Venezuela: 7 giorni di black-out, umana solidarietà e Resistenza

di Anika Persiani 

Non c’è mai stato troppo silenzio durante il blackout, in Venezuela. Ma neanche il caos che qualcuno auspicava nonostante i giorni senza luce avessero potuto essere un’apocalisse vera e propria con omicidi, crimini, ribellioni, prese dei palazzi di governo e guerriglia. Niente, invece. Non è successo niente. I commercianti che avevano prodotti deperibili nei loro congelatori hanno iniziato a regalarli a chi aveva bisogno; chi aveva bisogno li ha presi ed ha cercato di ricompensare cucinando con fornelli casuali, o con la legna raccolta per aiutare chi, in casa, ha solo i fornelli elettrici.

Collaborazione totale, quindi. E ordine; e disciplina. Azioni quasi sorprendenti in un pese dove, come minimo, ti aspetti assassini, eventi criminosi, balli dei narcotrafficanti, contrabbandieri e sequestratori in preda ad un delirio di onnipotenza per la circostanza in questione. Si sono arrangiati tutti, ma proprio tutti, e nei modi più svariati: staffette per tornare a casa per chi abitava lontano e non poteva camminare venti chilometri, passaggi o stanze offerti per pochi bolivares o per niente, torce condivise, candele consumate a turno, chiacchierate di compagnia per anziani e persone sole e spaventate negli androni dei palazzi con gli ascensori bloccati, soccorritori improvvisati, condivisione delle poche linee di batteria rimaste nei display dei cellulari, presidi di volontari davanti alle istituzioni per aiutare a non perdere il controllo. E ministri, funzionari dello stato in mezzo di strada, ad aiutare i cittadini che ancora credono in un processo (lungo e doloroso) di cambiamento di un sistema. Stiamo parlando dei poveri, ovviamente, perché sono i poveri che vogliono compiere la loro missione. Non sono i potenti che, nei centri residenziali, hanno i loro generatori di corrente o i loro SUV per spadroneggiare sulle arterie principali della città nonostante il buio.

Certo, sembrava di vivere una situazione surreale tipo “the day after”. In più, con l’ansia addosso, con il pregiudizio europeo che si presenta a prescindere. Una strana realtà dove però ti rendevi presto conto che l’autorganizzazione funzionava. E bene. Non si poteva pagare con le carte di credito, quindi si cercavano i contanti (quasi introvabili, da queste parti) o si compravano generi di prima necessità dai negozi amici con la formula del “segna, và”.

Chi aveva disponibili scorte di acqua, pozzi o riserve, metteva a disposizione il tutto per tutti.
Ecco, oggi tutto è tornato alla normalità,  come se il blackout più lungo della storia non ci sia mai stato. Come se fosse solo un ricordo da archiviare per andare avanti in modo ancora più consapevole, con la profonda convinzione che ci sia un attacco vero, da fuori.

Sfido qualsiasi altro  popolo a mantenere la compostezza e l’ordine davanti ad un evento di questo tipo, che lo si voglia leggere come un errore del sistema di controllo interno o come un sistema mandato in tilt volutamente da una guerra sporca. Nessuno può imporre alla gente di cambiare opinione o di credere alle versioni che si stanno distribuendo come propaganda online. Non si può forzare l’opinione pubblica a valutare questa situazione come un vero e proprio attacco bellico, come una guerra moderna. Ma sì, si può dire che i fatti sono i fatti, quelli che contano. Ed i fatti sono che, in Venezuela, nonostante i disagi per le sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Unione Europea, nonostante le mille cose che qua non funzionano, i poveri, gli operai, i contadini, i lavoratori, i pensionati e le altre categorie del tessuto sociale molto poco avvezzo alla bella vita, pur con tutti gli accidenti dedicati ai vertici per la circostanza, non hanno mai smesso di pensare: “Yankee go Home”.

Perché la maggior parte delle persone, in questo paese, ha migliorato la propria qualità di vita, ha avuto accesso all’istruzione, ad un sistema sanitario gratuito (seppur con tutte le difficoltà dovute alle sanzioni e pure alla cattiva organizzazione), grazie ad un processo forte, fatto anche da mille errori. Non ci sono più milioni di invisibili confinati nelle baraccopoli fatte con tetti di etetnit e paglia, con lamiere e cartoni, esseri umani chiamati “chusma” da altri esseri molto meno umani. Oggi ci sono grandi edifici, seppur bruttini parecchio (esteticamente ed architettonicamente) ma con tutti i comfort e gli accessori di circostanza. Villaggi veri e propri, quartieri residenziali anche per i poveri, non costruiti da Francisco Bellavista Caltagirone tanto caro a Pierferdinando Casini che si è pure prodigato a volare qua in nome dei bei tempi in cui i Caltagirone costruivano anche le bettole, a Caracas. Tetti sulla testa di milioni di venezuelani che prima, sulla testa, avevano solo pidocchi e grattacapi per pensare al futuro. Verissimo, qua non siamo alle Hawaii e non si balla l’hola-hola, ma siamo in un paese pieno di contraddizioni: ricchissimo e con una redistribuzione della ricchezza equivoca. E oggi, quelli che erano i disperati di un tempo, analfabeti alla mercé di qualche proprietario terriero in cambio di un piatto di riso e fagioli e di una stalla per dormire, hanno i loro diritti ed il diritto di voto. L’istruzione è un bene nazionale e tutti possono entrare nelle accademie per prepararsi all’università. Cosa che prima, nonostante in Venezuela i governi pseudo socialdemoci avessero già reso gratuiti gli studi universitari, non era possibile proprio per il costo della preparazione per l’accesso agli atenei. 

Insomma, Caracas, considerata una delle metropoli più pericolose al mondo, ha risposto da sola. Come hanno risposto tutte le altre città del Venezuela, i piccoli centri urbani delle campagne e delle montagne, dove milioni di persone sono rimaste isolate per giorni. Senza sapere niente dei propri cari, senza comunicazioni, senza tv, senza il tutto dell’oggi.

Hanno prevalso costanza e determinazione umana sull’isteria collettiva dell’umanità web e social.
Certo è che se questo blackout è stato parte davvero di una strategia per destabilizzare il paese, vuoi per il costume sociale soft dei caraibici, vuoi anche un po’ per la coscienza di vivere una forma nuova di colonialismo che manco si può definire neocoloniale ma semplicemente mostruosa (ancor più stronza e subdola dei sistemi precedenti), questa strategia, è fallita. In pieno.

REDS marzo 2019

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