones de brasileños.

Hasta pronto, mis amigos y mis amigas. ¡Hasta la victoria!

Un abrazo del compañero de siempre,

Luiz Inácio Lula da Silva

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