La nazione assassina

Obama: premio nobel per la pace o serial killer?

di Manuel E. Yepe
Fonte: Cubadebate

Un saggio con questo titolo pubblicato in Counterpunch considera sorprendente il riconoscimento ufficiale e la trasparenza con le quali è stato reso pubblico che gli Stati Uniti hanno, da oltre mezzo secolo, un programma di omicidi mirati che coincide ora con una visibilità senza precedenti dell’uso di aerei da guerra telecomandati in diverse parti del pianeta.

L’idea che esista una lista di persone da uccidere al più alto livello del potere esecutivo degli Stati Uniti ha dato alla questione una forte copertura mediatica che ha generato preoccupazioni anche in alcuni settori del “potere invisibile”.

Il Washington Post ha evidenziato in un editoriale che “nessun governo dipendeva in modo così estensivo dall’omicidio mirato per promuovere gli obiettivi della sicurezza nazionale come l’attuale”. Nel frattempo, il New York Times ha descritto come “senza precedenti nella storia il ruolo presidenziale di Obama come supervisore di questa guerra nell’ombra…”.

L’ex presidente Jimmy Carter, in un articolo pubblicato su The New York Times, ha insistito che “nessuno sa quante centinaia di civili innocenti sono morti in questi attacchi (con droni), ognuno dei quali approvato dalle più alte autorità di Washington. Ciò è qualcosa che prima era impensabile”.

Ma il fatto è che questi omicidi e gli omicidi mirati a distanza con l’approvazione presidenziale, si sono svolti in segreto da almeno mezzo secolo. L’unica cosa nuova è che le recenti rivelazioni sulle liste di persone da uccidere e l’omicidio con l’uso di droni sono realizzate in maniera pubblica e aperta.

“Coloro che sono preoccupati per le recenti rivelazioni sulle liste di Obama di persone da uccidere, dovrebbero essere informate, in una prospettiva storica, su quante persone ha ucciso il nostro paese nel mondo”, ha detto Noble.

L’autore passa in rassegna i cinquanta anni di massacri e omicidi degli Stati Uniti in tre parti. La prima descrive la storia del letale programma Phoenix (Phoenix, in inglese) contro il Vietnam, che egli definisce come la fonte originale di strategie e tattiche terroristiche messe in atto dagli Stati Uniti. La seconda è relativa alle liste più conosciute di persone da uccidere in America Latina, e le meno pubblicizzate di paesi in altri continenti. La terza tratta della risurrezione del programma Phoenix in Iraq, Afghanistan e un numero crescente di paesi con i quali “non siamo in guerra”.

Phoenix è un programma altamente segreto, sviluppato nel 1967 dalla CIA in Vietnam, al fine di “neutralizzare” l’infrastruttura Vietcong uccidendo civili sudvietnamiti sospettati di sostenere i soldati del Vietnam del Nord e Viet Cong.

Anche se l’allora direttore della CIA William Colby ha detto al Congresso nel 1971 che “Phoenix non è un programma di omicidio”, ha ammesso in seguito che le operazioni di Phoenix hanno ucciso 20.000 persone tra il 1967 e il 1972. Il massacro di My Lai era solo un’operazione tra le altre del programma Phoenix.

Con altri dati e argomenti, Doug Noble descrive l’impatto che questo programma ha avuto in America Latina. La comunità dell’intelligence americana ha adattato Phoenix al Sud America attraverso un progetto top-secret.

I metodi e le tecniche di Phoenix sono state usate nell’Operazione Condor, responsabile dell’uccisione di centinaia di migliaia di patrioti americani. Le organizzazioni criminali provenienti da quasi tutti i paesi della regione sono servite a Phoenix per la raccolta e lo scambio di informazioni e collaborazione nella repressione delle lotte e degli ideali in contrasto con l’egemonia degli Stati Uniti nel subcontinente.

Durante l’amministrazione Carter, gli Stati Uniti hanno sospeso il Progetto ipotizzando violazioni dei diritti umani, ma ben presto l’Amministrazione Reagan la riabilitò.

“Il programma di assassinio con l’utilizzo di droni negli Stati Uniti è saltato fuori dal cassetto. Noi, che per anni abbiamo protestato e combattuto contro l’uso illegale, immorale e strategicamente controproducente di droni, contro l’attitudine schizofrenica di uccidere a distanza, contro il terrore che genera un attacco di droni e l’inevitabile (o intenzionale) assassinio di numerosi civili ‘sospettati di terrorismo’, ora, denunciamo la proliferazione di droni in tutto il mondo ed il loro utilizzo da parte della polizia e delle pattuglie di frontiera per il servizio di vigilanza con obiettivi apparentemente non letali”, ha dichiarato Doug Noble, un attivista contro la guerra residente a New York nella città di Rochester.
Il programma Phoenix è diventato globale, contribuendo a proclamare gli Stati Uniti d’America autentica nazione killer.

[trad. dal castigliano di Ciro Brescia]

Chávez e le presidenziali del 7 ottobre. Lula da Silva: “La sua vittoria è la nostra vittoria!”

fonte: http://quitolatino.wordpress.com

Davide Matrone intervista Mario Neri del Circolo Bolivariano “Antonio Gramsci” di Caracas.

Davide Matrone intervista Mario Neri

Parco Robinson, Napoli, Giornata Internazionale di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana, luglio 2012.

Come e quando nasce il Circolo Bolivariano “Antonio Gramsci” di Caracas?

Il Circolo Bolivariano “Antonio Gramsci” nasce nel 2002. In quell’anno ci fu un convegno di solidarietà internazionale col Venezuela a Caracas e da Cuba venne un teologo della Liberazione italiano, di nome Giulio Girardi, morto recentemente.
Dopo il suo intervento la comunità italiana si incontrò con Giulio e cominciò a conoscersi, a confrontarsi e da quel momento abbiamo continuato a riunirci e a organizzarci in gruppo. Al principio, tra le discussioni affrontate, ci fu anche quella per il nome da dare al circolo italiano; tra i personaggi menzionati ci furono Garibaldi, poi Mazzini e alla fine la scelta cadde su Antonio Gramsci, un italiano con forte spirito internazionalista.
Nel nostro gruppo, appartenente alla classe media, ci sono impiegati, piccoli imprenditori, professionisti e studenti di origine italiana.
Dal principio abbiamo cominciato a lavorare facendo controinformazione e facendo conoscere all’esterno quello che stava accadendo lì in Venezuela. Questo è stato ed è l’obiettivo ancora oggi. Abbiamo scritto e contestato, nel corso degli anni, agli innumerevoli articoli infamanti che venivano scritti contro il Venezuela e molti dei quali provenienti anche dai nostri giornali cosiddetti progressisti.

Parliamo del processo politico e sociale in atto Venezuela in questi anni. Quali sono stati gli obiettivi raggiunti dal popolo venezuelano nel frattempo e come continua oggi?

Beh, per risponderti a queste domande ci vorrebbero dei libri interi. Cominciando da un particolare interessante; devo dirti che siamo il paese con il più alto indice di pubblicazioni di libri degli ultimi 10 anni e non sono solo libri che trattano esclusivamente del processo ma si è realizzata anche una distribuzione di libri di cultura generale ed universale. Abbiamo distribuito libri nei parchi come “I miserabili” di Victor Hugo, “il Don Chisciotte della Mancia” di Cervantes. Lo stato ha cominciato a distribuire alle famiglie scatole di libri di cultura universale. Poi ci sono state le varie Missioni che sono aumentate anno dopo anno come “Misión Barrio Adentro 1, 2, 3…”. Queste missioni hanno interessato i vari aspetti della vita quotidiana del popolo venezuelano come il miglioramento dell’assistenza sanitaria, lo sviluppo dell’educazione. In un anno e mezzo abbiamo debellato l’analfabetismo. L’ONU ha dichiarato il Venezuela paese libero dall’analfabetismo.
Il processo continua ancora oggi, nel senso che la stessa gente che ha imparato a leggere e scrivere con le prime missioni, ha proseguito facendo parte delle altre Missioni come quella denominata “Sucre” e l’altra “Ribas” che hanno permesso loro di terminare le scuole elementari, le scuole tecniche e addirittura con la “Misión Sucre” di terminare l’università.
Chávez, sin dall’inizio, vedeva che le Università presenti nel paese non erano sufficienti, molte erano anche restie a queste missioni e cosi ha creato delle Università parallele che hanno consentito a molte persone di continuare gli studi.

La popolazione appoggia realmente il processo bolivariano?

La matematica è una scienza perfetta e in tredici elezioni svolte ne abbiamo vinte dodici. Quella persa è stata quella della riforma costituzionale, per un punto percentuale (Nel 2007 la riforma costituzionale di Chávez fu bocciata con il 50.7% contro il 49.3%, ndr). Quindi, a parte questa sconfitta, vuol dire che la gente appoggia la rivoluzione bolivariana. Questo appoggio è dovuto al fatto che ha ricevuto dei benefici. Come diciamo noi da quelle parti, grazie alla nazionalizzazione del petrolio ad ognuno è arrivata una goccia di petrolio. La goccia è arrivata a tutti, attraverso le borse di studio, il miglioramento della sanità pubblica, una casa. In merito a questo aspetto è stata istituita la Missione “Vivienda” che ha come obiettivo la costruzione di 3 milioni di case in 7 anni. La casa è stata dichiarata diritto umano, bene comune per tutti. Chávez ha promesso e ha proposto che non ci deve essere nessun venezuelano senza una propria casa.

Intervista Mario Neri, Festa della Riscossa Popolare, Parco Robinson Napoli, luglio 2012

Intervista Mario Neri, Festa della Riscossa Popolare, Parco Robinson Napoli, luglio 2012

Invece parlando dell’attualità e delle elezioni che si avvicinano (in ottobre ci saranno le elezioni presidenziali in Venezuela, ndr) si parla di uno scarto del 20% tra i due candidati. Cosa pensi del nuovo programma proposto da Chávez e del candidato nuovo Henrique Capriles Radonsky?

Prima di tutto, bisogna dire che dei due candidati chi ha presentato un programma è stato Chávez, l’altro non ha presentato nulla. Nel nuovo programma di Chávez c’è la radicalizzazione del processo ed è una proposta di programma che parte dalla base del partito. È un programma che abbraccia molti punti, però l’elemento di novità, che a me è piaciuto molto, è quella relativo all’ecologia. In questa campagna elettorale, il problema dell’ecologia, dello sviluppo sostenibile, del rispetto della natura vengono affrontati con energia nuova ed io, che sono tendenzialmente un ecologista, devo sostenere questa battaglia.

L’altro candidato scimmiotta, e nonostante la sconfitta nei sondaggi, sta cercando di camuffarsi e di presentarsi come socialdemocratico difendendo le missioni del governo. È assurdo, loro che da sempre sono stati contro queste politiche sociali, adesso stanno dicendo che perfezioneranno queste missioni, che le renderanno accessibili a tutti e nel frattempo accusano Chávez di limitare l’accesso a queste opere sociali ai soli iscritti al partito! Questa è una enorme bugia! Con questo comportamento cercano di catturare il consenso dei più poveri.


Addirittura, sulla proprietà privata, hanno detto che loro consegneranno i titoli di proprietà. Ci accusano di essere un governo che è contro la proprietà privata quando in realtà lo stesso governo bolivariano è stato quello che ha generato più proprietari di qualsiasi altro governo nel passato. Oggi in Venezuela c’è più gente che ha la casa di proprietà o il suo terreno grazie alla riforma agraria.


Siamo contro la proprietà privata quando si mette contro gli interessi della nazione ed in quel caso lo stato interviene. Per esempio se un latifondista, che è proprietario di migliaia e migliaia di ettari di terra, non la coltiva, lo stato venezuelano (come tutti gli stati del mondo) ha diritto all’espropriazione. Quindi paga il valore del terreno e lo rende produttivo.

L’accusa classica della contro–parte è quella di accusare Chávez di essere un dittatore perché concentra molti poteri ed ha una maniera di confrontarsi dura e autoritaria. Tu come rispondi a queste affermazioni?

La democrazia venezuelana si definisce come una democrazia partecipativa e non rappresentativa e quindi questo vuol dire che chi fa la democrazia non sono solo i rappresentanti del popolo ma anche quest’ultimo organizzato in gruppi sociali o in consigli comunali. Questo è un punto fondamentale. In Venezuela, dare potere al popolo non è demagogia o uno slogan perché lì sono state fatte delle leggi che permettono al popolo di partecipare e di essere protagonista del proprio destino. Lì sono nati i Consigli comunali, “las Comunas” che sono esempi chiari di partecipazione popolare. Inoltre lo stato sovvenziona i poteri comunali per la creazione di imprese produttive, per la creazione di strade e di opere pubbliche. Lo stato interviene mettendo a disposizione i mezzi tecnologici e personale qualificato. Quindi non possiamo accusarlo di dittatura anzi lì c’è fin troppa democrazia!

Nell’ultima sua dichiarazione, l’ex – presidente brasiliano Lula, ha smentito tutte queste storie. Lula, che è stato il preferito dell’occidente, ha dichiarato che Chávez è l’esempio ed è il pioniere dello sviluppo e dell’integrazione latinoamericana. Ha dichiarato, inoltre, quando è venuto in Venezuela che c’è fin troppa democrazia nel nostro paese e che la vittoria prossima in ottobre di Chávez sarà la vittoria di tutto il continente, dell’unità dell’America Latina.*

E allora relazionandoci all’intero continente latinoamericano. Continua ancora questa ventata di riforme, questo processo di rivoluzioni in atto e Chávez rappresenta la punta di diamante dell’ala più radicale. Quanto è cambiata l’America Latina con la presenza di Chávez da un punto di vista sociale e politico?

Guarda, ti faccio un solo esempio. Quando dieci anni fa c’era il tentativo degli U.S.A. di imporre l’ALCA (Área de libre comercio de las Américas) ai paesi latinoamericani, Chávez propose (anni dopo) l’ALBA (Alianza Bolivariana para los pueblos de Nuestra América) come mercato alternativo. In quel momento rappresentò l’unica voce dissidente. Nel frattempo si è aggiunto il Nicaragua, la Bolivia, Cuba c’è sempre stata, l’Ecuador, poi, prima del colpo di Stato, l’Honduras, e più in là dell’ALBA, l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay… Poi c’è stato anche il Cile per un periodo con la Bachelet fino a quando c’è stata la svolta a destra.

Quindi lo scenario è cambiato e Chávez è stato (e continua ad essere) il pioniere dell’unificazione dell’America Latina. Lui parla della Patria Grande però non solo a chiacchiere. Ha creato TELESUR, RADIO del SUR, il BANCO del SUR e la MONETA del SUR che è il SUCRE. Quindi una delle cose che vanno riconosciute al Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, è la difesa dell’America Latina.

Attualmente è il continente che cresce ogni anno e che non vive la crisi che vive l’Europa. È la realtà continentale che mette in discussione il neoliberismo e il capitalismo a livello mondiale. Quindi una risposta al neoliberismo da sinistra si può dare, e si sta dando. L’Ecuador e il Venezuela sono due paesi gemellati e i due presidenti collaborano molto. Cosa ne pensi di questa situazione?

Io dico che il Venezuela ha aiutato molto gli altri paesi ma è anche vero che il Venezuela è stato aiutato dagli altri paesi perché finalmente non è stata più l’unica voce nel deserto, quella di Chávez. Pere esempio, si è aggiunta la voce di Correa che è un grande stratega a mio avviso. Correa è una persona degna. Quando è giunto al potere ha trovato un paese totalmente soggiogato dal neoliberismo e lui è stato capace di fare un discorso di liberazione, di carattere progressista. Con Chávez si sono intesi perfettamente e comunque è proprio per questo che ci sono stati dei tentativi di colpo di stato in Ecuador come in Venezuela.

Però la realtà latinoamericana è ormai un fatto. A me piace di Correa quando dice che in questo momento non c’è un cambio d’epoca ma un’epoca di cambiamenti e questa cosa è verissima. Noi la viviamo sulla nostra pelle, gli interscambi sociali ed economici non sono realizzati solo attraverso le monete convenzionali ma anche attraverso forme di baratto.

Intervista di Davide Matrone

Luglio 2012

*di seguito riportiamo la affettuosa dichiarazione di solidarietà di Lula al Presidente venezuelano:

“Gli enormi progressi sociali raggiunti in Venezuela dal governo di Hugo Chávez – in un solo decennio – hanno invertito 200 anni di sfruttamento, abbandono e marginalizzazione delle classi popolari. Un decennio caratterizzato dal colpo di Stato dell’oligarchia in alleanza con i grandi monopoli internazionali, il sequestro del Presidente, la serrata petrolifera, i tentativi di destabilizzazione e una feroce campagna nazionale ed internazionale scatenata dai mass media che hanno manipolato anche – con totale mancanza di scrupoli – i problemi di salute, già superati.

Il Presidente Hugo Chávez ha dato al mondo lezioni di esercizio della democrazia, partecipazione popolare ed elettorale in 13 occasioni. La sua genuina guida regionale ha dato un impulso senza precedenti ai Paesi e ai processi politici dei governi progressisti, costruendo un’alternativa valida alla profonda crisi economica internazionale presente nel mondo, afflitto da miseria, morte, guerre, occupazioni e distruzione del pianeta.


Nelle elezioni del prossimo 7 ottobre, si gioca, non solo il destino del Venezuela, ma di tutta l’America Latina.

Appoggiamo il Presidente Hugo Chávez perché insieme al suo popolo sta costruendo quel mondo possibile e solidale di cui l’umanità ha tanto bisogno.

Chávez conta su di me e su ogni cittadino democratico Sudamericano. Nel 1990, quando creammo il Forum di San Paolo, nessuno immaginava che in appena dieci anni saremmo arrivati dove siamo arrivati. Oggi governiamo un gran numero di Paesi e i governi progressisti stanno trasformando la faccia dell’America Latina. Siamo un punto di riferimento internazionale come valida alternativa al neoliberismo. Chiaramente, c’è ancora molto da fare e per questo abbiamo bisogno di una maggiore integrazione. L’unità nelle diversità. Vorrei molto essere lì, anche per dare un forte abbraccio al mio compagno Hugo Chávez. Solo con la sua straordinaria guida le conquiste del popolo venezuelano possono essere difese e consolidate. Chávez conta su di me e su ogni cittadino democratico Sudamericano. La tua vittoria sarà la nostra vittoria!”

(Estratto del video-messaggio dell’ex presidente brasiliano Lula da Silva al XVIII Incontro del Forum di San Paolo riunito a Caracas, 3-6 giugno 2012)

[Traduzione dal castigliano a cura di Rosa Bartiromo]

Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali

(En francais: Le terrorisme anti-syrien et ses connexions internationales)

http://www.comunistiuniti.it

Fin dall’inizio della “primavera” siriana, il governo di Damasco ha affermato di essere in guerra contro bande di terroristi. La maggior parte dei media occidentali denunciano questa tesi come propaganda di Stato, che serve per giustificare la repressione contro i movimenti di protesta. Se è evidente che questa tesi viene calata come sacrosanta dallo Stato baathista, che ha una reputazione di poca tolleranza verso i movimenti di opposizione che sfuggono al suo controllo, va detto comunque che non è falsa. Effettivamente, molteplici elementi senza ombra di dubbio accreditano la tesi del governo siriano.

In primo luogo, esiste il fattore della laicità.
La Siria è in questo caso l’ultimo Stato arabo laico.(1) Le minoranze religiose godono dei medesimi diritti della maggioranza musulmana. Per certe frange religiose sunnite, campioni dell’idea della guerra contro l’«Altro», chiunque egli sia, la laicità araba e l’uguaglianza inter-religiosa, incompatibili con la sharia (legge islamica), costituiscono una offesa contro l’Islam e rendono lo Stato siriano più detestabile di un’Europa «atea» o «cristiana». Ora, la Siria ha almeno dieci diverse chiese cristiane, con sunniti che sono Arabi, Curdi, Circassi o Turcomanni, con cristiani non arabi come gli Armeni, gli Assiri o i Levantini, con musulmani sincretisti e quindi non classificabili, come gli Alawiti e i Drusi. Pertanto, il compito di mantenere salda questa struttura etnico-religiosa fragile e complessa si dimostra così difficile, che solo un regime laico, solido e necessariamente autoritario può assolverlo.

Poi, esiste il fattore confessionale.
In ragione dell’origine del presidente Bachar El-Assad, il regime siriano è indebitamente descritto come «alawita». Questa definizione è totalmente falsa, diffamatoria, settaria, vale a dire razzista. Innanzitutto è falsa, perché lo stato maggiore, la polizia politica, i diversi servizi di informazione, i membri del governo sono nella grande maggioranza sunniti, come pure una parte non trascurabile della borghesia. I nostri media, per fare sensazione, non mancano di sottolineare l’origine sunnita della signora Asma al-Assad, moglie del presidente, con lo scopo di demonizzarla. Ma evitano deliberatamente di citare la vice-presidente della Repubblica araba di Siria, la signora Najah Al Attar, la prima ed unica donna araba al mondo ad occupare una carica così elevata. La signora Al Attar non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei dirigenti in esilio dei Fratelli Musulmani, esempio emblematico del paradosso siriano.

In realtà, l’apparato statale baathista è il riflesso quasi perfetto della diversità etnico-religiosa che prevale in Siria. Il mito a proposito della «dittatura alawita» è talmente grottesco, che perfino il Gran Mufti sunnita, lo sceicco Bedreddine Hassoune, ed ancora il comandante della polizia politica Ali Mamlouk, anch’egli di confessione sunnita, sono a volte classificati come alawiti dalla stampa internazionale. (2) La cosa più strabiliante è che questa stampa medesima porta acqua al mulino di certi mezzi di informazione siriani salafiti (sunniti ultra-ortodossi), che diffondono la menzogna secondo cui il paese sarebbe stato usurpato dagli alawiti, che, secondo loro, sarebbero agenti sciiti. Questi stessi salafiti accusano gli sciiti di essere negazionisti (Rawafid, Sciiti estremisti eretici che maledicono i Compagni), perché rifiutano, tra le altre cose, la legittimità del Califfato, vale a dire del governo sunnita delle origini dell’Islam.

Tuttavia, da un lato, vi sono notevoli differenze tra alawiti e sciiti, sia sul piano teologico che nelle pratiche religiose. Nello specifico, la deificazione di Ali (nipote di Maometto), la dottrina trinitaria, la credenza nella metempsicosi ed inoltre il rifiuto della sharia da parte degli alawiti sono fonti di critiche da parte dei teologi sciiti, che non mancano mai di accusarli di estremismo (ghulat). D’altro canto, se esiste una religione di stato in Siria, questa è l’Islam sunnita di rito hanafita, rappresentato fra gli altri dallo sceicco Muhammad Saïd Ramadan Al Bouti e dal Gran Mufti della Repubblica, lo sceicco Badreddine Hassoune, i cui saggi discorsi contrastano con gli appelli all’omicidio e all’odio degli sceicchi wahhabiti. Ma tutto questo non importa. Per spiegare l’alleanza contro gli Stati Uniti e contro il sionismo formata dall’asse Damasco – Teheran – Hezbollah, la stampa e i mezzi di informazione agli ordini dei sunniti ultra-conservatori ripetono in coro che la Siria è sotto il dominio degli alawiti, che costituirebbero una «setta sciita». Visto che la Siria riceve l’appoggio della Cina, della Russia, del Venezuela, di Cuba, del Nicaragua e finanche della Bolivia, logicamente bisognerebbe concludere che Hu Jintao, Putin, Chavez, Castro, Ortega e Morales sono essi stessi degli alawiti, o almeno dei cripto-sciiti!

Per terzo, esiste il fattore nazionalista.
Conviene ricordare che per i salafiti la Siria proprio non esiste. Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si chiama Bilad al Rafidaïn (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilad al-Cham (la terra di Cam). Colui che adotta l’ideologia nazionalista, e si consacra alla liberazione del proprio paese, commette un peccato di associazione (shirk). Egli viola il principio del tawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte. Per questi fanatici, la sola lotta approvata da Allah è la jihad, la guerra definita «santa», scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di estendere l’Islam. In quanto corollario del nazionalismo arabo, il pan-arabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di «Umma», la madre patria musulmana.

Come ha ricordato di recente il presidente Bachar El-Assad in un’intervista accordata al giornale Sunday Telegraph, la lotta che si sta scatenando attualmente sul suolo siriano vede opposte due correnti inconciliabili fra loro: il pan-arabismo e il pan-islamismo (3). Questo conflitto originale introduce un fattore storico, su cui si fonda la minaccia terroristica in Siria. Dal 1963, la Siria baathista conduce in realtà una vera e propria guerra contro i movimenti jihadisti. L’esercito governativo e i Fratelli Musulmani si sono affrontati in numerosi scontri che si sono tutti risolti con la vittoria del potere siriano. Queste vittorie sono state strappate al prezzo di molte vittime, l’esercito non ha esitato a seminare il terrore per raggiungere i suoi scopi. Nel 1982, l’esercito di Hafiz al-Assad ha martellato interi quartieri della città di Hama per superare la resistenza jihadista, massacrando senza distinzione militanti e civili innocenti. Ci sono stati almeno 10 mila morti causati dai bombardamenti e negli scontri per le strade. Si sono susseguite delle vere e proprie cacce all’uomo lanciate contro i Fratelli Musulmani siriani attraverso tutto il paese, costringendoli all’esilio. Comunque, la repressione non è ancora riuscita a sradicare la tradizione guerriera e nemmeno lo spirito di vendetta degli jihadisti siriani.
Ora, analizziamo paese per paese quali sono i movimenti terroristici che le truppe siriane stanno attualmente affrontando.

Il fronte libanese

Nell’aprile 2005, l’Occidente si è rallegrato nel vedere le truppe siriane abbandonare il Libano, dopo 30 anni di presenza ininterrotta. Questo evento era stato attivato dall’attentato che aveva preso di mira l’ex primo ministro libanese-saudita Rafiq Hariri noto per la sua ostilità verso la Siria, attentato immediatamente imputato dall’Europa e dagli Stati Uniti al regime di Damasco, senza la minima prova e prima dell’inizio di una qualsiasi inchiesta. Una «rivoluzione dei Cedri», sostenuta dai laboratori «per i diritti dell’uomo» della CIA, aveva costretto le truppe siriane a lasciare il Libano. Appena i carri armati siriani si erano ritirati, i gruppi salafiti sono riemersi, sguainando le loro spade e la loro predicazione settaria. Questi movimenti si sono insediati nel nord del Libano, dalle parti di Tripoli di maggioranza sunnita, e poi, via via, nei campi palestinesi del Libano, profittando delle divisioni politiche e della debolezza militare delle organizzazioni palestinesi, così come della politica di non-intervento dell’esercito libanese in questi campi.

Tra il 2005 e il 2010, i gruppi jihadisti hanno condotto la guerra contro tutti i sostenitori veri o presunti del regime di Bashar al-Assad, come le popolazioni sciite, alawite o i militanti di Hezbollah. Alcuni di questi movimenti sono arrivati a varcare il confine siro-libanese per bersagliare le truppe del potere baathista sul loro stesso territorio. L’attivismo anti-siriano dei gruppi salafiti libanesi armati ha conosciuto una recrudescenza con l’inizio della crisi siriana del 2011. Comunque, queste formazioni sono state soppiantate da movimenti salafiti non combattenti. Il 4 marzo 2012, circa duemila salafiti guidati da Ahmad Al Assir, un predicatore della città di Saïda (Sidone) divenuto la stella in ascesa del sunnismo libanese, sfilavano a Beirut per protestare contro il regime di Bashar al-Assad. Dietro un imponente cordone di sicurezza composto da poliziotti e militari, alcune centinaia di contro-manifestanti del partito Baath libanese protestavano contro la parata.

Da Aarida a Naqoura, tutto il Libano ha trattenuto il respiro. E il suo cuore si stringe ogni volta che spari risuonano dai quartieri di Tripoli di Bab Tebbaneh e Jebel Mohsen. Dal momento che in questo paese la linea di frattura politica è prevalentemente confessionale, con una maggioranza sunnita anti-Assad e una maggioranza sciita pro-Assad, ed inoltre con i cristiani divisi che si ritrovano nei due campi, l’assillo della guerra civile è onnipresente. Ma il governo di unità nazionale cerca di calmare le acque e di garantire la neutralità rispetto al conflitto siriano. Per questo, certi gruppi salafiti non perdono nemmeno un’occasione per seminare il caos in questi due paesi geograficamente inter-dipendenti e complementari. Ecco una breve descrizione di alcuni di questi movimenti settari attivi in Libano, che minacciano la Siria da molti anni.

Gruppo di Sir El-Dinniyeh

Questo movimento sunnita, diretto fra il 1995 e il 1999 da Bassam Ahmad Kanj, un veterano delle guerre in Afghanistan e in Bosnia, è apparso in seguito alle lotte fra differenti correnti islamiche tendenti a controllare le moschee di Tripoli. Nel gennaio 2000, il gruppo di Dinniyeh ha tentato di creare un mini-Stato islamico nel Nord del Libano. I miliziani hanno assunto il controllo dei villaggi del distretto di Dinniyeh, ad est di Tripoli. 13.000 soldati libanesi sono stati inviati per domare questa ribellione jihadista. I sopravvissuti all’attacco si sono trincerati nel campo palestinese di Ayn el Hilwe, nel Libano meridionale. Dopo il ritiro delle truppe siriane, nell’aprile 2005, i combattenti del gruppo di Dinniyeh sono tornati a Tripoli, dove esistevano ancora delle cellule clandestine. Lo stesso anno, il Ministro degli Interni libanese ad interim, Ahmed Fatfat, che è appunto originario di Sir El-Dinniyeh e che, per altro, ha la cittadinanza belga, si è battuto per la liberazione dei prigionieri del gruppo di Dinniyeh, e questo con lo scopo di ottenere l’appoggio politico dei gruppi sunniti e salafiti del Nord del Libano.

Fatah al Islam

Movimento sunnita radicale del Nord del Libano. Fatah al Islam ha letteralmente occupato la città di Tripoli con la complicità di Saad Hariri e del suo partito, la Corrente del Futuro. Hariri voleva servirsi di questi sunniti radicali per contrastare gli Hezbollah sciiti libanesi e il governo siriano. Tra gli alleati di Hariri, il gruppo chiamato «Fatah el Islam», dissidente del movimento nazionale palestinese, ha assunto il controllo del campo di Nahr El Bared. Questo movimento terrorista ha assassinato 137 soldati libanesi in maniera brutale, soprattutto durante riti satanici che si concludevano con decapitazioni. Il 13 febbraio 2007, Fatah el Islam ha fatto saltare in aria due autobus nel quartiere cristiano di Alaq-Bikfaya. Dal maggio al settembre 2007, l’esercito libanese poneva l’assedio al campo palestinese di Nahr el Bared, dove i combattenti jihadisti si erano rintanati, e solo dopo intensi combattimenti degni dell’operazione siriana di Baba Amro riusciva a neutralizzarli.

Non meno di 30.000 Palestinesi sono fuggiti dai combattimenti. Per quanto riguarda il campo di Nahr el Bared, venne ridotto in macerie.Pochi mesi dopo, Fatah al Islam veniva coinvolto in un attentato mortale che scuoteva Damasco. Infatti, il 27 settembre 2008, il santuario sciita di Sayda Zainab a Damasco diventava l’obiettivo di un attacco suicida che uccideva 17 pellegrini. Fatah Al Islam è spesso citato quando scoppiano combattimenti a Tripoli tra il quartiere sunnita di Bab Tabbaneh e il quartiere alawita di Djébel Mohsen.

Jounoud Al Cham (I soldati del Levante)

Movimento radicale sunnita nel sud del Libano, dalle origini diverse.Alcuni dei suoi membri sarebbero arrivati dal gruppo di Dinniyeh, mentre altri sarebbero veterani dell’Afghanistan, avendo combattuto sotto il comando di Abou Moussab Al Zarqawi. La maggior parte dei suoi combattenti sarebbero Palestinesi «takfiri», vale a dire in conflitto contro le altre religioni e i non credenti. Jounoud Al Cham sarebbe responsabile di un attentato nel 2004 a Beirut, che ha ucciso un dirigente di Hezbollah. Per diversi anni, il gruppo ha cercato di assumere il controllo del campo palestinese di Ain el Hilwe situato vicino alla città di Sidone. Nel 2005, il gruppo fa parlare di sé per le sue scaramucce quotidiane con l’esercito siriano. Jounoud al-Sham si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche pubblicata dalla Russia. Tuttavia, non si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche straniere del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. (4)

Ousbat Al Ansar (la Lega dei partigiani)

Presente sulla lista delle organizzazioni terroristiche, Ousbat al-Ansar si batte per «istituire in Libano uno Stato sunnita radicale». Noto per le sue spedizioni punitive contro tutti i musulmani «devianti», Ousbat al-Ansar ha fatto assassinare personalità sunnite come lo sceicco Nizar Halabi. Per lo stesso motivo, ha fatto saltare in aria strutture pubbliche giudicate empie: teatri, ristoranti, discoteche…Nel gennaio 2000, ha attaccato a colpi di razzi l’ambasciata russa a Beirut.Erede del gruppo di Dinniyeh, questa formazione si infiltra nel campo palestinese di Ain el Hilwe nel Libano meridionale. Quando, nel settembre 2002, ho visitato i campi palestinesi del Libano, l’inquietudine dei resistenti palestinesi era palpabile. Molti di loro erano stati uccisi durante i tentativi di assunzione del controllo dei campi da parte di questo gruppo, considerato essere vicino ad Al Qaeda. Nel 2003, quasi 200 membri di Ousbat Al Ansar hanno attaccato le sedi di Fatah, il movimento palestinese di Yasser Arafat, causando la morte di otto persone, di cui sei membri di Fatah.

Il mito dell’Esercito Libero Siriano (ELS)

Bisogna riconoscerlo: i cacciatori di dittatori che popolano le redazioni delle grandi testate giornalistiche sono diventati abilissimi nell’arte del camuffamento, quando si tratta di presentare i «resistenti» che servono gli interessi del loro campo. Nei panni di veri chirurghi estetici, trasformano l’Esercito Libero Siriano (ELS) in un movimento di resistenza democratica di bravi e simpatici militanti, composto da disertori umanitari disgustati dalle atrocità commesse dall’esercito regolare siriano. Non c’è dubbio alcuno che l’esercito del regime baathista non va tanto per il sottile, e commette imperdonabili abusi contro i civili, che costoro siano terroristi, manifestanti pacifisti o semplici cittadini presi fra due fuochi. A questo riguardo, gli importanti mezzi di comunicazione ci bombardano fino alla nausea dei crimini imputabili alle truppe siriane, qualche volta a ragione, ma più spesso a torto. Perché, in termini di crudeltà, l’ELS non si comporta veramente meglio. Solo qualche raro giornalista, come l’olandese Jan Eikelboom, osa mostrare il rovescio della medaglia, quello di un ELS sadico e ignominioso.

Anche la corrispondente a Beirut di Spiegel, Ulrike Putz, scalfisce la reputazione dell’ELS. In un’intervista pubblicata sul sito web del settimanale tedesco, Ulrike Putz ha evidenziato l’esistenza di una «brigata di becchini» incaricati dell’esecuzione dei nemici della loro sinistra rivoluzione a Baba Amr, il quartiere di Homs, insorto e poi ripreso dall’esercito siriano.(5) Un massacratore intervistato da Der Spiegel attribuisce alla sua brigata di beccamorti da 200 a 250 esecuzioni, quasi il 3% del bilancio complessivo delle vittime della guerra civile siriana dello scorso anno. Per quanto riguarda le agenzie umanitarie, è stato necessario attendere la data fatidica del 20 marzo 2012 perché un’eminente Organizzazione Non Governativa, vale a dire Human Rights Watch, la cui denominazione tradotta significa esattamente «Sentinella dei Diritti Umani», finalmente riconoscesse le torture, le esecuzioni e le mutilazioni commesse dai gruppi armati che si oppongono al regime siriano. Dopo 11 mesi di terrorismo degli insorti … Alla buon’ora dell’infallibile «sentinella»! «Sah Al Naum», come si dice in arabo a qualcuno che si risveglia. Passiamo ad altre informazioni, che vanno ad intaccare ancor di più la reputazione di questo Esercito libero siriano e dei suoi sostenitori atlantisti.

Secondo fonti militari e diplomatiche, l’ELS, questo esercito di cosiddetti «disertori», sarebbe carente di effettivi militari. Per ovviare a questa carenza di combattenti, l’ELS arruolerebbe dei salafiti, senza andare tanto per il sottile. Questo è il caso del battaglione dell’ELS «Al Farouq», che si è reso celebre per i suoi rapimenti di ingegneri civili e di pellegrini iraniani, per i suoi metodi di tortura e per le sue esecuzioni sommarie. La difficoltà di reclutare soldati di leva provenienti dall’esercito regolare è dopo tutto abbastanza logica, dato che un disertore è per definizione un uomo che abbandona il combattimento. Disertare significa abbandonare la guerra. Nel caso siriano, numerosi disertori abbandonano il paese e si costituiscono come rifugiati. La propaganda di guerra occidentale afferma che se costoro abbandonano l’esercito o non rispondono alla chiamata alle armi, questo avviene perché si rifiutano di uccidere manifestanti pacifici. In realtà, queste giovani reclute temono tanto di ammazzare quanto di venire ammazzate. Essi devono affrontare un nemico invisibile, rotto alle tecniche della guerriglia, che spara alla cieca indifferentemente contro i favorevoli o i contrari al regime, e che non esita a liquidare i suoi prigionieri secondo un sordido rituale di decapitazioni e smembramenti.

Il terrore che ispirano questi gruppi armati dissuade legittimamente numerosi giovani dal rischiare la loro vita circolando in uniforme. Ecco che allora fanno la scelta di abbandonare l’esercito regolare e il paese.Per esempio, i disertori Curdi siriani si rifugiano nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Soprattutto a Erbil, in un quartiere popolato da Curdi siriani, che per questo è stato soprannominato «la piccola Qamishli». [Qamishli è una città della Siria, a maggioranza curda e assira, N.d.T.] Altri raggiungono i campi di rifugiati in Iraq, Libano, Turchia o Giordania. Il termine «disertore», che serve a designare i militari che hanno fatto diserzione per raggiungere il campo avverso e sparare contro i loro vecchi camerati, risulta dunque inappropriato in questo caso. Sarebbe più corretto definire «transfughi» questi rifugiati. Ecco un’analisi di Maghreb Intelligence, un’agenzia che non può essere sospettata di collusione con il regime di Damasco, e che sostiene la tesi della smobilitazione dei giovani di leva, della debolezza dell’ELS e della presenza di salafiti armati presenti negli scontri:

«Secondo un rapporto proveniente da una ambasciata europea a Damasco e corroborato da inchieste condotte da centri ricerca francesi alla frontiera turca, l’Esercito Libero Siriano – ELS – nel suo complesso non conterebbe più di 3000 combattenti. Costoro sono per la maggior parte armati di fucili da caccia, diKalachnikov e di mortai di fabbricazione cinese provenienti dall’Iraq e dal Libano. Secondo questo documento, l’ELS non è stata in grado di arruolare la maggioranza dei ventimila militari che avrebbero disertato dall’esercito di Bachar Al Assad. D’altro canto, l’ELS è particolarmente presente nei campi di rifugiati insediatisi sul territorio della Turchia. A Hama, Deraa e Idlib, sono soprattutto gruppi armati salafiti che si contrappongono all’esercito siriano. Questi salafiti, particolarmente violenti e determinati, provengono per la maggior parte dai movimenti sunniti radicali attivi in Libano.»(6)

Oltre ad essere spietato, infiltrato da gruppi settari e in carenza di effettivi, l’Esercito Libero Siriano è disorganizzato. Non presenta una direzione centrale ed unificata.(7) Numerose indicazioni, tra cui importanti sequestri di armi condotti presso diversi posti di frontiera del paese, dimostrano che l’ELS riceve armi dall’estero e questo, sin dall’inizio della rivolta, veniva smentito dall’ELS, prima di arrivare a chiedere apertamente un intervento militare straniero sotto forma di bombardamenti, di supporto logistico, o la creazione di zone cuscinetto. Allo scoppio dell’insurrezione, il gruppo dissidente armato, ovviamente, non voleva fornire l’immagine di una quinta colonna che agisce per conto di forze straniere, nemmeno compromettere i suoi generosi mecenati, che comunque si possono indovinare. Ci si dovrà ricordare che nel documentario di propaganda anti-Bashar realizzato da Sofia Amara, dal titolo «Siria: Permesso di uccidere», e diffuso dalla catena televisiva franco-tedesca Arte nell’ottobre 2011, un soldato dell’ELS stava per rivelare i suoi rifornitori stranieri, quando un suo superiore gli intimava di tacere.

Il fronte giordano

La fedeltà della monarchia hashemita a Washington e a Tel Aviv è ormai un luogo comune.Per soddisfare i suoi alleati, la Giordania è stata anche il primo regime arabo ad invitare Bashar el-Assad ad abbandonare il potere.Il 22 febbraio 2012, il corrispondente de Le Figaro, Georges Malbrunot, rivelava che la Giordania aveva acquistato dalla Germania quattro batterie anti-missili Patriot usamericani «per proteggere Israele contro possibili attacchi aerei condotti dalla Siria.»(8) Questi missili sarebbero stati installati ad Irbid, non lontano dal confine siriano. Già nel 1981, questa Monarchia, sicura alleata degli Stati Uniti, aveva consentito all’aviazione da guerra di Israele di violare il suo spazio aereo per andare a bombardare il reattore nucleare iracheno di Osirak.

In politica interna, la Giordania non mostra un atteggiamento più progressista. Anzi, per decenni, Amman ha incoraggiato i Fratelli musulmani secondo un calcolo politico motivato dal desiderio di sradicare il nemico principale, vale a dire l’opposizione laica di sinistra (comunista, baathista e nasseriana). Secondo M.Abdel Latif Arabiyat, ex ministro ed ex portavoce del Parlamento giordano:«I Fratelli musulmani non rappresentano un’organizzazione rivoluzionaria, ma esaltano la stabilità. Con l’ascesa al potere dei partiti nazionalisti e di sinistra, noi abbiamo stipulato un’alleanza informale con le autorità»(9).

Nel 1970, i Fratelli musulmani si sono schierati con la Monarchia quando il re Hussein ordinava l’annientamento dei Fédayins palestinesi. La Fratellanza musulmana non ha detto una parola di fronte al massacro del «Settembre Nero», in cui furono massacrati circa 20 mila Palestinesi. Da questa strategia di manipolazione dei Fratelli musulmani in Giordania, in ultima analisi, sono costoro a risultare i vincitori, visto che attualmente costituiscono il principale movimento di opposizione nel paese. Per il Regno hashemita, i Fratelli musulmani rappresentavano un male minore rispetto sia alla sinistra, ma anche in relazione ai movimenti jihadisti. Questo matrimonio di interesse non è durato per tanto tempo. E alla fine, la Monarchia si è vista costretta a reprimere un movimento diventato troppo potente. Nel frattempo, la Giordania ha subito diversi attentati terroristici. Nel 2005, sono alcuni alberghi della capitale Amman ad essere presi di mira da gruppi salafiti. Abou Moussab Al Zarqawi, l’ex capo di Al Qaïda in Iraq, lui stesso è originario di Zarqa, una città giordana situata a nord-est di Amman.

La rivolta contro il regime siriano è scoppiata a Deraa, una città del sud della Siria vicina al confine con la Giordania, ed ha risvegliato gli appetiti di conquista delle fazioni jihadiste di base in Giordania, che si erano ben moderate in seguito alle numerose perdite subite all’interno dei ranghi di Al Qaïda. Fra le altre, troviamo la Brigata Tawhid, una piccola formazione armata jihadista formata da parecchie decine di combattenti, in precedenza attivi all’interno di Fatah Al-Islam, che si infiltrano in Siria per attaccare l’esercito governativo. (10) Il portale giordano di informazioni liberal Al Bawaba rivela che la città di confine di Ramtha accoglie mercenari libici pagati dall’Arabia Saudita e dal Qatar. D’altronde, essendo situato tra la Siria e l’Arabia Saudita, il Regno hashemita costituisce un passaggio obbligato per tutti gli jihadisti, gli istruttori e i convogli militari inviati da Riyad.

Il fronte saudita

Sull’esempio del Regno hashemita, la lealtà della dinastia Saud allo Zio Sam non è un segreto per nessuno, e questo dal momento del Patto di Quincy firmato sull’incrociatore americano (il Quincy, da cui il nome del Patto) tra Roosevelt e Saud Bin Abdulaziz nel febbraio del 1945. Questo accordo avrebbe permesso agli Stati Uniti di garantirsi un approvvigionamento energetico senza ostacoli in cambio della protezione del suo vassallo nell’affrontare i loro comuni avversari nella regione, in modo particolare il nazionalismo arabo e l’Iran, di cui alcuni territori erano passati sotto l’influenza sovietica.Allo scoppio della crisi siriana, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita stavano festeggiando le loro «nozze di gelsomino» per i loro 66 anni di vita insieme, sigillando il più grande contratto di armamenti nella storia: 90 miliardi di dollari, che prevedono la modernizzazione della marina e dell’aviazione da guerra saudite. Come si può immaginare, lo Stato wahhabita non poteva restava immobile di fronte agli eventi che stanno scuotendo la Siria, un paese faro del nazionalismo arabo ed inoltre amico dell’Iran, nemico giurato dei Sauditi.

Riyad alimenta il terrorismo anti-siriano attraverso diverse modalità: diplomatiche, economiche, religiose, logistiche e, ben s’intende, militari. La Casa di Saud ha sponsorizzato gli jihadisti attivi in Siria, incoraggiandoli attraverso i suoi strumenti di propaganda, e accreditandoli a mettere il paese a ferro e fuoco. Ad esempio, dopo aver autorizzato la jihad in Libia, e aver invocato l’eliminazione di Mouammar Gheddhafi, lo sceicco Saleh Al Luhaydan, una delle più prestigiose autorità giuridiche e fatalmente religiose del paese, si è dichiarato favorevole allo sterminio di un terzo dei Siriani per salvarne gli altri due terzi. Sulla emittente televisiva saudita Al-Arabiya TV, il predicatore Aidh Al-Qarni ha dichiarato che «Ammazzare Bashar è più importante dell’ ammazzare Israeliani!»(11) È sempre da Riyadh, e attraverso la catena relevisiva Wessal TV, che Adnan Al Arour ha lanciato un appello per fare a pezzi gli Alawiti e dare la loro carne ai cani.
Le recenti dichiarazioni cristianofobe dello sceicco Abdul Aziz bin Abdullah, riportate da Arabian Business, sicuramente non giungono a rassicurare i Cristiani di Siria: sulla base di un hadith (narrazione secondo la tradizione orale) che riporta la dichiarazione del profeta Maometto sul letto di morte, «non dovranno esserci due religioni nella penisola arabica», lo sceicco saudita Abdullah, la massima autorità wahhabita al mondo, ne deduce che è necessario distruggere «tutte le chiese presenti nella regione». I Cristiani di Siria, prede dell’odio religioso, trovano in questa affermazione un motivo in più per sostenere Bashar al-Assad.

Molti sono i cittadini siriani ostili al regime di Bashar Assad, che tuttavia si preoccupano del padrinato del loro movimento democratico da parte di una teocrazia, che ancora decapita le donne accusate di stregoneria, che tortura i suoi oppositori politici nelle prigioni, e che non riconosce né un Parlamento né elezioni. Sotto il sole di Riyadh esiste anche Bandar, che non ha bisogno di presentazioni. Il suo ruolo torbido negli attentati di Londra, nel finanziamento di gruppi armati salafiti rivendicato dall’interessato, le sue collusioni con il Mossad, il suo odio verso Hezbollah, verso la Siria e l’Iran fanno del principe saudita Bandar bin Sultan, segretario generale del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, un elemento fondamentale del piano per distruggere la Siria laica, multiconfessionale, sovrana e non sottomessa. Non vi è quindi alcun motivo reale per essere sorpresi quando la dittatura saudita si è impegnata ad aiutare il suo vicino e rivale Qatar nel pagare gli stipendi ai mercenari anti-Siriani, in occasione della riunione degli “Amici della Siria” ad Istanbul.

Il fronte del Qatar

Il Qatar è soprattutto una gigantesca base militare degli Stati Uniti, la più grande esistente all’esterno degli Stati Uniti. Ed inoltre, per inciso, è il regno di un piccolo emiro mediocre, falso e avido. Nel suo regno, non c’è Parlamento, nessuna Costituzione, nessun partito, tanto meno le elezioni. Nel 1995, ha organizzato un colpo di Stato contro il suo stesso padre.Appena arrivata al potere, la petromonarchia golpista si lancia in un vasto programma di partenariato economico con Israele, preconizzando in modo speciale la commercializzazione del gas del Qatar verso lo Stato sionista. Nel 2003, l’emiro del Qatar autorizza l’amministrazione Bush a servirsi del suo territorio per scatenare l’aggressione contro l’Iraq. Con il resto della sua famiglia, controlla tutta la vita economica, politica, militare e culturale del paese. La celebre catena televisiva Al Jazeera è il suo giocattolo personale. In poco tempo, ne ha fatto una potente arma di propaganda anti-siriana. Grazie alle notizie false, tendenziose e risibili di Al Jazeera, la CIA e il Mossad possono dedicarsi alle loro vacanze!

Il nome di Sua Maestà: Hamad Ben Khalifa al Thani. La «Primavera araba»? Ne è il principale procacciatore di fondi. Per lui, tutto si compra: lo sport, l’arte, la cultura, la stampa, e perfino la fede. Quindi, potete immaginare, una rivoluzione…! L’anno scorso, l’emiro Hamad ha inviato 5.000 commandos per sostenere la ribellione jihadista contro la Libia, Stato sovrano. Ora, il suo nuovo gioco del casinò è la Siria, e i ribelli di questo paese, gettoni da puntare. Quando questi ultimi hanno subito una battuta d’arresto da parte dell’esercito arabo siriano, l’emiro ha gridato al genocidio. Hamad e la sua cricca, è l’ospedale che si fa beffe della carità. E parlando della carità, egli ha appena assunto un notorio predatore della pace e della democrazia, lo sceicco Al Qardawi, tanto per islamizzare il messaggio dell’emittente televisiva. Ma, malgrado i suoi dollari e le sue campagne di mobilitazione contro la Siria, Al Jazeera è un esercito in rotta. Le colate di disinformazione che si riversano a proposito della Siria dagli studi della catena televisiva hanno determinato le dimissioni dei suoi personaggi più in vista.

Da Wadah Khanfar a Ghassan Ben Jeddo, da Louna Chebel a Eman Ayad, Al Jazeera ha dovuto subire importanti defezioni, che passano inosservate nella stampa occidentale. Nel marzo 2012, anche Ali Hachem e due suoi colleghi hanno abbandonato il bastimento della pirateria informativa del Qatar. Alcune e-mail di Ali Hashem trapelate hanno riguardato misure di censura assunte da Al Jazeera rispetto ad immagini di combattenti contro Bashar, che si infiltravano in Siria dal Libano, in data aprile 2011. Dunque, queste immagini fanno risalire la presenza di un’opposizione armata di natura terroristica agli inizi della cosiddetta «Primavera siriana». La loro pubblicazione avrebbe ridotto a brandelli l’impostura secondo la quale il movimento anti-Bashar non si sarebbe radicalizzato che alla fine dell’anno 2011, una tesi fatta propria da tutte le cancellerie occidentali.Malgrado questi scandali a ripetizione, i «nostri» media continuano a considerare Al Jazeera come una fonte affidabile, e il suo padrone, l’emiro Hamad, come un apostolo della democrazia siriana.

Il fronte iracheno

L’invasione dell’Iraq da parte delle truppe anglo-americane nel marzo 2003 ha svolto un ruolo cruciale nell’aumentare il numero dei jihadisti siriani. I posti di confine come Bou Kamal sono diventati punti di transito per i jihadisti siriani che vanno a combattere contro le forze di occupazione in Iraq. Numerosi sono stati i Siriani che sono accorsi ad ingrossare i ranghi dei battaglioni di Abu Musab al-Zarqawi. Dall’estate del 2011, il processo si è visibilmente invertito dato che ormai sono i miliziani iracheni sunniti ad attraversare la frontiera per andare a combattere contro le truppe siriane.

Al Qaeda

Il ramo iracheno di Al Qaeda denominato «Tanzim al-Jihad fi Bilad Qaidat al-Rafidayn» (Organizzazione della base della Jihad nella Terra dei Due Fiumi) conta molti reclutati provenienti dalla Siria. Si dice che il 13% dei volontari arabi presenti in Iraq erano Siriani.(12) Il terrore da loro scatenato era pari alla loro reputazione. Al Qaeda ha causato tali danni nell’ambito della resistenza sunnita irachena che i resistenti iracheni hanno dovuto rassegnarsi ad aprire un fronte anti-Al Qaeda. Nel 2006, vedeva la luce ad Anbar un Consiglio di emergenza che includeva la maggior parte dei clan e delle tribù della provincia ribelle. Il suo obiettivo era di fare pulizia dei terroristi di Al Qaida presenti nella provincia.(13) A Falloujah e a Qaim, i capi tribali, che inizialmente avevano aperto le braccia alla banda di Zarqawi, sono arrivati al punto da rovesciarle contro le armi. Per aver dichiarato guerra ad Al Qaeda, hanno ricevuto anche il sostegno da parte del governo iracheno.

Il terrore cieco di Al Qaeda ha fortemente neutralizzato la resistenza patriottica irachena. Tutti questi veterani della guerra contro gli Statunitensi, ma anche contro l’Iran, gli sciiti e i patrioti sunniti iracheni hanno trovato una nuova ancora nella guerra contro il regime di Damasco. Dal dicembre 2011 al marzo 2012, le città di Damasco, Aleppo e Deraa sono state bersaglio di numerosi attacchi suicidi o con autobombe, che hanno lasciato sul terreno decine di morti e feriti. Questi attentati sono stati rivendicati da Al Qaeda, o attribuiti all’organizzazione takfirista da parte delle autorità siriane e dagli esperti internazionali in questioni dell’anti-terrorismo, che confermano l’infiltrazione di terroristi provenienti dall’Iraq. [Al Qaeda, come organizzazione takfirista, accusa tutti gli islamici che non la appoggiano di essere apostati punibili con la morte, N.d.T.]

Jabhat Al-Nusra Li-Ahl al-Sham (Fronte di soccorso della popolazione del Levante)

Il 24 gennaio scorso, questa formazione ha annunciato la sua comparsa in vari forum islamici. Ma questa denominazione sembra essere una riduzione del titolo per esteso «Jabhat Al Nusra li Ahl Al Sham min Mujahideen al Sham fi Sahat al Jihad», ossia «Fronte di soccorso della popolazione del Levante dei Moudjahidines di Siria nei luoghi della Jihad». Secondo gli esperti del terrorismo, l’espressione «luoghi della Jihad» suggerisce che i membri di questo gruppo conducono la loro guerra santa su altri fronti come l’Iraq. Questo è anche ciò che viene rivelato dal leader del gruppo, Abu Mohammed al Julani, in un video pubblicato nella metà del mese di marzo. Al Julani significa Golanese, di provenienza dalle alture del Golan, con riferimento esplicito siriano. Come tutti i gruppi terroristici, Jabhat Al Nusra dispone di un organo di stampa: Al Manara al Bayda, il faro bianco.(14) Jabhat Al Nusra riceve l’appoggio di un prestigioso cyber-salafita, denominato Abou Moundhir al Shanqiti. Quest’ultimo ha emesso una fatwa, lanciando un appello a tutti i Musulmani a schierarsi nel campo di coloro che sollevano la bandiera della sharia in Siria.

Il fronte turco

In Turchia, paese membro della NATO da 60 anni, che presto ospiterà le strutture per lo scudo antimissilistico, è l’Esercito Libero Siriano che detiene il primato ed esercita il sopravvento. Il suo presunto leader, Riyadh Al Assaad, è ospitato nella provincia turca di Hatay, in precedenza siriana, e beneficia della diretta protezione del ministero degli affari esteri. Come tutti sanno, la Turchia è uno dei più acerrimi nemici del regime di Damasco. Temendo di «passare per imperialiste», le forze della NATO incitano Ankara a guadare il Rubicone, meglio dire l’Oronte nella circostanza, per muovere guerra contro la Siria. Numerose sono le fonti che danno conto di un asse Tripoli-Ankara nella guerra contro Damasco. Un trafficante d’armi libico sottolinea l’acquisto di attrezzature militari leggere da parte di Siriani a Misurata (15).

L’ex-ufficiale della CIA e direttore del Consiglio per l’interesse Nazionale degli Stati Uniti Philip Giraldi parla senza mezzi termini di un trasporto aereo di armi dall’arsenale del vecchio esercito libico verso la Siria, via la base militare usamericana di Incirlik situata nel sud della Turchia a meno di 180 km dalla frontiera con la Siria. Egli afferma che la NATO è già clandestinamente impegnata nel conflitto contro la Siria sotto la direzione della Turchia. Giraldi conferma inoltre le informazioni pubblicate lo scorso novembre dal Canard enchaîné, vale a dire che forze speciali francesi e britanniche assistono i ribelli siriani, mentre la CIA e forze speciali statunitensi forniscono loro dispositivi di comunicazione e spionaggio. Un altro agente della CIA, Robert Baer, nelle sue memorie(16) che hanno inspirato il film Syriana di Stephen Gaghan, con George Clooney come protagonista principale, ha dichiarato nell’estate 2011 che armi vengono inviate ai ribelli siriani dalla Turchia.(17)

Sibel Edmonds, l’interprete dell’FBI censurata per aver denunciato abusi commessi da parte dei servizi dello spionaggio degli Stati Uniti, puntualizza che la fornitura di armi ai ribelli siriani viene assicurata dagli Stati Uniti fin dal maggio 2011. Inoltre, gli Stati Uniti avrebbero installato in Turchia una «sezione per la comunicazione», il cui incarico è quello di convincere i soldati dell’esercito siriano a raggiungere le formazioni ribelli.(18) Il coinvolgimento di mercenari libici non sarebbe unicamente di natura logistica. Secondo molti testimoni oculari, fra cui un giornalista del quotidiano spagnoloABC, jihadisti libici e membri del Gruppo Islamico Combattenti Libici (GICL) sono concentrati alle frontiere siro-turche.(19)

Nella regione di Antiochia in Turchia, prevalentemente di lingua araba, che confina con la Siria, la popolazione locale si imbatte in un numero insolitamente elevato di Libici. Occupando gli alberghi più lussuosi della regione, costoro non passano inosservati. Alcuni di questi Libici sono autori di molteplici atti di vandalismo in certe zone turistiche, come ad Antalya. Miliziani libici che stazionano in Turchia hanno più di una volta attaccato e occupato la loro ambasciata ad Istanbul reclamando la loro paga.A questo strano panorama viene ad aggiungersi l’arresto di un Libico di 33 anni all’aeroporto di Istanbul in possesso di 2,5 milioni di dollari. Il primo di aprile, questo Libico faceva scalo ad Istanbul. La sua destinazione finale: la Giordania, un paese dove viene segnalato un numero significativo di Libici mercenari ammassati sul confine siriano. Bene, bene… (20)

E gli Stati Uniti in tutto questo?

Tenuto conto delle affermazioni di alcuni agenti della CIA concernenti il coinvolgimento degli USA nella destabilizzazione della Siria, è ragionevole credere che l’amministrazione Obama sarebbe indifferente, o meglio compiacente, rispetto alla destabilizzazione di un paese che figura ancora nella lista degli «Stati canaglia», dato il suo appoggio alla resistenza palestinese e alla sua alleanza strategica con gli Hezbollah e l’Iran? A questo titolo, la Siria è citata tra i sette paesi contro i quali «l’uso dell’arma nucleare è possibile». A coloro che credono nell’inazione delle forze occidentali in Siria e alla loro buona fede nella loro difesa dei civili siriani, conviene far ricordare che già un anno fa la NATO, l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico sotto comando statunitense, giurava su tutti i santi di volere agire sotto la «responsabilità di proteggere» il popolo della Libia, e prometteva di attenersi alla Risoluzione1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al fine di «impedire al dittatore Gheddafi di bombardare la sua popolazione», e che, immediatamente, la protezione dei cittadini libici si è trasformata in impegno militare in una guerra civile, in un colpo di stato, in attentati mirati e in bombardamenti alla cieca.

Ci si ricorderà anche che dopo aver annientato la città libica di Sirte, dove il leader libico si era trincerato, le forze della NATO lo hanno consegnato a bande di criminali che lo hanno torturato a morte. Questo sordido linciaggio è stato facilitato dagli Stati Uniti e dalla NATO, visto che in precedenza avevano dato la caccia e bombardato il suo convoglio. Tuttavia, Andres Fogg Rasmussen e i suoi compari, che hanno espresso soddisfazione per la morte di Gheddafi, avrebbero ripetuto per mesi che il leader libico non era il loro obiettivo. La cinica strategia degli USA e della NATO in Libia, che consisteva nel «non dire quello che si fa e non fare quello che si dice» è manifestamente quella che è stata scelta per la Siria. Effettivamente, e in via ufficiale, la NATO non ha l’intenzione di intervenire in questo paese. Rasmussen ha anche fatto presente che la sua organizzazione non armerà i ribelli.

Tuttavia, alcune e-mail da parte di una agenzia privata statunitense di spionaggio, la Stratfor Intelligence Agency, diffuse da Wikileaks il 27 febbraio scorso, indicano la presenza di forze speciali occidentali in Siria. Il verbale di una riunione, datato 6 dicembre 2011, sottintende che forze speciali sarebbero state presenti sul terreno alla fine del 2011. A questo proposito, una e-mail del direttore di analisi della Stratfor, Reva Bhalla, è inequivocabile.(21) Si parla di un incontro fra «quattro giovanotti, grado tenente colonnello, tra cui un rappresentante francese e uno britannico». Durante un colloquio della durata di quasi due ore, avrebbero accennato al fatto che squadre di Forze speciali erano già sul terreno, impegnate in missioni di ricognizione e nell’addestramento delle formazione delle forze di opposizione.

Gli strateghi occidentali riuniti negli Stati Uniti sembrano rifiutare l’ipotesi di un’operazione aerea sul modello Libia, e preferirebbero l’opzione di una guerra di logoramento attraverso attacchi di guerriglia e campagne di assassinio, in modo da «provocare un crollo del regime dall’interno». Avrebbero giudicato la situazione siriana molto più complessa di quella della Libia, e il sistema di difesa siriano molto più efficace, soprattutto per i suoi missili terra-aria SA-17 dislocati attorno a Damasco e lungo i confini con Israele e la Turchia. In caso di attacco aereo, l’operazione dovrebbe essere condotta dalle basi della NATO a Cipro. Queste le conclusioni dell’agenzia Stratfor. Se, finora, gli Stati Uniti non hanno mandato i loro bombardieri su Damasco, questo non è perché la conservazione del regime siriano gli conviene, ma perché questo regime non è un boccone facile. Comunque, fornendo il loro supporto ai gruppi armati, gli Stati Uniti si rendono nondimeno complici dei massacri in Siria. La NATO e gli Stati Uniti arrivano quindi a completare il simpatico quadretto familiare del terrorismo anti-siriano, a fianco delle monarchie del Golfo, dei mercenari libici, dei propagandisti salafiti e di Al Qaeda.

Conclusioni

Il terrorismo anti-siriano è una realtà che salta subito agli occhi, in senso proprio come in senso figurato. Il suo esordio arriva ben prima della primavera araba. Durante gli anni ‘70 e ‘80, i Fratelli musulmani siriani ne sono stati i principali attori. Dopo aver messo il paese a ferro e fuoco, furono schiacciati dall’esercito siriano, soprattutto ad Hama nel 1982. Il regime baathista puntava sui mezzi militari per sradicare questo flagello, ma come spesso accade, la repressione ha avuto al contrario l’effetto di prorogare o addirittura amplificare la minaccia. Con il ritiro siriano dal Libano nel 2005, i movimenti jihadisti si sono stabiliti e rafforzati nella regione libanese di Tripoli, quindi nei campi palestinesi del paese dei Cedri. Hanno ritrovato una nuova giovinezza e l’opportunità di prendersi la loro rivincita sul regime baathista, lanciando attacchi in territorio siriano. Poi hanno conosciuto una terza rinascita con la primavera siriana del marzo 2011.

Composti da tutte le nazionalità che popolano la regione, i movimenti jihadisti anti-siriani ostentano un radicale anti-nazionalismo, che non riconosce alcun limite territoriale. Quindi, non possono essere associati in senso stretto ad un solo paese della regione. Nelle loro fila si trovano Sauditi, Maghrebini, Giordani, Libici, ma perfino tanti Palestinesi ultraconservatori, che respingono l’idea di una lotta di liberazione nazionale in Palestina, mentre sono favorevoli ad una strategia di guerra di religione «contro gli Ebrei e i Crociati».

Questi gruppi politico-militari hanno causato danni significativi a molti movimenti di liberazione e a tutti i governi nazionalisti arabi. Ad esempio, in Iraq, i miliziani di Al Qaeda hanno ferocemente combattuto la resistenza sunnita che, comunque, combatteva contro le truppe usamericane. Attualmente, i governi libanesi e iracheni, alleati oggettivi del regime siriano e vittime di questi stessi gruppi armati, cercano di bloccare il passaggio di jihadisti verso la Siria. Ma la conoscenza del terreno da parte di questi ultimi, che dispongono di un appoggio logistico sofisticato da parte della NATO e dei suoi alleati del Golfo, rende le loro frontiere permeabili. Per esempio, alcune tribù sunnite transfrontaliere, che sono contro gli sciiti ed oggi ostili al regime di Damasco per motivi essenzialmente settari, trasportano armi, equipaggiamenti e combattenti dalla provincia irachena di Anbar verso il distretto siriano di Deir Ez-Zor.
Dunque, la NATO è del tutto coinvolta militarmente in Siria attraverso i suoi alleati arabi, ma anche, e soprattutto, tramite la Turchia che, secondo le dichiarazioni specifiche del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, è un attore di primo piano nella realizzazione del progetto statunitense del Grande Medio Oriente, un piano che mira ad abbattere le ultime sacche di resistenza anti Stati Uniti della regione. Evitare di raffrontare le scene di distruzione, di massacri e di desolazione che ci pervengono dalla Siria con quelle della guerra civile in Algeria degli anni ’90, diviene sempre più difficile. Tanto più che la Siria e l’Algeria, paesi faro del nazionalismo arabo, hanno entrambe governi politico-militari originati da una guerra di liberazione contro la Francia coloniale, ed entrambe si devono confrontare con un terrorismo della stessa natura. Gli jihadisti algerini erano veterani dell’Afghanistan che avevano combattuto contro le truppe sovietiche, come gli jihadisti oggi attivi in Siria hanno combattuto sui fronti iracheno, afghano o libico. Nell’Algeria degli anni’90, come nella Siria del 2012, i gruppi terroristici procedono ad una pulizia etnica, ideologica e metodicamente confessionale. Tuttavia, rimane una grande differenza tra i due paesi: pur costituendo una minaccia, il terrorismo algerino, malgrado tutto, è stato neutralizzato grazie a metodi politici basati sul dialogo e sulla riconciliazione. Uno degli architetti della pace in Algeria è stato Ahmed Ben Bella, eroe rivoluzionario e primo presidente dell’Algeria indipendente. Ben Bella ci ha lasciato l’11 aprile scorso. Osiamo sperare che la Siria possa trovare il suo Ahmed Ben Bella.

[Traduzione di Curzio Bettio]

Note
(1) Con un avvertimento: il presidente della Repubblica deve essere obbligatoriamente musulmano. Questo articolo della Costituzione è stato mantenuto nonostante la nuova riforma, per evitare di alienarsi la maggioranza musulmana del paese.

(2) A proposito delle menzogne sull’appartenenza religiosa dello sceicco Hassoune, vedere Envoyé Spécial, 19 gennaio 2012. A proposito di Ali Mamlouk, consultare Le Figaro, 31 luglio 2011.

(3) Sunday Telegraph, 29 ottobre 2011

(4) vedereU.S. Department of State, Foreign Terrorist Organizations,27 gennaio 2012

(5) Ulrike Putz,The Burial Brigade of HomsinDer Spiegel, 29 marzo 2012

(6) Maghreb Intelligence, 17 febbraio 2012

(7) Nir Rosen,Al Jazeera online, 13 febbraio 2012

(8) Georges Malbrunot,Le Figaro, 22 febbraio 2011

(9) Vicken Cheterian, Le Monde diplomatique, maggio 2010

(10) David Enders,McClatchy Newspapers, 1 aprile 2012

(11) Sabq(giornale saudita on line), 26 febbraio 2012

(12) The Jamestown Foundation, Terrorism Monitor, 2 dicembre 2005

(13) Peter Beaumont,The Guardian, 3 ottobre 2006

(14) Ayfer Erkul,De Morgen, 20 marzo 2012

(15) Ruth Sherlock,The Telegraph, 25 novembre 2011

(16) Robert Baer,La chute de la CIA: les mémoires d’un guerrier de l’ombre sur les fronts de l’islamisme(trad. Daniel

Roche deSee not evil, Three Rivers Press, New York, 2001) collezione Folio documents, Ed. Gallimard, 2002

(17) Hürriyet, 8 marzo 2012

(18) Intervista di Sibel Edmonds,Russia Today, 16 dicembre 2011

(19) Daniel Iriarte,Islamistas libios se deplazan a Siria para «ayudar» a la revolucion, 17 dicembre 2011

(20) Milliyet, 2 aprile 2012

(21) Russia Today, 6 marzo 2012

(FOTO) Giornata mondiale di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana!

Nota de prensa
El 24 de julio del 2012, centenares de compañeras y compañeros participaron en el contexto de las actividades de la “Fiesta de la Revancha Popular”, Parque Robinson, en Nápoles, Italia, http://festapopolare.altervista.org/.

La Asociación Art@GoNista que se hizo cargo de la organización del día, conjuntamente con la Red de las Organizaciones Sociales (ANROS de Venezuela, Circulos Bolivarianos de Italia y el Circulo Antonio Gramsci de Caracas, Red NoWar, P-CARC, SLL, ASP, PRC, ALBAinFormazione, entre otros) celebró de esta manera, con mesas redondas y con un concierto al final dedicado al internacionalismo proletario, el Día de la Solidaridad con la Revolución Bolivariana y
el Comandante Chávez, 229° aniversario del nacimiento del Libertador Simón Bolívar.

Fueron recopiladas firmas en solidaridad con el proceso revolucionario bolivariano y el evento vio la participación además de mujeres, hombres, jovenes, niños y niñas de Italia y Venezuela, también de Cuba y Siria, en el marco de la amistad y la solidaridad entre los pueblos en contra del imperialismo y sus guerras.

Galería de fotos del acto en Napoles, Italia

(VIDEO) ALBAinFormazione intervista Alexander Höbel (Ass. MarxXXI)

Il trionfo della Rivoluzione venezuelana è responsabilità dei popoli

Le sue conquiste sono conquiste di tutti… tutti a difenderla!

http://www.chavez.org.ve/temas/noticias/mensaje-urgente-venezuela/

di Fernando Buen Abad Domínguez*
[email protected]

Bisogna creare una rete di comunicazione mondiale. Nessuno me l’ha chiesto ma io suggerisco che in maniera massiccia si inviino piccole note, messaggi urgenti al popolo rivoluzionario del Venezuela. Non sarebbe sbagliato dire cose all’orecchio, cose da fratelli, da amore fraterno, di necessità e di urgenza. Frasi come ad esempio: “Venezuelani, compagni! il vostro voto è anche il nostro voto, in Bolivia, a Cuba, in Ecuador, in Nicaragua, in Colombia, in Messico… uscite e votate per tutti noi, andate e abbiate successo ancora una volta, con la vostra forza morale, con la vostra rivoluzione al galoppo, andate sempre più decisi e trionfate come si deve. Esprimere la solidarietà internazionale non significa annullare o ignorare le discussioni interne che possono avere un valore sostanziale, ma non devono impedire di moltiplicare i nostri sforzi sostenuti anche dalla mobilitazione dei paesi fratelli. Che nessuno se ne resti a casa sua, che nessuno si sottragga alle proprie responsabilità di votare, fatelo per tutti noi. Non è certo chiedere troppo!

Nessuno me l’ha chiesto, ma sento la necessità e l’urgenza (forse per non poter fare di più) di chiamare chi può e come può di trascinare tutti a connettersi con la patria venezuelana.

Trascinare per conoscerla e per ascoltarla, capirla ed andare a sostenerla in ogni modo e come si deve. Invitare, insomma, a far conoscere alla rivoluzione venezuelana quanto ci teniamo e di quanto abbiamo bisogno di un suo netto trionfo. Cosa certamente opportuna.

Il Venezuela ha portato la lotta di classe ad un livello più avanzato, cosa che è stata censurata in mille modi. Sarebbe quasi il caso di ringraziare i golpisti per i numerosi trucchi sporchi messi in campo, per la rapidità e per l’abiezione investita al fine di organizzare i loro attacchi perché ci semplifica, ci fa risparmiare sforzi e ci dà la comprensione del cammino della rivoluzione. Oggi è estremamente chiaro che la rivoluzione venezuelana beneficia tutti (tutti i proletari che ricercano l’unità) per ridurre la distanza tra la realtà che ci travolge e la coscienza di cui abbiamo bisogno per agire in modo corretto. Il popolo rivoluzionario del Venezuela si è proposto di distruggere la borghesia, grande esempio, fonte di ispirazione e risultato magnifico. Abbiamo bisogno che quest’esempio si espanda e si approfondisca. Per questo è necessario che votino tutti.

Le conquiste della rivoluzione venezuelana in materia di salute, alloggi, istruzione e lavoro… sono, tra mille cose, anche un dono e una scuola, nonostante la giovane storia della rivoluzione, cosa che ha prodotto benefici diretti e indiretti per molte compagne e molti compagni americani (e non solo). La lista è enorme, se solo si prende in considerazione il contributo delle “missioni” che aprono gli occhi sconfiggendo le malattie, aprendo gli occhi dell’anima e del pensiero.

Vediamo che il Venezuela con la sua rivoluzione socialista ci ha dato la certezza definitiva che la lotta per la dignità conduce al trionfo delle aspirazioni democratiche più profonde e sincere dei popoli. La parola di questo Venezuela rivoluzionario nel mondo di oggi è la parola della speranza e dell’impegno che ispira e risveglia. Dobbiamo riconoscere al Venezuela rivoluzionario questa forza simbolica, la sua ricca storia, i valori e la morale combattiva e guerriera che, nonostante tutte le contraddizioni, interne ed esterne, non perde la sua strada e non perdere la calma.

Vediamo le cifre; il Venezuela, anche al momento della peggiore crisi economica globale (causata dal capitalismo e dalle sue perversioni) mantiene il suo tasso di crescita reale e dei suoi principali programmi di sviluppo rivoluzionario. Nessun paese europeo, che si arroga il diritto di fregiarsi del titolo di “primo mondo”, è in grado (in questo momento) di vantare gli stessi risultati. Il Venezuela ha adottato misure energiche con la pianificazione economica subordinata al bene collettivo e subordinando la politica alla volontà democratica e alla giustizia sociale. Le cifre sono più che positive. Pochissimi possono vantare qualcosa di simile.

Per questo e molto altro, propongo che ci si assuma il compito di far sapere al popolo venezuelano quanto ci teniamo e quanto sia vitale per tutti noi una vittoria fortemente democratica nelle loro prossime elezioni. Far sapere loro, in mille modi, quello che abbiamo imparato e quali benefici abbiamo ottenuto grazie allo sforzo rivoluzionario del popolo venezuelano e al suo talento esemplare. Fate loro sapere che il loro trionfo è necessario nella misura in cui fanno ciò che molti altri non possono fare. Por ahora.

Si tratta di farlo sapere per incoraggiare i convinti, i dubbiosi ma anche i non convinti. Per mobilitare una contagiosa corrente mondiale di speranza affinché tutte e tutti vadano a votare alle prossime elezioni. Affinché si raggiungano cifre e numeri da record, affinché l’affluenza sia inedita. Che vadano a votare e che siano accompagnate e accompagnati dalla solidarietà di centinaia di popoli fratelli che sanno di essere beneficiati e corresponsabili per l’ascesa della rivoluzione e la sua proliferazione mondiale. Dobbiamo raggiungere ogni venezuelana e venezuelano parlando al suo cuore e al suo pensiero, ogni venezuelana e venezuelano che ha sulle spalle il compito di estendere ed approfondire, amplificare e radicalizzare la rivoluzione perché sappia quanto vale per noi all’estero, e quanto ci sta a cuore la sua opera collettiva e socialista. Che senta, pertanto, nelle sue mani (nel momento del voto), la storica responsabilità e il privilegio di avere la spinta fraterna e solidale di milioni di anime in tutto il mondo.

Si tratta di aprire uno spazio per una campagna internazionalista che racconti al Venezuela l’importanza del suo voto e quanto ci preme, in ogni paese, il suo successo esemplare alle prossime elezioni. Chiedere con tutti i mezzi di inviare messaggi al popolo rivoluzionario del Venezuela, per comunicare perché il loro voto sia così prezioso e perché la rivoluzione venezuelana ha una responsabilità internazionale. Dobbiamo trovare mille modi per far arrivare i messaggi… e poi replicarli per visualizzarli su tutti i media alternativi, comunitari e sociali, sulla stampa operaia, sulla stampa dei movimenti, delle università… blog, pagine twitter… L’idea è di generare un mobilitazione nell’ambito della comunicazione che raggiunga tutte e tutti (compresi gli indecisi) affinché votino, per accompagnare internazionalmente le elezioni poiché il trionfo del popolo venezuelano è il trionfo di tutti i popoli. Aiutiamoci.

* filosofo della comunicazione, Universidad de la Filosofía, Messico.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Ciro Brescia]

Un bagno nel fiume impetuoso della Rivoluzione Bolivariana


LA “RIVOLUZIONE BOLIVARIANA”

PARTE INTEGRANTE E MOMENTO PROPULSIVO DEL
MOVIMENTO DI PORTO ALEGRE

Appunti di viaggio del Teologo della Liberazione Giulio Girardi

(luglio-Agosto 2002)

PRIMERA E SEGUNDA PUNTATA

Prima puntata (non spaventatevi, le puntate saranno probabilmente solo due).

1 – CONTRADDIZIONI E PROSPETTIVE DEL FORO SOCIALE VENEZUELANO

La Habana-Cuba, 5 Agosto 2002

Compagne e compagni carissimi,

debbo anzitutto scusarmi con voi per questo mese di silenzio (dal 5 luglio, giorno della mia partenza da Roma al 5 agosto, data del presente messaggio). Il motivo di questo silenzio è molto semplice. Da quando ho messo piede in Venezuela (prima tappa del mio itinerario indo-afro-latinoamericano, sono stato travolto da una serie imprevista di impegni appassionanti, ognuno dei quali richiedeva anche un tempo di studio e di preparazione. Furono due settimane assai intense, destinate indubbiamente a segnare il futuro del mio impegno solidale, politico, culturale e teologico.

Sollecitato poi dal movimento delle donne bolivariane (INAMUJER), che mi invitarono al loro incontro internazionale di solidarietà, prolungai il mio soggiorno in Venezuela dal 16 al 22 luglio.

Il tempo per una prima pausa di riflessione e di condivisione l’ho trovato il 22 luglio, sull’aereo che mi portava da Caracas a La Habana. Pausa che si è poi prolungata molto più di quanto immaginassi, fino ad oggi 5 agosto. Pausa che cercherò di riaprire appena possibile per informare chi fosse interessato o interessata (succede) delle principali attività che ho potuto svolgere in Venezuela dopo la chiusura del Foro Sociale (sarebbe la IIa puntata che vi ho minacciato di scrivere).

Primo impatto, traumatico, con il Foro Sociale

Voglio però essere sincero e dirvi tutto. Il mio primo impatto con il Venezuela, in particolare con il Foro Sociale, è stato traumatico.

All’aeroporto di Caracas, dove sono giunto il 5 luglio, alle 15,35, nessuno mi aspettava. Solo grazie a due amici, funzionari dell’ambasciata di Cuba, potei far giungere la notizia del mio improvviso arrivo al Coordinamento del Foro Sociale, dal quale supponevo di essere stato invitato ed al quale supponevo di aver comunicato per posta elettronica la mia accettazione dell’invito con l’orario del mio arrivo.

Credo importante parlare di questi primi (ed ultimi) contrattempi, perché essi riflettono largamente la condizione di questo ed altri Fori Sociali. Esperienza che ha accentuato le mie preoccupazioni non certo per le idee ispiratrici dei Fori Sociali ma per il loro funzionamento concreto, per il loro spontaneismo e per la loro allergia all’organizzazione. Essi dovrebbero infatti essere luoghi di elaborazione e di costruzione “dal basso” dell’alternativa, ma spesso riproducono i vizi della vecchia sinistra: settarismi, egemonismi, rivalità interne. Non essendo organizzazioni realmente alternative, non potranno, se non maturano, costruire alternative di società né a livello locale né molto meno a livello nazionale e mondiale. Ma non per questo perdo la speranza.

Supponevo di essere stato invitato dal Foro Sociale, perché nel messaggio elettronico che mi aveva inviato la Fondazione FUNDEC (Fundación para la defensa de los derechos de los ciudadanos y las comunidades), firmato da Mario Neri, mi si invitava espressamente al Foro Sociale del Venezuela, facendo riferimento ad alcuni miei scritti (sui popoli indigeni, il debito estero, lo sviluppo locale sostenibile, il macroecumenismo ecc.), pubblicati nel sito del Gruppo Oscar Arnulfo Romero di Milano (gestito da D. Alberto Vitali e da Emma Pavoni). In essi, mi scriveva Mario Neri, italiano residente da trent’anni in Venezuela, membro di FUNDEC, avevano notato una sorprendente affinità tra la problematica che io affrontavo e quella sollevata dalla rivoluzione bolivariana. Affinità sorprendente per i Venezuelani, e più ancora per me.

Supponevo anche di aver comunicato per posta elettronica al Coordinamento la mia accettazione dell’invito e l’ora del mio arrivo. Ma, ho poi saputo, l’indirizzo elettronico che mi era stato comunicato era errato, per cui il mio messaggio non era giunto a destinazione.

I giorni che ho poi trascorso nel Foro Sociale, furono da un lato per me assai frustranti, dall’altro estremamente fecondi. Frustranti sul piano personale, perché, partito per dare un contributo al Foro Sociale, ne sono stato in realtà emarginato da burocratismi e rivalità interne, che accentuarono le mie preoccupazioni per il funzionamento dei Fori Sociali.

Mi sembra comunque emblematica ed istruttiva questa esperienza, per cui indugio nel descriverla. Informato dall’ambasciata di Cuba del mio arrivo e della mia attesa solitaria all’aeroporto, il coordinamento del Foro Sociale mandò due compagne a prelevarmi. Molto gentilmente le compagne mi informarono che il mio nome non figurava nella lista degl’invitati e che quindi i dirigenti dovevano riunirsi e decidere se era possibile utilizzarmi e, prima ancora, se era possibile alloggiarmi.

Le compagne mi condussero al Teatro Municipale, sede del Foro. Qui alcuni degli organizzatori mi chiesero se avevo i mezzi per provvedere al mio sostentamento durante il Foro. Risposi di no (non era vero), perché supponevo che essendo stato invitato, sarei stato anche alloggiato.

Nella sede del Foro potei finalmente entrare in contatto diretto con alcuni esponenti di FUNDEC, l’organizzazione che mi aveva invitato: Carmen Romero, presidente e Mario Neri, uno dei membri più attivi della Fondazione. Mi resi conto che FUNDEC partecipava al Foro Sociale, ma non era membro del coordinamento; che quindi non contava nella burocrazia del Foro.

Pertanto agli occhi del coordinamento l’invito da essa rivoltomi era nullo. Per questo io non figuravo nella lista degli invitati. Inoltre, la mia risposta di accettazione calorosa dell’invito, come ho ricordato, non era giunta a destinazione.

I membri di FUNDEC cercarono di convincere gli organizzatori del Foro che se anche la mia riposta, per un disguido postale, non era giunta, ero giunto io e che questa si poteva considerare una riposta. Ma i burocrati (alternativi?) non furono convinti. Il mio “caso” fu discusso in una riunione del coordinamento, nella quale prevalse l’opinione degl’intransigenti: non essendo stato invitato dal coordinamento, non avrei potuto prendere la parola in seduta plenaria. Mi comunicarono invece che un gruppo di lavoro era interessato a discutere con me sui diritti dei popoli indigeni.

Al momento però della riunione dei gruppi nessuno degli organizzatori si presentò per accompagnarmi e presentarmi ai miei presunti interlocutori.

Con molte difficoltà e con l’aiuto di Mario Neri, trovai il luogo di riunione dei gruppi; dove per altro nessuno mi aspettava. Uno dei coordinatori disse al mio accompagnatore che nessuno dei gruppi si occupava dei diritti indigeni, che però avrei potuto partecipare al gruppo impegnato sui diritti umani. Mi sedetti in questo gruppo. I suoi membri stavano discutendo vivacemente e continuarono tranquillamente la discussione.

Nessuno mi rivolse la parola. Dopo 10 minuti, era chiaro per me che la mia presenza in quel luogo non aveva nessun senso; che gli organizzatori avevano mentito nel dirmi che un gruppo era interessato a discutere con me sui diritti indigeni. Lo avevano fatto per sbarazzarsi di una presenza imprevista, che rompeva i loro schemi. Me ne andai insalutato ospite. A nessuno venne poi in mente di scusarsi per questo contrattempo.

Così si concluse la mia partecipazione “attiva” al Foro.

L’annuncio della mia presenza in Venezuela

Dagli organizzatori potemmo però ottenere una concessione importante: che uno di essi annunciasse pubblicamente, a nome di FUNDEC, la mia presenza nel paese e informasse delle attività che avrei svolto nei giorni successivi.

L’annuncio fu dato in questi termini: Il compagno e amico Giulio Girardi, filosofo e teologo della liberazione, è stato invitato in Venezuela da FUNDEC (Fondazione per la difesa dei diritti dei cittadini e delle comunità). Si fermerà nel nostro paese fino al 16 Luglio, giorno in cui partirà per Cuba, che considera la sua seconda patria. Egli intende esprimere al popolo venezuelano, in particolare alla Rivoluzione bolivariana, la calorosa solidarietà di molti e molte militanti d’Italia, particolarmente del Partito della Rifondazione Comunista, del suo segretario Fausto Bertinotti, e di settori significativi del Parlamento Europeo.

Nei prossimi giorni intendiamo valorizzare al massimo il suo contributo al nostro processo, che non gli è stato possibile offrire nel corso del Foro Sociale. Stiamo organizzando diversi incontri con lui. In essi egli affronterà alcuni temi che rappresentano piste importanti della sua riflessione attuale e che egli intende sottoporre all’attenzione del popolo venezuelano, per coinvolgerlo, se possibile, in una ricerca partecipativa.

Alcuni di questi temi sono i seguenti:

1. Resistenza e alternativa al neoliberalismo e ai terrorismi;
2. La Rivoluzione Bolivariana, parte integrante e movimento propulsivo del movimento di Porto Alegre;
3. Lo sviluppo locale sostenibile e il potere locale alternativo, asse strategico del movimento di Porto Alegre e della Rivoluzione Bolivariana;
4. I popoli indigeni, nuovi soggetti storici: Loro contributo al movimento di Porto Alegre e alla Rivoluzione Bolivariana;
5. Il protagonismo delle donne nella costruzione di un’alternativa globale di civiltà e particolarmente nella Rivoluzione Bolivariana;
6. Attualità della teologia della liberazione nel movimento di Porto Alegre e nella Rivoluzione Bolivariana.

Orari e luoghi di questi incontri saranno ampiamente pubblicizzati.
Invitiamo la popolazione a considerarli momenti importanti della sua partecipazione rivoluzionaria.

Questo annuncio segnò una svolta nella mia permanenza in Venezuela.

Appena uscito dalla sala di riunione, fui assalito da giornali, radio, televisioni ecc. che chiedevano interviste; da responsabili di associazioni che mi invitavano per conferenze e dibattiti. La fine del Foro Sociale fu per me l’inizio di un periodo estremamente attivo e fecondo. Delle principali attività in cui sono stato coinvolto, farò poi una rapida rassegna (in una seconda puntata). Vorrei prima spiegare perché, nonostante le mie disavventure, considero anche la partecipazione al Foro Sociale assai feconda.

Feconda anzitutto per i numerosi contatti che ho potuto prendere e che hanno reso possibili le iniziative dei giorni successivi e hanno creato la possibilità di future collaborazioni e pubblicazioni.

Incontri con gli italiani dei due schieramenti

Tra gli incontri che ho potuto fare in occasione del Foro Sociale, desidero ricordare in particolare quelli con italiani. La grande maggioranza degli italiani residenti in Venezuela è berlusconiana, e quindi simpatizzante dei golpisti, la piccola minoranza che l’11 aprile scorso ha tentato di deporre il presidente eletto da una larga maggioranza popolare, perché odia un presidente profondamente amato dal popolo; che lo odia, perché il popolo lo ama; una minoranza che disprezza il presidente di origine popolare, perché disprezza il popolo.

Gli italiani coinvolti nella Rivoluzione bolivariana sono molto pochi ed anche dispersi, non si conoscono tra loro. Credo che la mia visita sia stata utile almeno per questo (spero non solo per questo): ha permesso agli italiani che venivano a salutarmi, di incontrarsi e di conoscersi tra di loro. Forse è nato così un gruppo di italiani fiancheggiatori del presidente Chávez. Io mi sono sentito per pochi giorni ministro degli esteri interinale, (ma antagonista ed alternativo).

Questi italiani rivoluzionari si vergognavano di essere rappresentati da un presidente suddito di Bush, e mediocre come lui. Li ha rinfrancati l’apprendere che esiste in Italia un partito, piccolo ma appassionato ed appassionante, come Rifondazione Comunista, che è schierato con la Rivoluzione bolivariana. Tra di essi è stato molto apprezzato l’articolo, che hanno letto in internet, con cui Liberazione ha presentato il golpe contro Chávez, uno dei pochi articoli oggettivi, schierati con la maggioranza popolare e con il presidente costituzionale. (Per una volta nella vita, compagne e compagni, siamo in maggioranza).

Per puro caso ho avuto un incontro di segno diverso con la presenza italiana in Venezuela. Nel ristorante del mio albergo ho incontrato Donato Di Santo, che mi ha riconosciuto e salutato cordialmente. Ricordando che egli è (o almeno era) responsabile della solidarietà internazionale dei DS, mi sono rallegrato di questo incontro, pensando di aver trovato in lui (che ingenuo, caro Giulio) un alleato nella difesa della Rivoluzione bolivariana. Ma fui preso dal dubbio e gli domandai: sei qui per solidarietà con il presidente Chávez? Mi rispose stizzito: assolutamente no! Sono il più antichavista del mondo. La sera di quel giorno ho avuto una conferma della sua scelta di campo vedendolo a colloquio cordiale, nello stesso ristorante, con un noto golpista.

Di Santo era a Caracas, suppongo, per partecipare non al Foro Sociale, ma all’Internazionale Socialista per l’America Latina e il Caribe, schierata anch’essa dalla parte dei golpisti. Una buona notizia per Berlusconi: gli “ex-comunisti” che in Italia sono suoi rivali (così dicono) sono però suoi sicuri alleati in politica internazionale.

L’Internazionale Socialista, costituita dai delegati di 35 partiti socialdemocratici latinoamericani e caribegni, ed accompagnata da invitati d’Italia, Francia, Portogallo, Svezia e Spagna, confermò il suo appoggio a Acción Democrática e agli altri gruppi del Coordinamento Democratico dell’opposizione. Nella conferenza stampa tenuta a Caracas il 20 luglio, il segretario Generale dell’Internazionale non precisò se essa considera gli avvenimenti dell’11 aprile come un colpo di stato o solo come una pubblica manifestazione di dissenso democratico. Nello stesso tempo respingeva qualsiasi tentativo di rottura dell’ordine democratico come anche la militarizzazione della politica.

La sua analisi della situazione adottava in tutto e per tutto il punto di vista dell’opposizione. Constatava infatti l’indebolimento dello stato di diritto e delle sue istituzioni, l’incremento della violenza politica tra i cittadini, l’impunità nella violazione dei diritti umani, la mancanza di indipendenza dei pubblici poteri, la costituzione di gruppi civili armati in difesa del governo, creando un clima d’insicurezza e di instabilità sociale.

Ne emergeva, con l’appoggio della stampa, un’immagine rovesciata della realtà, secondo cui i golpisti diventavano difensori della democrazia e dello stato di diritto, il presidente costituzionale sequestrato diventava responsabile della violenza scatenata; i golpisti, rimasti impuniti, accusavano il presidente di favorire l’impunità nella violazione dei diritti umani.

Verso il convegno panamazonico di Belén do Parà (Brasile)

Tra gli incontri che ho potuto fare in occasione del Foro Sociale ricordo in particolare quello con il responsabile dei rapporti internazionali del Municipio di Belén do Parà. (Città nella quale avevo partecipato due anni fa ad un incontro internazionale promosso in collaborazione dal movimento zapatista e dal movimento dei Camponenses Sem Terra). Egli fece un intervento, nel quale annunciava per Gennaio 2003 un incontro panamazonico, preparatorio al Terzo Foro Mondiale di Porto Alegre. Gli feci sapere attraverso qualche amico che ero interessato ad incontrarlo; seppi che anch’egli era interessato ad incontrare me. In effetti, mi aveva conosciuto in occasione dell’incontro di Belén do Parà, cui avevo partecipato: portava con sé alcune copie degli atti di quel convegno, nei quali figurava anche un mio contributo sui popoli indigeni come nuovi soggetti storici. Mi assicurò che nel convegno panamazonico la problematica indigena sarebbe stata centrale, e che ad esso sarei stato invitato. Sono evidentemente molto interessato a parteciparvi.

L’incontro del Presidente Chávez con il suo popolo

L’incontro più importante reso possibile dal Foro Sociale è stato per me quello con il Presidente Chávez. Egli giunse per la chiusura, accolto con un entusiasmo ed un affetto indescrivibili, evidentemente sinceri, cui egli reagiva con grande spontaneità e semplicità.

Qualcuno gli aveva segnalato la mia presenza e una persona del seguito mi chiamò per presentarmi. Un abbraccio molto cordiale. Mi domandò se era la mia prima visita in Venezuela. Gli risposi che no, che ero già venuto, circa trent’anni fa, per un convegno di pedagogia. Ma, aggiunsi, da allora tutto è cambiato. “Sì, disse, e molto deve ancora cambiare. Ma tu fermati, dobbiamo parlare.” Si rivolse all’incantevole ministra della salute, che lo accompagnava, dicendole di prendere nota. Essa mi chiese il biglietto da visita e l’indirizzo a Caracas.

Nei giorni successivi potei assistere almeno tre volte a questi incontri del presidente con il popolo: incontri rappresentativi, mi pare, dello stato attuale della sua popolarità presso la maggioranza del paese.

Dopo questo bagno di folla, egli si sedette ad ascoltare attentamente le conclusioni cui erano pervenuti i diversi gruppi di lavoro del Foro. Due cose mi colpirono particolarmente in questa fase dell’incontro: un presidente che prende appunti ascoltando le conclusioni di un dibattito di base; un presidente che applaude anche quando la base critica severamente il governo. Del suo intervento conclusivo mi colpì una miscela di grande fermezza e di coscienza della sua fragilità. La convinzione che “nessuno potrà fermare il processo avviato” e la coscienza, al tempo stesso, di essere esposto al tradimento anche da parte delle persone più vicine (ricordò che durante il golpe, il suo cuoco aveva brindato a champagne).

Il Foro Sociale Nazionale, “capitolo venezuelano del Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre”

Ma il Foro Sociale non è stato importante per me solo a motivo di questi ed altri incontri. Lo è stato anche per i suoi contenuti. Per leggerli sinteticamente mi ha guidato il titolo ufficiale dato al Foro Nazionale: “capitolo venezuelano del Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre”. Titolo che per parte mia ho tradotto così: “La rivoluzione bolivariana, parte integrante e momento propulsivo del movimento di Porto Alegre”.

Il documento di convocazione del Foro e dichiarava tra l’altro: “Il Foro Sociale Nazionale si ispira al Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre (celebrato in Gennaio 2001 e Gennaio 2002) e per questo adotta la sua carta di principi”. “E’ un Foro di carattere nazionale, ma con una dimensione internazionale, relazionata con i movimenti internazionali planetari con il Foro Sociale Mondiale.”

La continuità con Porto Alegre era attestata anche da alcuni video assai espressivi del Secondo Foro Mondiale. Venne poi confermata dal discorso di apertura, tenuto dall’economista filippino Walden Bello, membro del Comitato Internazionale del Foro Sociale Mondiale. Essa era attestata soprattutto, a mio giudizio, dal programma del Foro, il cui titolo generale diceva: Per una democrazia partecipativa e protagonica.

La mattina di Giovedì 4 fu occupata da alcune relazioni che affermarono espressamente ed illustrarono la continuità con Porto Alegre. Rafael Alegria, honduregno, esponente del movimento contadino internazionale Via Campesina e Bernard Cassen, di ATTAC Francia, svolsero il tema: Da Porto Alegre al Venezuela, verso l’emergenza di uno spazio planetario di lotte e movimenti sociali. Animata Traore, ex ministra della cultura del Malì e Danielle Mitterand, Presidente della Fondazione “France Liberté” intervennero sul tema: Il Foro Sociale Mondiale, i Fori Regionali e Nazionali, incontri per la elaborazione di politiche alternative al neoliberalismo.

Oltre che la continuità con Porto Alegre, va segnalata subito la novità, anzi l’unicità di questo Foro Sociale: l’unico celebrato con l’appoggio del governo centrale e della presidenza della repubblica; l’unico il cui obbiettivo coincide nella sostanza con il programma di governo e trova, prima ancora, il suo fondamento giuridico nella carta costituzionale e in un gran numero di leggi applicative.

Punto centrale della convergenza fra la Rivoluzione Bolivariana e il movimento di Porto Alegre il riconoscimento del diritto di autodeterminazione solidale, considerato come essenza del mondo nuovo in costruzione. Il riconoscimento di questo diritto rappresenta il momento centrale della contrapposizione alla globalizzazione neoliberale, la cui essenza è invece l’affermazione del diritto di autodeterminazione imperiale del capitale finanziario transnazionale, e più radicalmente delle grandi potenze che lo governano e che per mezzo di esso governano il mondo.

La convergenza tra la Rivoluzione Bolivariana e il movimento di Porto Alegre si caratterizza, in altri termini, per il riferimento alla “solidarietà liberatrice” o anche alla “amicizia liberatrice”. Queste formulazioni esprimono in altro modo, l’articolazione e fecondazione tra autodeterminazione e solidarietà espressa dal fondamentale diritto di “autodeterminazione solidale”, formula che rende forse più esplicita l’ispirazione etica dei due movimenti.

Il diritto di autodeterminazione solidale è anche, nella Rivoluzione Bolivariana come nel movimento di Porto Alegre il cuore della scelta strategica di assumere come punto di partenza e fondamento della globalizzazione alternativa lo sviluppo locale e il potere locale alternativi.

Al tema del “potere locale, esercizio della democrazia partecipativa e protagonica, furono dedicate le relazioni di sabato 6 luglio, tenute da Marta Harnecker di Cuba, da Carla Ferreira, della Rete Sociale Mondiale del Brasile, da Luis Arnaldo del Municipio di Belén do Parà e dagli esponenti venezuelani Rafael Morales e Santiago Arconada. Allo stesso tema furono consacrati due gruppi di lavoro: quello su partecipazione cittadina e potere locale e quello su democrazia economica: microfinanze, cooperativismo, terre e sviluppo rurale.

Pertanto, nella caratterizzazione del mondo nuovo in costruzione sono altrettanto essenziali la definizione dell’obbiettivo e quella della strategia. In effetti, una delle intuizioni più importanti dei due movimenti è che fra l’obbiettivo di società e la strategia orientata a perseguirlo deve esistere una rigorosa coerenza. Solo attraverso una strategia partecipativa sarà possibile costruire una società partecipativa.

Uno dei più gravi errori della vecchia sinistra (che si sta oggi tentando di correggere) è stata appunto la pretesa di costruire una società democratica con metodi autoritari; di costruire una società alternativa con metodo non alternativi. E’ in altre parole, la strategia avanguardista:

la pretesa cioè delle organizzazioni rivoluzionarie di essere le protagoniste della trasformazione sociale e della nuova società; la pretesa, in altre parole di costruire l’alternativa dall’alto. Ora, il mondo nuovo si contrappone non solo alla società capitalista ma anche alla società socialista costruita dall’alto; o, in altre parole al modello avanguardista di socialismo. Si potrà certamente discutere se l’abbandono dell’avanguardismo significhi l’abbandono del marxismo o un suo sviluppo.

Ma la questione è, a mio giudizio, secondaria. L’importante è stabilire, alla luce di nuove esperienze, se la nuova strategia sia più efficace nella costruzione dell’alternativa.

Un altro capitalismo (democratico e solidale) è possibile?

La convergenza di obbiettivi e di strategia tra la Rivoluzione Bolivariana e il movimento di Porto Alegre non è però totale; o per lo meno, non lo è ancora. In effetti il movimento di Porto Alegre è, nei suoi obbiettivi e metodi decisamente anticapitalista e antimperialista. Lottare contro il neoliberalismo significa per esso lottare contro le strutture e la logica del capitalismo. Il presupposto implicito di questa opzione è che il capitalismo non è riformabile e che pertanto a livello mondiale un capitalismo dal volto umano non è possibile.

Invece, la costruzione di un capitalismo dal volto umano sembra il progetto della rivoluzione bolivariana.

E’ significativo in questo senso il fatto che Walden Bello, cui è stato affidato il discorso inaugurale, abbia fatto parte del gruppo di lavoro “Democratizzare il capitale”.

Tra le relazioni del mattino di sabato 6 luglio, quattro furono dedicate al tema “Democratizzare il capitale, per una democrazia alternativa e solidale”. Esse sono tenute dallo stesso Walden Bello, da Carlos Gavetta di ATTAC Argentina, dal Padre Manolo, da Judith Valencia.

Inoltre il sottogruppo di “Economia sociale, cooperativismo e autogestione” del gruppo di Democrazia Economica afferma tra l’altro nelle sue conclusioni: “Per parlare di economia sociale si assume il concetto di economia solidale, più adeguato per conseguire un capitalismo dal volto umano”. Dall’insieme del progetto, si desume che “capitalismo dal volto umano o umanizzato” significhi democratico e solidale. Significa, in altre parole, un capitalismo rispettoso del diritto di autodeterminazione solidale delle persone e dei popoli, che viene per ciò stesso dichiarato possibile.

Pertanto, la Rivoluzione Bolivariana si proclama antineoliberale, ma non espressamente anticapitalista. Questa distinzione tra antineoliberalismo e anticapitalismo si può interpretare in due modi. Si può pensare che essa intenda lasciare aperta la possibilità oggi di un capitalismo non liberista, limitandosi a condannare il capitalismo liberista, selvaggio e autoritario. Dicendo che “un altro mondo è possibile si intenderebbe affermare che “un altro capitalismo è possibile”.

L’altra interpretazione è quella che considera la scelta antiliberista come la prima tappa di un processo, il cui sbocco sarà la scelta anticapitalista. L’opportunità di questa distinzione tattica può essere suggerita dall’esigenza di evitare, almeno in un primo tempo, di prestare il fianco all’accusa di comunismo, che scatterebbe immediatamente contro chi si professasse apertamente anticapitalista, antimperialista e socialista.

Secondo questa interpretazione quindi, la Rivoluzione Bolivariana non riconoscerebbe la possibilità di un capitalismo solidale e democratico, ma ritiene che la contraddizione tra questi obbiettivi non debba essere affermata a priori, ma che debba esplodere praticando coerentemente il diritto di autodeterminazione solidale, esercitando concretamente la sovranità, la partecipazione e la solidarietà. L’esperienza infatti dimostra e dimostrerà sempre più chiaramente che l’esercizio coerente della sovranità, della partecipazione e della solidarietà trova nel capitalismo e nell’imperialismo un ostacolo insuperabile. E che quindi esso diventa possibile solo rompendo la logica di questa sistema. Tendo per parte mia ad appoggiare questa ultima interpretazione. Secondo la quale si tratterebbe, nel caso della Rivoluzione Bolivariana di una scelta non formalmente ma virtualmente anticapitalista, o, in altri termini, di un anticapitalismo e antimperialismo processuali. Interpretazione coerente con la strategia sia della Rivoluzione Bolivariana sia del movimento di Porto Alegre, che considera la scelta dell’alternativa di società non come una rottura repentina, ma come un processo; non come la conquista del cielo por assalto, ma come la scalata, lunga e faticosa di una montagna, animata dalla scoperta incessante di nuovi orizzonti.

L’anticapitalismo e antiimperialismo processuale caratterizzano anche mi pare, la splendida costituzione bolivariana, che credo di poter considerare come la prima costituzione del mondo nuovo, sia per molti dei suoi contenuti sia per il metodo popolare partecipativo con cui è stata elaborata.

Convergenza nel “anti-imperialismo sostanziale” e nell’internazionalismo popolare

L’”anti-imperialismo sostanziale” è quindi un altro terreno di convergenza tra la Rivoluzione Bolivariana e il movimento di Porto Alegre. Ancora una volta il termine “anti-imperialismo” non figura, mi pare, né nella costituzione bolivariana, né nel documento finale dei movimenti sociali di Porto Alegre. Non figura il termine, ma figura la sostanza, espressa, per esempio, nella coppia difesa della sovranità nazionale e rifiuto belligerante dell’ALCA (Area Latinoamericana di Libero Commercio).

Certo, la “difesa della sovranità nazionale” può essere, ed è spesso per tanti paesi, una rivendicazione puramente formale, considerata compatibile con la protezione del Grande Fratello. Ma iniziative come il rifiuto militante dell’ALCA ne esplicitano la dimensione antimperialista ed internazionalista. L’ALCA è infatti il tentativo degli Stati Uniti di unificare l’America Latina sotto il suo tallone; è, in altre parole, il principale progetto imperialista continentale degli Stati Uniti.

Tra la Rivoluzione Bolivariana e la Rivoluzione Cubana

Scrivo queste pagine a Cuba, dove sono arrivato il lunedì, 22 luglio. Oggi, 26 luglio, ricorre il 49° anniversario dell’assalto alle caserme Moncada e Carlos Manuel de Céspedes, che è la principale festa della Rivoluzione Cubana. Quell’assalto è infatti considerato l’avvio della fase culminante della rivoluzione, la prima delle vittorie che condussero alla presa del potere e che segnarono poi le tappe principali della rivoluzione.

La festa si celebra ogni anno solennemente in una città diversa: in quella cioè che, a giudizio del Comitato Centrale del Partito, risulta vittoriosa nella gara di “emulazione socialista”. Quest’anno l’onore è toccato a Ciego de Avila, capitale della provincia di Camaguey.

Il 25 luglio, tutti gl’invitati internazionali furono trasferiti in autobus (un viaggio di cinque ore) il 25 luglio da La Habana a Morón, città vicina a Ciego de Avila: dove fummo accolti in albergo, con grande cordialità e generosità e dove pernottammo. L’indomani mattina presto un breve viaggio di tre quarti d’ora in autobus ci condusse a Ciego de Avila per la solenne commemorazione.

Una manifestazione animata dalla consegna stimolante: Idee, Popolo e Socialismo. Una manifestazione vissuta con grande intensità da un popolo rivoluzionario, fiero delle sue conquiste e deciso a difenderle, fortemente identificato con il suo “Comandante in capo” e con il Partito.

Osservai qualche timido accenno al dopo-Fidel: al grido, frequentemente scandito di “Viva Fidel!”, veniva spesso associato un “Viva Raúl!”; al “grazie, Fidel!” veniva associato un “grazie, Raúl!”. Una consegna decisamente nuova: “Non importa il capo. Ciò che importa è il popolo e il socialismo!”

Comunque, il dopo-Fidel sembra ancora lontano. (più lontano, speriamo, del dopo-Bush). Un Fidel in splendida forma fisica e intellettuale ha concluso la manifestazione. Un breve discorso di circa un’ora e mezza: un’analisi lucida e rigorosa della globalizzazione neoliberale, dal punto di vista dei popoli oppressi. Un bilancio moderatamente positivo, convincente, della Rivoluzione. Una miscela esplosiva di polemica, di fiducia e di umorismo.

Ma l’effervescenza del contesto cubano mi induce a riflettere sulle convergenze e le differenze tra la cinquantennale Rivoluzione Cubana e la nascente Rivoluzione Bolivariana. Convergenza nella rivendicazione del diritto di autodeterminazione solidale, nel riconoscimento della solidarietà liberatrice come sorgente etico-politica d’ispirazione, nella individuazione del protagonismo solidale del popolo come essenza della nuova società, nell’anticapitalismo ed anti-imperialismo sostanziali, nella resistenza all’aggressione imperialista, nella promozione di un internazionalismo popolare, nel riconoscimento effettivo del diritto di tutti alla salute, all’educazione, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla giustizia. Convergenza anche nella rabbia incomposta che la dignitosa rivendicazione di autonomia desta fin dal primo momento nell’imperialismo statunitense, inducendolo ad appoggiare con tutti i mezzi la mafia cubana di Miami e gli squallidi golpisti del Venezuela: la rabbia che destano nelle trame oscure dell’impero diventa per i movimenti sociali e politici un segno di autenticità etica e democratica.

Le differenze fondamentali si collocano, mi pare, a livello strategico. La Rivoluzione Cubana ha avuto come protagonista un movimento guerrigliero, un’avanguardia che ha conquistato il potere di stato con la lotta armata, appoggiata da una sollevazione popolare, e che a partire da questo potere è venuta realizzando la trasformazione della società.

L’instaurazione quindi della nuova società ha avuto un avvio repentino nella conquista militare del potere e poi nella proclamazione del carattere socialista della società. La trasformazione avvenne cioè “dall’alto”, per opera di questo potere centrale, che contava però su un consenso largamente maggioritario e che si avvale di un partito comunista fortemente disciplinato e centralizzato.

Condizione essenziale del successo e della resistenza era e rimane l’unità dei rivoluzionari. Per altro, lo stato d’assedio e di guerra cui il paese è stato sottoposto fin dal primo momento ha obbligato ad interpretare tale unità con una certa rigidità: partito unico, centralizzazione della stampa, della radio e della televisione.

L’avanguardismo della strategia si riflette inevitabilmente sul centralismo dell’organizzazione dello Stato e del Partito, e sulla conseguente ipertrofia dell’apparato burocratico, appoggiati però sempre su un consenso largamente maggioritario.

Nella valutazione della strategia rivoluzionaria cubana non è evidentemente lecito procedere come se si trattasse di un paese in condizioni di pace e di normalità. I critici più esasperati della società cubana, gli Stati Uniti, costituiscono con lo stato di guerra e di emergenza che le impongono da cinquant’anni e con i metodi terroristi che praticano nei suoi confronti, l’ostacolo più grave alla sua piena democratizzazione. Il caso di Cuba è però rivelativo di un problema dalle dimensioni universali. Su scala mondiale gli Stati Uniti, in cui molti, anche in Italia, vedono il modello della democrazia, sono in realtà un modello di società violentemente autoritaria, sono i distruttori di tutti i tentativi di costruzione della democrazia nel continente e nel mondo, rappresentano l’ostacolo più serio alla costruzione di un mondo diverso, anzi alla stessa convinzione che “un mondo diverso è possibile”.

Inoltre, in questa valutazione della strategia rivoluzionaria cubana, non si può prescindere dal fatto che, bene o male, il centralismo ha consentito alla Rivoluzione Cubana di resistere per cinquant’anni a una così violenta, prolungata e criminale aggressione.

Nella ricerca oggi decisiva di un’alternativa strategica, non è sufficiente riflettere sulla necessaria coerenza fra la strategia e il progetto di società; è anche indispensabile riflettere sulla coerenza fra strategia e resistenza. Problema decisivo per tutto il movimento di Porto Alegre. Decisivo in particolare per la Rivoluzione Bolivariana: perseguendo la strategia partecipativa, pluralista e non violenta che ha scelto, ispirandosi al suo progetto di società, non dovrebbe dimenticare che il progetto è minacciato dalla violenza esterna ed interna; e che quindi un criterio essenziale nella elaborazione della sua strategia dev’essere il consolidamento della capacità di resistenza.

UN BAGNO NEL FIUME IMPETUOSO DELLA “RIVOLUZIONE BOLIVARIANA”

PARTE INTEGRANTE E MOMENTO PROPULSIVO DEL
MOVIMENTO DI PORTO ALEGRE

Seconda Puntata (ed ultima, per ora)

2-TRA GOLPISMO E MOBILITAZIONE POPOLARE

Limiti del processo venezuelano e rigurgiti di golpismo

In questa seconda puntata, mantengo il titolo ottimista che, nel calore della scoperta di questo processo, ho dato alla mia cronaca, parlando, con il linguaggio di molti/e militanti venezuelani/e per l’alternativa, di ” rivoluzione bolivariana”. Ma sento ora il bisogno di mettere questa espressione tra virgolette.

Mi induce a farlo la presa di coscienza dei limiti di questo progetto di alternativa che sarebbe precipitato chiamare rivoluzionario. E’ possibile che lo diventi, ma bisogna riconoscere che per ora non lo è. Sia perché, come ho rilevato precedentemente, non si presenta formalmente come alternativo al capitalismo, ma al neoliberalismo, avallando l’ipotesi di una possibile umanizzazione e democratizzazione del capitalismo; sia perché la presenza nel paese di un forte settore imprenditoriale, reazionario e golpista, appoggiato dagli Stati Uniti, da alti gradi delle forze armate, da elementi della magistratura, da settori della polizia e dalla quasi totalità dei mezzi di comunicazione di massa, renderebbe improponibile, impraticabile e controproducente una rottura formale con il sistema.

Mi hanno stimolato in questa presa di coscienza da un lato la lettura attenta di alcuni documenti programmatici, in primo luogo della costituzione, dall’altro alcune osservazioni dell’ambasciatore del Venezuela a Cuba, Julio Montes, personaggio decisamente schierato con il presidente Chávez (Si trovava nel palazzo presidenziale nei giorni del golpe). Egli intervenne ad una conferenza che, su richiesta di alcuni internazionalisti presenti a Cuba, ho tenuto sul tema: “La rivoluzione bolivariana, parte integrante e momento propulsivo del movimento di Porto Alegre”. L’ambasciatore giunse quando avevo già iniziato a parlare: tanto che io, salutando l’assemblea e sottolineando la sua larga internazionalità (cubani/e, cileni/e, argentini/e, colombiani/e, palestinesi, salvadoregni/e, portoricani/e ecc.) avevo però lamentato l’assenza di venezuelani/e. Parlai quindi in presenza dell’ambasciatore, ma senza saperlo e quindi senza nessuna prudenza diplomatica; rilevando sia il potenziale di questa esperienza sia la sua fragilità.

Il primo intervento nel dibattito fu appunto quello dell’ambasciatore. La compagna cilena che coordinava l’incontro salutò il suo arrivo e lo invitò a prendere la parola. Egli cominciò dicendosi quasi totalmente d’accordo con la lettura che avevo proposto dell’esperienza venezuelana. Ma insistette molto più di quanto non avessi fatto io nel rilevarne i limiti, dichiarando espressamente che si trattava di un “processo” bolivariano, ma non di una rivoluzione. Mi invitò poi a visitarlo in ambasciata per approfondire lo scambio di vedute.

Tra le osservazioni che egli formulò per illustrare i limiti dell’esperienza venezuelana ricordo anzitutto l’assenza di un partito capace di dirigere politicamente la transizione e di rappresentare un punto di riferimento unitario dei molteplici movimenti sociali alternativi. Il partito V Repubblica, disse, è stato un efficace movimento elettorale, ma è lontano dal costituire un partito politico unitario. L’assenza del partito della transizione è legata all’assenza di una precisa strategia della transizione. Il primo limite dell’esperienza sarebbe pertanto quello del movimentismo, inteso come mobilitazione popolare imperniata esclusivamente sui movimenti, rispettando la loro diversità ed autonomia, e rifiutando di riconoscere il ruolo unificante e dirigente dei partiti. Problema, questo, che, a mio giudizio, investe l’intero movimento di Porto Alegre. Di esso quindi la “rivoluzione bolivariana” condivide non solo il potenziale ma anche i limiti.

L’assenza di una strategia per la transizione rappresenta, osservò l’ambasciatore, anche un limite della costituzione bolivariana. Essa traccia un quadro assai suggestivo della società alternativa, ma non si preoccupa di dettare delle norme per il periodo di transizione, durante il quale il progetto è gravemente minacciato. Questo vuoto legislativo sembrava fornire una parvenza di fondamento alle incertezze del Tribunale Supremo di Giustizia, chiamato a giudicare i quattro alti ufficiali, coinvolti nei “disordini” del 12 aprile; incertezze che sarebbero state superate pochi giorni dopo con la scandalosa sentenza assolutoria, secondo la quale i quattro imputati non avevano compiuto un colpo di stato, ma avevano operato “per ristabilire e mantenere l’ordine”. Sentenza che assolve anche tutti gli altri ufficiali accusati di ribellione.

Tutti rimangono quindi in libertà. Secondo questa sentenza, i cui autori mancano evidentemente (tra le altre cose) del senso dell’umorismo, il presidente non è stato prigioniero dei golpisti, ma “posto sotto la loro protezione”.

L’infondatezza, anzi la clamorosa stupidità di una simile sentenza, emerge chiaramente anche dalla dichiarazione rilasciata dal Presidente la vigilia della sua proclamazione: “Come, non c’è stato colpo di stato! Io sono stato fatto prigioniero, l’Assemblea Nazionale e il Tribunale Supremo di Giustizia sono stati soppressi con un tratto di penna, governatori e deputati sono stati arrestati, delle persone sono state assassinate, e voi (magistrati del Tribunale Supremo di Giustizia) direte che non c’è stata ribellione militare?”.

Molto giustamente quella sentenza venne considerata dall’opinione pubblica democratica un secondo colpo di stato o una seconda fase di un colpo di stato condotto per tappe. Una terza fase dovrebbe essere, si prevede, l’incriminazione da parte del Tribunale supremo di Giustizia, dello stesso presidente: egli verrebbe accusato di un “delitto di lesa umanità”, la morte di 18 persone nel conflitto a fuoco esploso l’11 aprile in occasione di una marcia dell’opposizione (durante la quale, nota bene, il presidente era prigioniero dei golpisti).

Ma, come la prima fase del colpo di stato, la seconda sta suscitando una vigorosa reazione popolare. La più solida garanzia della rivoluzione bolivariana è appunto questa presa di coscienza, da parte della maggioranza popolare, di essere la detentrice della sovranità; è al tempo stesso la certezza del presidente di poter contare su questa presa di coscienza.

Tale certezza ispira oggi evidentemente il suo comportamento, molto più deciso che in altre occasioni. Egli dichiarò che la sentenza era “una pugnalata inferta al popolo”, annunziando però “un contrattacco da parte del popolo e delle istituzioni veramente democratiche”. Sottolineò quindi la necessità di “attivare i meccanismi istituzionali della sovranità popolare, per sottrarre il paese all’arbitrio”.

Dichiarò inoltre: “E’ finito il tempo di magistrati e magistrate che operano contro il sentimento nazionale”. La sentenza assolutoria dei golpisti “sta generando una reazione popolare impressionante, che passerà alla storia”.

Ricordò che i membri del Tribunale Supremo di Giustizia sono stati eletti dal Congresso, il quale ha quindi il diritto e il dovere di valutare il loro operato. In effetti, l’assemblea Nazionale votò una mozione, che decideva di aprire un’inchiesta sul potere giudiziario e su ciascuno dei magistrati.

Per scatenare l’offensiva costituzionale e popolare contro quella sentenza, il presidente colse l’occasione del secondo anniversario della sua elezione, celebrato domenica 18 agosto.

Quel giorno, egli tenne da Maracay la sua trasmissione settimanale “Alò, Presidente!”, nel corso della quale invitò la popolazione ad un “cazerolazo” (forma di protesta popolare espressa al suono di casseruole e di altre armi non violente) per la notte del martedì successivo e ad una manifestazione nel quartiere popolare di Petare, al est di Caracas; annunciò inoltre per il giorno dopo la celebrazione di una messa “di gioia” nella cattedrale, per celebrare i suoi due anni di governo. Conclusa la trasmissione, egli prese la testa di una carovana di macchine, che percorse il centro del paese, per la strada che unisce Maracay a Valencia.

La “Coordinadora democrática” dell’opposizione annunciò per i giorni successivi una serie di manifestazioni di protesta. L’impunità dei golpisti, che consente loro di continuare ad organizzare marce di protesta, esigendo pubblicamente le dimissioni del “presidente-dittatore”, del “presidente-assassino” e che da questa impunità sono incoraggiati ad organizzare altri colpi di stato, proietta sul governo e sul suo progetto un’immagine preoccupante di debolezza e fragilità. Nello stesso tempo però la solidità del governo e del suo progetto è confermata dalla mobilitazione non violenta di quel popolo, che ieri aveva liberato il presidente dalle mani dei golpisti e che oggi si ribella massivamente contro la loro assoluzione.

Al fianco delle protagoniste e dei protagonisti della “rivoluzione bolivariana”. Su questo trasfondo si è svolta la parte più lunga ed impegnativa del mio soggiorno venezuelano, dall’8 al 21 luglio. Essa fu segnata dalla collaborazione sia con la presidenza della repubblica sia con diversi movimenti sociali schierati con la “rivoluzione bolivariana”.

La Fondazione FUNDEC, che, come ho ricordato precedentemente,aveva poco influsso sul Foro Sociale, era invece molto vicina alla presidenza della repubblica. L’ufficio stampa della presidenza provvide ad ospitarmi in albergo e favorì la mia partecipazione a varie iniziative, in particolare al dialogo del presidente con il popolo nella trasmissione televisiva “Aló presidente!”. L’8 luglio fui ricevuto dal responsabile dell’ufficio stampa. Con lui e con altri collaboratori e collaboratrici della presidenza potei concordare il mio piano di lavoro per i giorni successivi. Entrai alle 3 del pomeriggio nel palazzo presidenziale di Miraflores e vi rimasi fino alle 10 di sera, prendendo diversi contatti. Potei così conoscere dall’interno il clima di effervescenza in cui vivono i più stretti collaboratori del presidente e la viva simpatia con cui viene accolta la solidarietà internazionale. Questa fu in particolare l’occasione per incontrare la responsabile internazionale dei “circoli bolivariani”, istanze di base del movimento che promuovono a livello locale la partecipazione popolare Nella stessa sede incontrai anche un gruppo di internazionalisti spagnoli, che stanno promuovendo nel loro paese una “piattaforma bolivariana”. Con essi cominciammo a riflettere sulla possibilità di promuovere i circoli bolivariani su scala europea.

Le principali attività che ho svolto nei giorni successivi sono state:

1) L’incontro con i cristiani e le cristiane schierati/e con la
“rivoluzione bolivariana”;
2) L’incontro con le donne bolivariane;
3) L’incontro con deputati/e e dirigenti indigeni/e;
4) L’incontro con il “comando politico della rivoluzione”;
5) Incontri con settori diversi della popolazione bolivariana;
6) Partecipazione a trasmissioni televisive e radiofoniche;
7) Incontri con il presidente.

Incontro con i cristiani e le cristiane schierati/e con la “rivoluzione bolivariana”

Il 10 luglio, alle 18,30 nel teatro municipale del quartiere popolare di Petare a Caracas, ebbe luogo l’incontro con le comunità cristiane di base, la JOC (Gioventù operaia cattolica), Fundalatin (gruppo ecumenico), ecc. sul tema: “la rivoluzione bolivariana, segno di contraddizione nelle chiese: tra cristianesimo imperiale e cristianesimo liberatore”.

Di questo dibattito, ricordo in particolare un momento destinato forse a segnare il futuro del cristianesimo venezuelano. Qualcuno mi domandò: “Perché i teologi della liberazione non si interessano dell’esperienza venezuelana?”.

La mia risposta fu duplice. “In primo luogo, nel mio caso e, credo, in quello di altri e altre, non ci siamo occupati finora dell’esperienza venezuelana perché non la conoscevamo. Per parte mia, seguivo le vicende del presidente Chávez con viva simpatia perché era combattuto dagli Stati Uniti ed era amico di Cuba. Ma non avevo capito prima d’ora, che egli si batteva per un progetto alternativo di società. In questa visita al Venezuela ho scoperto la rivoluzione bolivariana, e sento che questa scoperta segnerà il mio impegno politico, culturale e teologico nei prossimi anni”.

Ma la mia risposta principale è stata un’altra. “Un’autentica teologia della liberazione non è mai un prodotto d’importazione. Essa dev’essere un prodotto autoctono, scaturito dalle lotte e dalla riflessione cristiana delle comunità locali e dei loro teologi. Teologi di altri paesi possono certamente collaborare con questa impresa, ma non possono e non debbono esserne i protagonisti. Io quindi rovescio la vostra domanda: come mai dall’esperienza venezuelana non è nata finora una teologia della liberazione? Non sarà il caso di progettare per i prossimi anni una riflessione orientata nel senso di una teologia bolivariana della liberazione?”.

Sull’argomento seguì un vivace dibattito, concluso con l’impegno, da parte dei venezuelani e delle venezuelane, di approfondire e sviluppare in questa direzione la loro riflessione, della quale, mi dissero, esistono già dei germi fecondi.

In una successiva riunione che ho avuto con questi gruppi, in particolare con Fundalatin fui informato di un loro progetto: quello di un convegno di teologia bolivariana della liberazione per aprile del 2003; convegno al quale m’invitarono a partecipare.

Incontro con le donne bolivariane

Il movimento delle donne è probabilmente la forza principale su cui può contare la “rivoluzione bolivariana”. Dell’importanza decisiva di questo movimento il presidente Chávez è convinto: esiste tra lui e le donne organizzate un rapporto di reciproca fiducia, ravvivata da una forte carica affettiva.

Per parte mia, concludendo il mio soggiorno venezuelano, debbo constatare che nella scoperta ella “rivoluzione bolivariana” le donne organizzate sono state la mia principale guida.

Il primo incontro con questo movimento, l’ho avuto in un seminario tenuto presso INAMUJER (Instituto Nacional de la Mujer) sul tema: “Il protagonismo delle donne nella costruzione di un’alternativa di civiltà e particolarmente nella Rivoluzione Bolivariana”.

L’accoglienza al mio contributo, di maschio femminista, è stata assai calorosa (non ho mai ricevuto tanti baci in vita mia). Tra i segni della loro incidenza sul processo bolivariano, le donne ricordarono particolarmente l’influsso che hanno esercitato sulla redazione della nuova costituzione. Influsso esercitato sia sui contenuti, per esempio nel riconoscimento dei diritti specifici delle donne, in particolare nella valorizzazione del lavoro domestico; sia anche sullo stile, ispirato ad una sensibilità di genere. Per quanto mi consta, è la prima costituzione redatta con questa sensibilità. Espressione di una vittoria linguistica del femminismo, che è simbolo ed annuncio di altre vittorie.

Concludendo il dibattito, le donne mi informarono che avevano in programma, per il 18 e 19 luglio, il Primo Incontro Internazionale di Solidarietà, sul tema: “il Venezuela costruisce un cammino di speranza” e m’invitarono a parteciparvi come relatore. Io avevo previsto di partire per Cuba il 16, ma mi lasciai persuadere dalle loro insistenze a rinviare la partenza. Di questo incontro, organizzato dalle donne, ma aperto a tutti, parlerò in seguito.

Incontro con deputati/e e dirigenti indigeni/e

Il mio desiderio sarebbe stato di avere uno o più incontri con rappresentanti del movimento indigeno. Non è stato possibile organizzarli. Ho potuto invece assistere, nella sede del Parlamento Latinoamericano, ad una riunione di deputati della commissione permanente dei popoli indigeni.

Riunione che ho trovato estremamente interessante per due opposte ragioni, una positiva e una negativa.

L’interesse positivo della riunione sta nel fatto che essa era dedicata a discutere un progetto di legge (più esattamente un ante-progetto) sui popoli e le comunità indigene. Progetto che, per quanto conosco, è tra i più avanzati del continente; così come lo sono gli articoli dedicati ai popoli indigeni dalla costituzione bolivariana. Ho trovato però che mancava in questo progetto il riconoscimento dei diritti specifici delle donne indigene. La prospettiva di genere, che ispira tutta la costituzione, non è ancora penetrata nella legislazione riguardante i popoli indigeni. Non a caso della commissione permanente, di una decina di membri, faceva parte solo una donna.

L’interesse negativo che ho trovato in questa riunione è dovuto allo spirito burocratico che mi pare rischi di infettare anche gli indigeni e le indigene, quando entrano nella dinamica e nella logica delle istituzioni borghesi. Ho potuto in questa occasione verificare personalmente la realtà di questo rischio. Aprendo la riunione della commissione, il presidente salutò la mia presenza. Chiesi allora se avrei potuto prendere la parola (come era stato chiesto da coloro che mi avevano presentato). Risposta: “purtroppo la sua richiesta è stata inoltrata troppo tardi dalla segreteria, per cui Lei potrà prendere la parola solo la settimana prossima”. Osservai che la settimana successiva sarei stato fuori dal paese, ma questo non valse a turbare il rigore delle norme burocratiche.

Anche se gli interventi di estranei in quella sede sono assai brevi: a una dirigente indigena, ammessa a prendere la parola, furono concessi otto minuti.

Ma ciò che mi ha maggiormente turbato non è tanto il rigido comportamento del presidente nei miei confronti, quanto il comportamento della commissione nei confronti di dirigenti di base indigeni e indigene, che avevano chiesto la parola e che non furono ammessi a parlare perché non avevano rispettato le norme procedurali. Ascoltai in sala d’aspetto le loro lamentale ed i loro commenti. Mi colpì dolorosamente uno dei commenti: “non serve a niente avere dei deputati indigeni”.

Finiti i lavori della commissione, i suoi membri se ne andarono. Ma rimasero in sala alcuni ed alcune dirigenti di base: con essi/e potei avere quello scambio di vedute che non era stato possibile con i deputati.

Parlammo della difficoltà del rapporto della base indigena con i suoi rappresentanti eletti attraverso i meccanismi della società liberale. Ne approfittai per segnalare loro, nella legislazione indigena progettata, il mancato riconoscimento dei diritti specifici delle donne.

Incontri con settori diversi impegnati nella rivoluzione bolivariana

Il 10 luglio, ebbi un incontro con il “comando politico della rivoluzione”. Potei partecipare alla riunione con un breve intervento sul tema: “Lo sviluppo e il potere locale alternativi, asse strategico del movimento di Porto Alegre e della rivoluzione bolivariana”.

Alcune delle conferenze che ho tenuto successivamente furono dirette a vari settori della popolazione schierati con la rivoluzione bolivariana, sul tema ispirato al mio ultimo libro: “Resistenza e alternativa al neoliberalismo e ai terrorismi”. Su questo tema fu convocato il 12 luglio per le ore 19, un Foro presso l’Hotel Continental di Altamira; il 15 luglio, h.10 a Maracay (capitale dello stato Aragua), Foro nella sede del consiglio legislativo Regionale; alle ore 16, Foro presso il municipio di Guacara (Valencia).

Il 16 luglio, h.18, a Caracas, presso la biblioteca Harris, Foro indirizzato particolarmente a settori di classe media, sul tema “la rivoluzione bolivariana, parte integrante e momento propulsivo del movimento di Porto Alegre”.

Incontro con intellettuali impegnati/e nella ricerca di una “depolarizzazione”

A questo incontro, tenuto il 9 luglio, alle 17,30 presso il CELARG (Centro de Estudios latinoamericanos Rómulo Gallegos) sul tema “violenza e polarizzazione”, sono intervenuto quale uditore e non quale partecipante.

Lo segnalo però come espressione tipica di una posizione impegnata nella ricerca di una “terza via” tra governo e opposizione, consistente nel superamento della polarizzazione. Mi è parso che questa “terza via” diventava praticabile solo se si prescindeva dal contesto politico e geopolitico e si affrontava il problema della conflittualità in termini essenzialmente interpersonali o intergruppali.

Suscitai quindi vivaci polemiche con un breve intervento nel quale osservavo: non mi sembra possibile affrontare seriamente il problema della violenza, prescindendo dalla violenza strutturale del neoliberalismo, e senza schierarsi apertamente contro di essa.

Partecipazione a trasmissioni televisive e radiofoniche

Mercoledì 10 luglio, registrazione nel canale di stato (Venezolana de Televisión), programma “La lámpara de Diógenes” di un’intervista sul tema “resistenza e alternativa al neoliberalismo e ai terrorismi”.

Sabato 13 luglio, partecipazione ad una trasmissione ecumenica di Radio Nacional su “discernimento cristiano della situazione, a tre mesi dal golpe”. Intervento sulla distinzione (e contrapposizione) fra due interpretazioni del discernimento cristiano, quella “ecclesiocentrica” e quella “pueblocentrica“.

Domenica 14 luglio, partecipazione alla trasmissione televisiva “¡Aló, presidente!” (su cui tornerò).

Incontri con il presidente Chávez

Gli incontri diretti e calorosi con la popolazione sono parte essenziale del metodo di governo di Chávez. Ho già parlato del suo incontro con i membri del Foro Sociale Nazionale.

Nei giorni successivi, ho assistito e partecipato ad altri tre incontri con lui. Il giovedì 18 luglio, primo giorno dell’incontro internazionale di solidarietà, gli invitati internazionali furono invitati a cena nel palazzo presidenziale, con il gruppo dirigente del movimento delle donne. Un incontro cordiale, ma con qualche residuo di formalismo. Nell’invito ci si chiedeva di indossare l’abito di rigore, che io non possedevo. La presidente di FUNDEC, che in passato era stata modista, se ne preoccupò e per telefono presentò il mio “caso” (di persona, suppongo, poco civilizzata) ai responsabili del protocollo presidenziale. Le risposero (saggiamente): si vesta come vuole.

Il presidente fu comunque sequestrato dalle donne, il che evidentemente non gli dispiaceva. Ai pochi maschi presenti (tre o quattro), il personale spiegò che secondo il protocollo i maschi dovevano stare in fondo a quelle lunghe tavolate. In base a questo principio, fui invitato ad allontanarmi ulteriormente dal presidente.

Il giorno dopo, il presidente intervenne per la chiusura dell’incontro

Rivolse un saluto a ciascuno degli invitati internazionali. Nominandomi e presentandomi come teologo della liberazione, egli manifestò il suo interesse per il progetto di “teologia bolivariana della liberazione”, di cui gli avevo parlato qualche giorno prima, in occasione della trasmissione televisiva “¡Aló, presidente!”.

Questa trasmissione fu l’incontro più lungo ed interessante con lui. Potei parteciparvi attivamente in qualità di invitato. Si tratta di una lunga trasmissione domenicale (dalle 10 del mattino alle 5 del pomeriggio), molto seguita, realizzata abitualmente da un quartiere popolare, in occasione della quale il presidente dialoga con la popolazione; presenta le sue analisi della congiuntura, i suoi progetti, le sue proposte; riceve telefonate e ascolta la gente del posto; interpella personalmente gli invitati, che vengono sollecitati a compiere un breve intervento.

Nel mio intervento, io espressi a lui ed alla rivoluzione bolivariana la calorosa solidarietà dei compagne e compagni d’Europa, in particolare del partito della Rifondazione Comunista e di settori del parlamento europeo.

Lo informai inoltre di due progetti che erano maturati durante il mio soggiorno. Il primo, nato dai gruppi cristiani schierati con la rivoluzione, è quello di elaborare una teologia bolivariana della liberazione. “Sembra, aggiunsi rivolgendomi al presidente, che di questa teologia Lei sarà una delle fonti”.

Non era, la mia, una forma di adulazione. Con frequenza (anche eccessiva per la nostra sensibilità laica) il presidente si riferisce ai due ispiratori del suo pensiero e del suo progetto storico: Cristo e Bolivar, le cui ispirazioni egli considera convergenti. Anche quel giorno, rispondendo al mio intervento, egli estrasse il suo crocifisso, e ripeté: questo è il mio comandante, la mia guida.

Nella trasmissione da una radio ecumenica, cui avevo partecipato, io avevo commentato quella sua ricorrente professione di fede militante dicendo “Non sono sicuro che a Gesù piaccia essere chiamato comandante della rivoluzione, ma guida e ispiratore, sì”.

L’altro progetto del quale informai il presidente era maturato, come ho ricordato, nell’incontro con internazionalisti spagnoli, impegnati a promuovere una “piattaforma bolivariana”. Partendo dalla loro esperienza e da quella di cooperanti francesi e tedeschi, che si fecero presenti durante la trasmissione, stava nascendo l’idea di promuovere su scala europea una rete di “circoli bolivariani”, collegandoli in una “internazionale bolivariana”, parte integrante della “internazionale della speranza” promossa dal movimento di Porto Alegre.

Incontro internazionale 18-19 luglio: il Venezuela costruisce un cammino di speranza

Nell’ambito di questo incontro intervenni il 19 luglio, con una relazione sul tema “La solidarietà liberatrice nel movimento internazionale di Porto Alegre e nella rivoluzione bolivariana”. Divisi il mio contributo in tre parti, ognuna delle quali presenta una tesi, che ho cercato di fondare, sia pure sommariamente.

Nella prima parte proposi un’analisi della distinzione tra solidarietà assistenziale e solidarietà liberatrice, insistendo sull’importanza della scelta liberatrice o, in altre parole dell’amicizia liberatrice, che deve ispirare il nostro impegno etico-politico.

Nella seconda parte presentai la solidarietà liberatrice o amicizia liberatrice come ispirazione fondamentale del movimento di Porto Alegre. Nella terza parte, presentai la solidarietà liberatrice o amicizia liberatrice come ispirazione fondamentale della “rivoluzione bolivariana”. Nella conclusione del mio intervento (ricordo che era il 19 luglio) non ho potuto evitare un riferimento all’esperienza nicaraguese. “In questi giorni, ho detto, percorrendo il nuovo cammino di speranza, ho pensato continuamente alla rivoluzione nicaraguense, con la quale ho vissuto, fin dal 1979, la convinzione che stavamo costruendo un cammino di speranza e con la quale ho vissuto e vivo tuttora il trauma della sconfitta. Oggi, 19 luglio, è il 23° anniversario della vittoria rivoluzionaria sandinista, che per anni abbiamo celebrato e che oggi solo piccole minoranze continuano a celebrare. Io manderei loro un saluto solidale. (Forte applauso).

Per alcuni anni, il Nicaragua ha rappresentato la “nuova speranza” per il continente e per il mondo. Una delle consegne che scandivamo allora diceva: “Se il Nicaragua ha vinto, El Salvador vincerà e il Guatemala seguirà”. La vittoria sandinista era per noi il simbolo e l’annuncio di tante altre vittorie popolari.

Poi venne il trauma della sconfitta e del fallimento, provocati dall’aggressione imperialista degli Stati Uniti, dalla complicità della chiesa cattolica, dalla controrivoluzione interna. Ma anche da errori politici e cadute etiche del Fronte Sandinista. A mio parere l’errore fondamentale, politico ed etico, del Fronte Sandinista fu la distanza che si creò tra i dirigenti del partito e la base popolare; tra i dirigenti del partito, diventati ricchi, per vie poco chiare, e una base popolare sempre più povera. Così per la maggioranza del popolo, la rivoluzione popolare sandinista cessò di essere popolare; il popolo cessò di sentirla come la sua rivoluzione.

L’inquietudine che desidero comunicarvi è il timore che un rischio analogo possa minacciare questa amata rivoluzione. Dal pubblico, che fino a quel momento mio aveva seguito con simpatia, venne un prolungato NOOOO!

Io continuai: “Vi suggerisco comunque di studiare la rivoluzione nicaraguense, di analizzarla, cercando di capire le ragioni della sua vittoria e della sua sconfitta. Perché possiamo condividere con essa la gioia della vittoria, ma mai, mai, mai, il trauma della sconfitta”.

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