Venezuela: Intervista all’economista colombiano Rafael Enciso

di Geraldina Colotti – il manifesto

L’economista colom­biano Rafael Enciso ha appena finito il suo inter­vento e accetta di rispon­dere alle nostre domande. Del suo paese cono­sce bene l’esperienza del Sec­tor Coo­pe­ra­tivo Agro­pe­cua­rio, in par­ti­co­lare il lavoro orga­niz­zato delle coo­pe­ra­tive del caffè. Come stu­dioso e mili­tante di vari movi­menti, ha accom­pa­gnato per 25 anni i ten­ta­tivi – sem­pre nau­fra­gati — di por­tare a solu­zione il con­flitto armato che dura da oltre 50 anni. Dopo il fal­li­mento dei dia­lo­ghi di pace, nel 2002, ha dovuto lasciare la Colom­bia – paese alta­mente peri­co­loso per l’opposizione sociale — e vive da nove anni in Vene­zuela. Adesso è con­su­lente al Mini­stero del Lavoro e si occupa di imprese recu­pe­rate. In uno dei suoi saggi ana­lizza “Gli inse­gna­menti del modo di pro­du­zione sovie­tico per il socia­li­smo del secolo XXI in Venezuela”.

L’alternativa alla crisi siste­mica del capi­ta­li­smo – lei scrive – implica una rot­tura pro­fonda, un nuovo ordine inter­na­zio­nale a carat­tere mul­ti­po­lare e un nuovo modello pro­dut­tivo basato sul con­trollo ope­raio e comu­ni­ta­rio. Come si può costruire que­sta alter­na­tiva in un’economia ancora così basata sulla ren­dita petro­li­fera come quella venezuelana?

In que­sta fase di tran­si­zione, in cui l’impalcatura dello stato bor­ghese con­ti­nua a esi­stere, occorre arti­co­lare un sistema di con­trap­pesi per poterlo tra­sfor­mare dal basso sotto la spinta del potere popo­lare. Penso si possa svi­lup­pare un modello di gestione mul­ti­pla e socia­li­sta deter­mi­nato dalla par­te­ci­pa­zione dei diversi sog­getti orga­niz­zati. La prima è quella dei lavo­ra­tori orga­niz­zati in con­si­gli, nelle imprese e nelle isti­tu­zioni; la seconda è quella dei con­si­gli comu­nali e delle comuni, e riguarda la costru­zione del governo nei ter­ri­tori; la terza è quella dei con­si­gli dei pro­dut­tori e distri­bu­tori di mate­ria prima – pesca­tori, con­ta­dini -, che non sono sala­riati ma si pos­sono orga­niz­zare e par­te­ci­pare alla gestione della società. E poi c’è lo stato, che deve ade­guarsi, tra­sfor­marsi e agire come un attore in più, come fat­tore di coor­di­na­mento e di arti­co­la­zione, non di cen­tra­liz­za­zione ege­mo­nica. Que­sto mec­ca­ni­smo di con­trollo serve a impe­dire che una parte pre­valga sull’altra, che si svi­lup­pino inte­ressi paras­si­tari e buro­cra­tici, ma al con­tra­rio si impie­ghino le ener­gie per pia­ni­fi­care un’economia del bene comune basata sugli inte­ressi collettivi.

Osta­coli e con­trad­di­zioni, però, non mancano

Uno degli osta­coli prin­ci­pali è l’assenza di una cul­tura del lavoro, deter­mi­nata dal poco svi­luppo indu­striale, pro­dut­tivo e agri­colo. Per tutto il corso del XX secolo, i governi hanno pun­tato sull’estrazione e l’esportazione del petro­lio. Durante gli anni del neo­li­be­ri­smo sel­vag­gio (tra gli ’80 e il ’90), anche quei set­tori dell’economia che ave­vano rag­giunto un certo svi­luppo sono stati distrutti. Quando Cha­vez vince le ele­zioni, nel 98, trova un paese in ginoc­chio in cui, a fronte degli ele­vati indici di povertà estrema si è svi­lup­pata un’economia for­male di sus­si­stenza. Da un altro lato, pro­li­fe­rano forme di delin­quenza ende­mica e di cri­mi­na­lità orga­niz­zata legata al nar­co­traf­fico, forag­giato dagli Usa a par­tire dalla fine degli anni ’70. L’incidenza del para­mi­li­ta­ri­smo colom­biano e del ter­ro­ri­smo di stato impe­rante nel mio paese è sem­pre stata forte. In Vene­zuela vivono circa 5 milioni di colom­biani. Con l’arrivo del socia­li­smo abbiamo avuto accesso ai ser­vizi e alle coper­ture sociali, di cui hanno appro­fit­tato le orga­niz­za­zioni cri­mi­nali. Quando Alvaro Uribe va al governo in Colom­bia, aumenta in modo mas­sic­cio la pre­senza dei para­mi­li­tari in Vene­zuela, che cer­cano di appro­priarsi della ric­chezza del paese, in modo diretto o indi­retto. Nel 2006, ogni per­sona poteva inviare all’estero 300 dol­lari al mese, anche a un parente alla lon­tana. In molti si sono tra­sfe­riti qui per fare que­sto tipo di traf­fici. L’imperialismo cerca con ogni mezzo di “bal­ca­niz­zare” il Vene­zuela per distrug­gere il cam­bia­mento. La guerra eco­no­mica si ali­menta però anche di una catena per­va­siva di cor­ru­zione e pre­bende. I Con­si­gli ope­rai o quelli comu­nali si tro­vano a volte di fronte gruppi di potere o buro­crati che hanno accesso al con­trollo delle risorse e vedono minac­ciati i pro­pri inte­ressi. D’altro canto, manca la con­sa­pe­vo­lezza poli­tica che il socia­li­smo non è solo wel­fare, non basta ridi­stri­buire meglio la ric­chezza come si è fatto in Ita­lia per un periodo, occorre un cam­bia­mento strut­tu­rale nelle dina­mi­che pro­dut­tive e di potere. E il potere non si tra­sfe­ri­sce, si costrui­sce. Non pos­siamo idea­liz­zare la figura dell’operaio, del pro­le­ta­rio, né cer­care lo schema a tutti i costi. Ma non pos­siamo nep­pure igno­rare che, nella gestione dello stato, esi­stono gruppi il cui modo di pen­sare – al di là della loro estra­zione sociale – è legato a quello della pic­cola bor­ghe­sia e che eser­ci­tano il potere in fun­zione degli inte­ressi che rap­pre­sen­tano. Con loro, a un certo punto, biso­gnerà essere chiari: o accet­tano il potere dal basso oppure se ne devono andare.

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