Napoli: Por Aquí Pasó Chávez!

L’Ecuador esprime la sua solidarietà alla Siria

da Sana.Sy

Cuba. Il ministro degli Esteri ecuadoriano Ricardo Patiño, ha espresso la solidarietà del suo paese alla Siria per gli attacchi che sta subendo.

Durante il suo incontro con l’incaricato d’affari siriano a L’Avana, Ghassan Haidar, a margine della riunione di solidarietà con l’Ecuador, Patiño ha detto che, il suo paese con l’ALBA, esclude qualsiasi ingerenza straniera negli affari interni della Siria, sottolineando che solo il popolo siriano può decidere il suo destino.

Patiño ha aggiunto che la crisi in Siria sarà all’ordine del giorno del vertice CELAC, che ha avuto inizio oggi, a L’Avana.

Da parte sua, Haidar ha espresso il suo apprezzamento per la posizione dell’Ecuador per quanto riguarda il sostegno alla Siria, affermando che la Siria lotta contro il terrorismo e difendere la civiltà umana.

[Trad. dal francesce per ALBAinformazione di Francesco Guadagni]

Tre giorni di lutto nazionale e grande festa per il poeta compagno Juan Gelman

di Marco Nieli

Lo scorso 14 gennaio è mancato a Ciudad del México, dove risiedeva da parecchi anni stabilmente, Juan Gelman, uno dei maggiori poeti contemporanei di lingua spagnola, vincitore del Premio Cervantes 2007.

Di origini ebreo-ucraino-argentine, Gelman nacque a Buenos Aires, barrio Villa Crespo, nel 1930. Abbandonata l’Università per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura poetica e alla politica, nel 1955 fonda insieme ad altri poeti comunisti il collettivo El Pan Duro e l’anno successivo, in piena rivolución libertadora – in realtà un periodo di restaurazione degli interessi dell’oligarchia, con alternanza di governi democratici e dittatoriali –  pubblica la sua prima raccolta Violín y otras cuestiones. Nel ’63, sotto il regime di J. M. Guido, viene incarcerato per le sue idee sovversive e, in seguito, liberato anche per il forte movimento di opinione intellettuale a suo favore. Gelman ha intanto lasciato il PCA e si è avvicinato al F.A.R. (Fuerzas Armadas Revolucionarias, Forze Armate Rivoluzionarie), gruppo di ispirazione peronista/guevarista.

Collaboratore di varie riviste e periodici dell’epoca (il suo nome risulta tra i primi collaboratori di Pagina 1/2), Juan viene fatto espatriare nel 1975 dalla sua organizzazione per motivi tattico-strategici, oltre che per tutelare la sua incolumità fisica di fronte all’escalation repressiva scatenata dalla Triple A, capeggiata da Lopéz Rega, Ministro di Isabel Perón. Gelman diviene uno dei principali oppositori del Proceso – la feroce Dittatura di Videla & Co. che si propone di condurre una guerra totale contro ogni forma di sovversivismo materiale ed intellettuale, a partire dal 1976 – all’estero, soggiornando tra Roma, Ginevra, Parigi, New York, Managua e Ciudad del México, dove si stabilisce definitivamente a partire dal 1988.

In Argentina, intanto, il 24 agosto del ’76, suo figlio Marcelo Ariel e sua nuora Maria Claudia García Iruretagoyena, vengono sequestrati e barbaramente fatti sparire; la nipotina viene lasciata fuori alla porta di un ex-poliziotto uruguayo, Angel Tauriño e se ne perdono del tutto le tracce. Gelman “recupererà” la nipote Macarena solo nell’anno 2000: insieme a lei, che ha voluto riprendere il nome dei suoi veri genitori (Gelman), il poeta ha negli anni ’90 portato avanti la battaglia civile per il riconoscimento dei diritti giuridici delle famiglie dei desaparecidos. Nel 1990 erano invece stati riconosciuti i resti del figlio Marcelo, ucciso con un colpo alla nuca e sepolto in un bidone riempito di sabbia e cemento.

Nel 1988, Gelman, tra l’altro, beneficia di un indulto che lo solleva da ogni pendenza giudiziaria per il suo passato di militante rivoluzionario, grazie anche all’intervento di vari capi di Stato e intellettuali, in una campagna stampa portata avanti anche dal francese Le Monde.

La sua sterminata produzione letteraria spazia dalla poesia (El juego en que andamos, 1959; Velorio del solo, 1961; Gotán, 1962; Fábulas, 1971; Relaciones, 1973; Si dolcemente, 1980; Hacia el Sur, 1982; Interrupciones I-II, 1986-1988; Carta a mi madre, 1989; Salarios del impío, 1993; Valer la pena, 2001; País que fue será, 2004; De atrásalante en su porfía, 2009; Hoy,2013) alla prosa,più o meno legata alla contingenza cronachistica e alla riflessione politica (Prosa de prensa, 1997; Ni el flaco perdón de Dios/Hijos de desaparecidos (co-autore con Mara La Madrid), 1997; Nueva prosa de prensa, 1999; Afganistan/Iraq: el imperio empantanado; 2001; Miradas, 2005; Escritos urgentes,2009-2010; El ciempiés y la araña, ilustrazioni di Eleonora Arroyo, 2011).

Tra i numerosi premi vinti dal poeta, si ricordano: Premio Mondello per la Letteratura (Italia, 1980); Premio de Poesía Boris Vian (Argentina, 1987); Premio Nacional de Poesía (Argentina, 1997); Premio Juan Rulfo para la Literatura Iberoamericana y del Caribe (México, 2000); Premio Rodolfo Walsh a la labor periodística en el año (Argentina, 2001);  Premio de Poesía José Lezama Lima de la Casa de las Americas cubana (Cuba, 2004); Premio Iberoamericano Pablo Neruda (Chile, 2005); Premio Internacional Nicolás Guillén (Italia-Cuba, 2005); Premio Miguel de Cervantes (España, 2007); Premio Antílope Tibetano (Asociación de Poetas Chinos, 2009); Premio Poetas del Mundo Latino “Víctor Sandoval”, (México, 2010); Premio Leteo (España, 2012).

Per ricordare la sua importante figura di poeta e intellettuale rivoluzionario, la Presidenta Kirchner ha pensato bene di decretare ben tre giorni di lutto nazionale in Argentina, con le bandiere a mezz’asta in tutte le istituzioni del paese.

La famiglia – la moglie Mara La Madrid e la nipote Macarena – con gli amici di Juan, invece, hanno invece festeggiato la sua dipartita disperdendo le sue ceneri da un ponte zapatista a Nepantla, la terra di Sor Juana Inés de la Cruz – prima poetessa nazionale messicana – e poi bevendo, mangiando, cantando e recitando poesia nella vicina Ciudad de los Poetas. Secondo espressa volontà del poeta-compagno, che, gravemente infermo, aveva programmato una delle ultime feste, ma è mancato prima del tempo.

Come già annunciato in alcuni suoi versi celebri, a proposito di un suo zio trapassato in allegria, il trionfo della poesia e della vita sugli orrori della sua epoca, Gelman lo ha inteso in questa maniera, sobria e insieme entusiastica: «Tío Juan era así/ le gustaba cantar/ y no veía por qué la muerte era motivo para no cantar/…lo lindo es saber que uno puede cantar pío pío en las más raras circunstancias…».

Con Gelman ci lascia un altro pezzo della storia letteraria e della storia tout court del Novecento latino-americano. È di questa figura di intellettuale “impegnato” (si può ancora usare questa parola nell’epoca contemporanea o per qualcuno suona oscena?) e a tutto tondo che si sente più la mancanza alle nostre latitudini. Specialmente di questi tempi e con questi chiari di luna.

Che mai aggiungere? Semplicemente, addio, hasta siempre, compagno Juan.

L’eredità di Chávez nel settore del petrolio

produccion Venez.

consultabile anche su: marcoiane.wordpress.com

1)INTRODUZIONE

Sarebbe molto difficile capire l’eredità di Chávez nel settore petrolifero, senza spiegare l’essenza del conflitto con le potenti élites che si erano impadronite della PDVSA. […] I gestori del petrolio della Quarta Repubblica, prima di consegnare al fisco qualsiasi aumento dei proventi del petrolio, preferivano destinarlo ad aumentare le capacità di estrazione, allo scopo di conquistare una quota crescente nel mercato internazionale, anche se questo poteva causare notevoli diminuzioni nei prezzi del petrolio. […] Ricostruire l’OPEP, richiedere un prezzo equo per il petrolio, aumentare il contributo fiscale proveniente dal petrolio, risollevare la PDVSA, smascherare la meritocrazia senza patria, sconfiggere il colpo di stato petrolifero, superare il sabotaggio della PDVSA, destinare una crescente percentuale della rendita all’investimento sociale e raggiungere la piena sovranità petrolifera, costituiscono parte dell’enorme eredità lasciata dal Presidente Chávez nel settore  petrolifero,  resa possibile dalla battaglia intensa e decisiva intrapresa dal leader della Rivoluzione Bolivariana per sconfiggere il dominio della tecnocrazia e delle multinazionali.

 

2) LA RICOSTRUZIONE DELL’OPEP E LA RIVENDICAZIONE DI UN PREZZO GIUSTO PER IL PETROLIO


Non appena al governo la prima volta nel 1999, il presidente Chávez ha avviato una politica volta ad affermare la sovranità nazionale sul petrolio e sulla politica fiscale del petrolio […]. Chávez si è proposto di ricostruire la disciplina delle quote all’interno dell’OPEP, allo scopo di difendere i prezzi e recuperare i proventi del petrolio. Con questo scopo evidente, organizzò a Caracas, nel settembre 2000, il Secondo Vertice dei Capi di Stato dell’OPEP, nel quale si diede vita a un accordo di successo tra i membri dell’OPEP e gli altri paesi esportatori, per ripristinare il sistema delle quote, il che ha contribuito alla ripresa del prezzo del petrolio.
[…] Le entrate derivanti al paese dalle esportazioni di idrocarburi sono aumentate considerevolmente, il che ha fornito le risorse al governo bolivariano per finanziare l’investimento sociale, attraverso il quale è stata realizzata una drastica riduzione degli elevati livelli di disoccupazione, povertà ed esclusione sociale .

 

3) IL NUOVO REGIME FISCALE PETROLIFERO A FAVORE DELLA NAZIONE

La rendita petrolifera è quello che ottiene la PDVSA dalle vendite totali di crudo e dei suoi derivati, compresi i proventi delle esportazioni e delle vendite realizzate in Venezuela. Mentre il gettito fiscale petrolifero è ciò che lo Stato venezuelano percepisce in qualità di proprietario delle risorse del sottosuolo e della PDVSA, comprensivo delle royalties, delle imposte sulla rendita e dei dividendi.
La chiave del sistema fiscale petrolifero è la percezione delle royalties, che rappresentano la forma più sicura di reddito per lo Stato, in quanto proprietario della risorsa naturale. […] La legge del 1943 stabiliva un canone di 1/6, pari al 16,67 % della produzione totale. Uno dei punti chiave della riforma della Legge sugli Idrocarburi promossa dal primo Chávez è stato un significativo aumento della partecipazione della Nazione all’estrazione del petrolio, concretizzato nel raddoppio delle royalties. Infatti, a partire dalla nuova legge, le royalties sono aumentate dal 16,67 % al 33 % . […]

4) IL RISCATTO DELLA PDVSA: UNO STATO NELLO STATO

Inizialmente, l’industria petrolifera ha lavorato sotto il regime delle concessioni alle corporazioni multinazionali. Ciò è durato fino al 1976, quando l’industria è stata nazionalizzata. […]
Dalla sua fondazione nel 1976 fino al 2002, la PDVSA ha operato come uno Stato nello Stato. Dirigenti, managers e colletti bianchi venezuelani hanno lavorato a stretto contatto con le compagnie petroliere internazionali, condividendo la loro visione del business del petrolio. […] Teoricamente, trasferendo il business del petrolio nelle mani dello Stato, si promuoveva un controllo fiscale sempre più rigoroso e trasparente. Ma è successo il contrario: le ispezioni alla compagnia – […] – si sono rilassate e il controllo della compagnia da parte del suo unico azionista (lo Stato) si è sempre più indebolito.

L’obiettivo della tecnocrazia della PDVSA era eludere i controlli dello Stato, per scalzarlo come  principale beneficiario della rendita del petrolio. Negli anni prima dell’arrivo al governo di Chávez, la gestione della PDVSA è incorsa in una frequente violazione della quota fissata da parte dell’OPEP a ogni paese, evidenziando chiaramente il suo scopo di smantellare il sistema delle quote e innescare un conflitto senza ritorno, che causasse il ritiro del Venezuela dall’organizzazione. […]. Il sequestro della PDVSA da parte della tecnocrazia e il rifiuto di questa a cooperare per ripristinare il sistema delle quote, rafforzare l’OPEP e recuperare il gettito fiscale petrolifero, ha suggerito a Chávez l’imperativo di riscattare la PDVSA, per metterla in linea con gli obiettivi del governo.

 

5) LO SMASCHERAMENTO DELLA  MERITOCRAZIA SENZA PATRIA

 

Usando come alibi il deterioramento del sistema politico ed economico venezuelano nella IV Repubblica […], la tecnocrazia giustificò il suo sfuggire al controllo fiscale dello Stato […]. La tecnocrazia si chiuse sempre più al controllo statale e impose un crescente controllo sulla  PDVSA. A questo scopo, creò un numero esagerato di imprese fuori del Venezuela, realizzando una gestione degli affari di raffinazione e commercio al margine dei controlli dello Stato e delle influenze politiche.

In opposizione all’interesse di incassare del governo, la dirigenza della compagnia era mossa dall’interesse di minimizzare il pagamento delle obbligazioni fiscali e amministrare direttamente la maggior parte della rendita petrolifera. […]. La partecipazione del governo alla rendita petrolifera cadde a livelli molto bassi, anche quando le entrate petroliere della compagnia tendevano ad aumentare. Secondo i propri dati statistici del Ministero dell’Energia e delle Miniere (oggi, Ministero del Potere Popolare per il Petrolio), per ogni dollaro di ricavo netto che si ottenne nel 1981, la PDVSA pagò al governo 71 centesimi in rendita, royalties e imposte, ma solo 39 centesimi nell’anno 2000. […] Investire e spendere tutta la rendita petrolifera era una questione di principio per le potenti élites che avevano sequestrato la PDVSA, sebbene questa pratica non sempre contribuisse a massimizzare i profitti della compagnia. Al contrario, risultava favorevole all’interesse delle  multinazionali petroliere e alle grandi potenze consumatrici di petrolio.

 

6) LA FINE DEI TRASFERIMENTI DEI GUADAGNI ALL’ESTERO

[…] Questa tecnocrazia, meglio conosciuta come meritocrazia, promuove a partire del 1989 la Politica di Apertura Petrolifera, orientata a privatizzare l’industria e a minimizzare il suo ruolo nel gettito fiscale. […]. A causa dei bassi livelli impositivi promossi dalla tecnocrazia, la politica fiscale della massimizzazione delle entrate fiscali del petrolio fu sostituita da una politica di minimizzazione del pagamento di royalties, imposte e dividendi, il che favoriva largamente l’interesse delle corporazioni multinazionali e delle principali potenze consumatrici di petrolio.

[…] Il capitale straniero, in associazione con la PDVSA, diventò nuovamente un importante produttore in Venezuela. Un 40 % del petrolio venezuelano rimase dentro i termini di questa politica. […] La maggior parte di questa produzione non solo non era soggetta alla quota OPEP, ma per giunta violava apertamente gli accordi dell’organizzazione.

Per portare avanti la politica di internazionalizzazione e apertura, la tecnocrazia della PDVSA comprò con metodo raffinerie in altri paesi, sottoscrivendo con queste contratti di fornitura a lungo termine, nei quali si garantivano sostanziali riduzioni. Per mezzo del meccanismo dei prezzi di trasferimento, la PDVSA offriva generosi sconti sui prezzi di vendita nelle sue filiali all’estero.

[…] Le filiali straniere della PDVSA non pagarono mai dividendi alla compagna madre. […] Generare entrate per il paese non fu mai l’oggetto di questa politica né l’interesse di queste filiali.

 

 

7) LA SCONFITTA DEL COLPO DI STATO E DEL SABOTAGGIO ALLA PDVSA

 

Chávez diventò presidente nel febbraio del 1999, in mezzo al peggior crollo dei prezzi del petrolio da mezzo secolo. In aggiunta a questo, il controllo che arrivò a imporre la dirigerenza della PDVSA sulle transazioni petroliere, minimizzò il contributo dell’industria al gettito fiscale. […]

Per invertire questa tendenza, Chávez si vide obbligato a strappare alla meritocrazia il controllo sulla compagnia statale. Questa determinazione fu portata avanti fino alle estreme conseguenze e fu proprio essa a causare il Colpo di Stato dell’aprile del 2002, per mezzo del quale Chávez fu deposto temporaneamente. Alla fine di quell’anno, sarebbe sopraggiunta una nuova offensiva  con il peggiore atto di sabotaggio commesso contro l’industria petrolifera nazionale in tutta la sua storia. Il sabotaggio si estese fino al marzo del 2003, distruggendo il cervello elettronico dell’ impresa, che vide paralizzate durante mesi le sue operazioni, soffrendo perdite multimillonarie e ingenti danni materiali.

[…] Il Governo Bolivariano aveva deciso di rivendicare la sovranità nazionale sul petrolio ed eliminare i prezzi di trasferimento che concedeva la PDVSA alle sue filiali straniere. Queste furono obbligate a pagare royalties basate sui prezzi del mercato internazionale e a pagare dividendi per la prima volta. Inoltre, si ingiunse alla tecnocrazia di spendere meno e pagare più imposte.

Una volta sconfitto il Colpo di Stato e recuperata l’industria petrolifera, il ristabilimento del sistema di quote contribuì al recupero del prezzo dell’offerta petrolifera venezuelana, che passò dai $ 7 al barile con cui lo trovò Chávez, fino a rompere la barriera dei $ 100.

[…]

8)  PIENA SOVRANITÀ PETROLIFERA

Allo scopo di completare il controllo del business del petrolio e massimizzare la rendita, il presidente Chávez ha lanciato il Piano Piena Sovranità Petrolifera: Nazionalizzazione della Cintura Petrolifera dell’Orinoco.[…]

Con questo decreto, il governo venezuelano ha terminato la ripresa del controllo del proprio petrolio e rafforzato la politica della sovranità completa del petrolio. I partenariati esistenti tra le società controllate dalla PDVSA e il settore privato, operanti nella Cintura dell’Orinoco, diventano joint ventures, in cui una quota di maggioranza è di proprietà del governo venezuelano, per mezzo della compagnia petrolifera di Stato.[…] 

Se è vero che attraverso il Piano Piena Sovranità Petrolifera si è rivendicata la sovranità nazionale del petrolio, rimane da portare avanti la progettazione e l’attuazione di una politica di industrializzazione degli idrocarburi che permetta di sostituire le importazioni e diversificare l’offerta esportabile. […]

 

9) LE SFIDE IMPELLENTI: IL SUPERAMENTO DELLA RENDITA

 

[…] Aumentare la produzione di petrolio e raccogliere più gettito sono obiettivi spesso contraddittori, poiché la produzione alle stelle in genere si traduce in prezzi più bassi e viceversa. La rendita petrolifera proviene dalla captazione di un plusvalore internazionale. Quindi, il controllo dell’estrazione del petrolio è stato motivato dall’interesse d i massimizzare i proventi del petrolio, ma non come strategia per iniziare la transizione del Venezuela da importatore rentier verso un modello produttivo esportatore. In prospettiva, non dobbiamo dimenticare che i piani di sviluppo e gli obiettivi del Venezuela come potenza energetica sono focalizzati su di un aumento dell’ estrazione di petrolio, per portarla a 6 milioni di barili al giorno.
[…] Di fronte a ogni picco della rendita abbiamo un picco nel consumo, l’abbondanza di valuta porta alla sopravvalutazione della moneta e questo rende più facile e più redditizio importare che produrre. Questa pratica è aggravata dalla politica monetaria di riferimento che tende a congelare il prezzo della moneta per diversi anni, il che si traduce in una sovvenzione al dollaro e, quindi, in una sovvenzione alle importazioni che si pagano con un dollaro ufficiale sempre più economico rispetto al prezzo raggiunto sul reale mercato valutario. I produttori si trasformano in importatori e la crescente e inarrestabile tendenza ad importare tutto soppianta l’industria nazionale. […]
La Rivoluzione Bolivariana ha come compito urgente la trasformazione del modello basato sulla rendita in un nuovo modello produttivo. Si tratta di un’impostazione costante nei programmi di governo, ma non si è ancora concretizzato in una strategia specificamente progettata, per superare il modello della rendita e per facilitare l’entrata in piena sovranità del Venezuela nell’economia mondiale. […].

Víctor Álvarez R.

twitter: @victoralvarezr

blog: http://victoralvarezrodriguez.blogspot.com

EL LEGADO DE CHÁVEZ. Reflexiones desde el pensamiento crítico, a cura di Luis Bonilla Molina Centro Internacional Miranda, Caracas, pp. 31-44

[Traduzione dal castigliano per ALBAinformazione di Marco Nieli]

Argomenti per il dibattito/2: l’esempio dell’ALBA latinoamericana

a cura di Davide Angellili, nuestra-america.it

In questa sostanziosa e  incalzante intervista discutiamo con il Professor Luciano Vasapollo[1] della “Alianza Bolivariana Para los Pueblos de Nuestra America”: un processo d’integrazione regionale tra paesi che stanno attuando diverse vie al socialismo in America  Latina. Quando, nel 2004,  i governi di Cuba e Venezuela danno vita all’ALBA identificano i problemi dell’area con i modelli di sviluppo imposti dall’imperialismo, con l’attività economica delle grandi imprese multinazionali e transnazionali ed in particolare con le riforme strutturali neoliberiste imposte negli anni del Consenso di Washington. Come vedremo nell’intervista, l’Alternativa Bolivariana non rompe solamente con i precedenti modelli d’integrazione regionale di matrice keynesiana o neoliberista, bensì propone un modello altro di relazioni economiche internazionali  anticapitaliste, in cui la solidarietà rimpiazza la competizione e in cui il fine ultimo è promuovere la socializzazione dei modelli produttivi. A oggi fanno parte del processo – oltre a Cuba e Venezuela – Bolivia, Nicaragua, Ecuador, San Vincent y Las Granadinas, Antigua y Barbados e Dominica.

Iniziamo da quelle che sono le radici storiche e politiche dell’ALBA. Nel 1989 il tonfo per il crollo del muro di Berlino rimbombò  anche sull’America Latina. Si passò da un mondo bipolare ad uno in cui gli USA restavano come unica potenza mondiale e l’economia di mercato l’unico modello da seguire. Molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo, che s’ispiravano all’Unione Sovietica come modello socialista in contrapposizione al capitalismo, furono obbligati ad abbracciare il sistema neoliberale, a tutti noto come globalizzazione. In questi anni, a livello internazionale, il governo cubano consolida il cammino socialista facendosi esempio e punto di riferimento dell’antimperialismo e della resistenza al modello neoliberista. All’interno della società cubana, infine,si apre un processo molto partecipato di perfezionamento e attualizzazione della pianificazione nel mantenimento e rafforzamento di quello che può definirsi socialismo possibile, in cui una parziale apertura al mercato senza l’accettazione delle leggi del profitto –  e quindi senza rinunciare al socialismo – diventa necessaria per garantire la sostenibilità coerente della rivoluzione cubana.

 

 Possono questa fase di transizione cubana, e soprattutto il dibattito politico che l’anima,  essere considerati l’inizio del Socialismo del ventunesimo secolo, nucleo teorico dell’Alleanza Bolivariana?

 L.V. Se vogliamo capire fino  in fondo che cosa è  la costruzione dell’ALBA e del Socialismo del – io direi meglio per o nel – ventunesimo secolo, prima di parlare di Cuba, dobbiamo analizzare la tradizione culturale lasciata da grandi intellettuali dirigenti rivoluzionari come Bolívar e José Martí[2], dalle ribellioni degli indios andini e boliviani contro l’impero spagnolo. È da qui, nel  lontano 1800, che  nasce l’idea di una grande integrazione latinoamericana come fronte comune contro l’imperialismo USA. Martí la chiamò Nuestra America, qualcun altro la Grande Patria, arrivando a quella che Che Guevara chiamava la Maiuscola America. C’è inoltre un grande filone di intellettuali, dirigenti socialisti e comunisti, latinoamericani, cui appartiene per esempio Mariátegui, che faceva del discorso dell’indipendenza e dell’autodeterminazione l’anello portante di un processo d’integrazione latinoamericana.

L’ALBA rappresenta la “mescolanza, o mezcla“, l’unione, di questi ardori che infiammano i progetti antimperialisti nel continente latino. Così arriviamo alla rivoluzione Cubana, che è la prima grande espressione di questo nel ventesimo secolo. Nasce, infatti, come rivoluzione profondamente ispirata al pensiero di Jose Martí e va via via  sempre più assumendo il marxismo come guida per la costruzione di una società migliore alternativa, libera, giusta, di uguali, in contrapposizione alla società della barbarie del  capitalismo.

È fondamentale sviscerare le caratteristiche della crisi economica profonda della fase della rivoluzione cubana nel periodo immediatamente successivo all’implosione del colosso sovietico. Si consideri oltre alla ragione che tu hai esposto, che si è pensato per lungo tempo, con una mentalità socialista eurocentrica, e tutt’oggi questo è l’approccio della sinistra europea, e in tal senso si pensò anche allora, che il modello sovietico fosse l’unico possibile di riferimento per il superamento del capitalismo. La rivoluzione bolscevica, con tutte le sue contraddizioni e difficoltà, ha avuto sicuramente il grande merito di dimostrare al mondo che fosse possibile un’alternativa reale, attraverso la pianificazione socialista, all’economia di mercato capitalista. L’URSS – è vero – nel corso della sua storia ha commesso errori, e forse anche orrori nella gestione di contesto, definibili e valutabili solo in relazione alla fase storico-politica di riferimento, perché i processi politici nella storia dell’umanità sono a volte talmente complessi da presentare anche forte contraddizioni. Ma risulterebbe superfluo analizzare l’esperienza comunista russa senza considerare che fu il baluardo nella resistenza mondiale alle barbarie del Nazismo e del Fascismo. Inoltre, dobbiamo sempre ricordare che il socialismo è una fase di passaggio, di trapasso appunto alla nuova società, e il primo errore dell’Unione Sovietica fu  proprio quello di dichiarare, in una fase in cui non si erano certo determinate le condizioni del socialismo compiuto, terminato questo processo di transizione. Un altro errore commesso dall’URSS fu quello di rincorrere il capitalismo sul campo dello sviluppo tecnologico ad uso militare e non per fini sociali. Ma rimane nell’eredità dell’esperimento sovietico la forte contrapposizione al modello di sfruttamento capitalistico, una forte redistribuzione della ricchezza e una socializzazione dei mezzi di produzione.

Con la fine dell’esperienza socialista sovietica, Cuba – che orientava l’85% del suo commercio internazionale nel COMECON – venne travolta da una grave crisi che  comportò l’esplicitarsi di quella drammatica fase socio-economica, che va sotto il nome di periodo especial, con il passaggio da un’economia di alcune scarsità alla povertà. Ciò nonostante dall’isola caraibica si alzò una voce di resistenza contro il capitalismo aggressivo a cui si consegnarono gli altri paesi, ma una voce  anche di costruzione di un socialismo diverso, perché diverse divennero le condizioni in cui necessariamente si dovette agire.

Grazie a un importante processo di modifiche, correzione degli errori, perfezionamenti, riadattamenti alle nuove condizioni nazionali e internazionali, si va verso l’attualizzazione di un socialismo dinamico pronto alle nuove sfide, nuovo perché orientato a un diverso contesto storico, economico e politico. Così  la rivoluzione cubana riuscì ad affrontare la crisi dell’economia nazionale e, allo stesso tempo, divenne un faro per tutti quei paesi che, in questo periodo caratterizzato dalla più sfrenata liberalizzazione dei mercati, soffrirono la rapacità del capitale internazionale. Non ci sarebbe stata sicuramente l’Alleanza Bolivariana se Cuba, in quegli anni difficili, non avesse resistito.

Passiamo alla storia dell’ALBA e ai primi passi compiuti da quest’alleanza politica antimperialista nel campo della cooperazione internazionale. Non si può trascendere dall’analisi di quell’interscambio di beni e servizi (cosiddetta “medici per petrolio”) tra Cuba e Venezuela, e nemmeno ci si può riferire a quest’ultimo caso nei termini di  una semplice operazione di baratto come troppo semplicisticamente viene spesso etichettato.

Centrale è la questione relativa ai prezzi delle merci scambiate: il valore dei beni transitati non viene identificato direttamente con la loro quotazione mercantile nazionale o internazionale, bensì in relazione a questa, gli viene attribuito un prezzo preferenziale che è considerato “giusto”.

Prendendo come spunto la questione del valore delle merci scambiate, qual è la relazione tra questi primi passi della cooperazione internazionale nell’ALBA e il pensiero terzomondista di Amin? Possiamo rifarci  in particolare alla teoria del Delinking di Amin, secondo cui il commercio internazionale, per favorire lo sviluppo dei paesi più arretrati, dovrebbe basarsi su una legge del valore a base nazionale e rilevanza popolare, invece che sulla legge di valore del capitalismo mondiale?

L.V. Diamo continuità a ciò di cui parlavamo prima, anche per spiegare i primi passi dell’ALBA ponendoli in una dimensione storica di contesto in cui assume pieno significato il processo. Parallelamente alla resistenza di Cuba, in Venezuela la popolazione si ribellò a un governo nominalmente non fascista, ma di matrice socialdemocratica latinoamericana, fortemente legata agli interessi statunitensi nel paese. Da qualche decennio con Rita Martufi[3] effettuiamo lunghi viaggi di carattere politico e culturale in vari paesi dell’America Latina ed eravamo a Caracas anche nel 1989, quando la rabbia del popolo esplose in una grandissima protesta contro i piani di riforme neoliberiste che avevano affamato il paese. Una rivolta per il pane, per i beni alimentari di prima necessità, passata alla storia come “El Caracazo”. Proprio in quell’occasione si affacciò in maniera dirompente sulla scena politica la figura di un colonnello, Hugo Chávez: un militare democratico e progressista che, appellandosi al pensiero e all’esempio del  patriota Simón Bolívar, si rifiutò di sparare sui manifestanti, sul suo popolo.

Nel 1992 Chávez e il suo fronte provarono una ribellione civico-militare con l’obiettivo di instaurare un processo democratico che si sottraesse ai dettami dell’imperialismo. Il tentativo fallì, così Chávez finì in carcere dove avrebbe approfondito i suoi studi sui movimenti e le teorie rivoluzionarie, sul marxismo e, insieme a quello che sarà nei suoi successivi governi lo storico Ministro della pianificazione economica Giordani, avrebbe ripreso in maniera più sistematica lo studio su Gramsci.

Mi sia concesso sottolineare che il pensiero di Gramsci è vivo in America Latina molto più che qui in Europa, dove  il comunista italiano è stato spesso bistrattato da gran parte dei gruppi dirigenti delle organizzazioni e dei partiti storici del movimento operaio.

Riprendendo il filo del nostro discorso, Chávez avrebbe vinto per la prima volta le elezioni nel 1998. Con la sua vittoria iniziò un processo democratico partecipativo, antimperialista che agli albori non era fortemente caratterizzato da un orientamento politico socialista, bensì centrato sull’eredità del pensiero Bolivariano e basato su una forte redistribuzione della rendita legata al petrolio. Aver sottratto la rendita alle multinazionali significò metterla a disposizione dello sviluppo nazionale equilibrato, socialmente sostenibile,  incentrato sugli investimenti di carattere sociale e in primis sulla lotta alla povertà, all’analfabetismo.

Chávez cominciò negli anni a guardare con sempre maggiore simpatia e affinità al socialismo cubano; tra lui e Fidel nacque quel  vincolo forte di profonda amicizia, di stima reciproca, di comunione di intenti rivoluzionari antimperialisti e anticapitalisti, che nel 2004 portò alla nascita dell’Alternativa Bolivariana. L’idea dell’ALBA era fortemente chavista e imperniata su un principio fondamentale: lo scambio solidale e complementare, fuori e contro le leggi del profitto, quindi dello sfruttamento. Un modello di relazioni economiche  che si regge, non sulla legge del profitto del mercato internazionale dettata dalla teoria dei vantaggi comparati, ma sul conseguimento del maggior benessere possibile per i popoli. La complementarità e la solidarietà dei vantaggi cooperativi, mettendo a disposizione i punti di forza di ogni singolo paese, fomentano uno sviluppo regionale condiviso ed integrato, combattendo contro ogni ingerenza imperialista.

Ovviamente, dobbiamo pensare alle condizioni oggettive in cui germogliò l’ALBA: il Venezuela è un paese fortemente a connotato estrattivo che si regge sulla rendita dell’esportazione petrolifera. D’altro canto Cuba è un paese povero di risorse – eccetto che per  grandissime quantità di zucchero, caffè e nichel – ma che negli anni di governo rivoluzionario socialista ha sviluppato un grandissimo valore nella formazione di talento umano nel campo della salute e dell’educazione, dello sport, della ricerca.

Lo scambio solidale e complementare arrivò naturale: Cuba mise a disposizione prestazione di servizi e assistenza tecnica per migliorare le disastrose situazioni nella Sanità e nell’Istruzione venezuelane, prodotte dal colonialismo e dai governi servi dell’imperialismo USA; il Venezuela ricambiò con petrolio a prezzi altamente preferenziali. L’”esperimento” riuscì: Cuba poté uscire dalla difficoltà del “periodo especial” e l’ONU, dopo pochi anni, dichiarò il Venezuela paese libero dall’analfabetismo. In tutti i quartieri di Caracas i bambini iniziarono per la prima volta a frequentare stabilmente la scuola, e si cominciarono  a vedere  presidi permanenti dei medici cubani che portano assistenza a comunità tradizionalmente escluse.

In questi anni, l’Alternativa si trasformò in Alleanza Bolivariana per i popoli della Nuestra America, grazie alla partecipazione di altri paesi: per prima la Bolivia di Morales[4] -primo presidente indigeno della storia, seguita dall’Ecuador di Correa e dal Nicaragua del sandinista Daniel Ortega.

Ma arriviamo alla questione che tu poni più direttamente nella tua  domanda: in effetti concreti e immediatamente visibili nei grandi risultati sociali, il perno della cooperazione che si sviluppa nello schema dell’ALBA è determinato dal passaggio dalla teoria dei vantaggi comparati, che guida il mercato capitalista internazionale, alla teoria dei vantaggi cooperativi che si basa sulla complementarità e solidarietà tra i popoli.

Hai ragione quando affermi che per sminuire questa nuova teoria e pratica della cooperazione complementare e dello sviluppo a compatibilità socio-ambientale l’hanno etichettata come un ritorno al baratto. In realtà è un passaggio fondamentale perché, in un processo di transizione al socialismo – di questo stiamo parlando – si realizza nei fatti un’inversione fondamentale, che vede un’area ratificare un accordo in cui si crea uno spazio di sviluppo condiviso che convive sì con il mercato, ma non con la legge del profitto capitalista, un  socialismo diciamo così con mercato, ma non di mercato. Un’area in cui è importante, non la legge del valore in termini di relazioni capitalistiche dello sfruttamento, ma la consolidazione di valori attraverso una nuova modalità di relazioni economiche tra gli Stati orientata alla redistribuzione del reddito e della ricchezza; alla creazione di spazi fuori mercato e d’imprese di natura sociale, che pur convivendo anche con la proprietà privata, gettano le basi per una socializzazione dei mezzi di produzione.

Sulla questione dei prezzi e dell’analogia con il concetto di disconnessione di Amin: io credo che l’ALBA non vada etichettata con specifiche formule, soprattutto perché in essa convivono vie, percorsi, e processi  in divenire, per e al socialismo differenti tra loro. Per fare un esempio, infatti, ai fini dell’elaborazione di un “modello ALBA”, in quanto area economica anticapitalista e caratterizzata dalla pianificazione socialista, ancor prima di Amin, potremmo parlare del COMECON. Dove, però, era esclusivamente il modello sovietico l’esempio per i paesi che vi aderivano. Al contrario, anche un poco attento conoscitore del processo di transizione socialista latinoamericano nota la sostanziale differenza tra il socialismo di Cuba e, per esempio, la revolución ciudadana in Ecuador, il socialismo bolivariano del Venezuela, o il socialismo comunitario in Bolivia. D’altro canto, quando Samir Amin o Hosea Jaffe proponevano il “Delinking”, lo facevano in un momento in cui, eccetto l’URSS, non esistevano realtà politiche anticapitaliste. C’era quindi la necessità di uno sganciamento per fermare la presunta – secondo le loro analisi – estorsione del surplus della classe lavoratrice del nord ai danni di quella del sud, e c’era la necessità di farlo attraverso una disconnessione dall’azienda mondo capitalista.

L’ALBA, invece, è un progetto fortemente politico, ancor prima che economico: è un’alleanza per la transizione al socialismo che non si pone solo l’obiettivo di un mercato alternativo più giusto e equo, ma è finalizzata alla costruzione di un fronte politico antimperialista e anticapitalista. Il Venezuela presenta ancora un forte legame con l’economia nordamericana, ed è giusto sottolinearlo perché risulta cruciale tenere a mente che stiamo parlando di un processo di trasformazione in itinere. In una fase di transizione socialista, la nuova società convive con leggi monetarie, mercantili, la stessa legge del valore, quindi con i paradigmi del mercato che deve man mano dismettere in funzione dei rapporti di forza che si vanno a determinare come conseguenza della ancora vigente lotta di classe. Per capirlo basta leggere “La critica al programma di Gotha” di Marx, in cui meglio di ogni altra opera il filosofo tedesco spiega questi concetti, percorsi, passaggi e tappe intermedie dei processi reali di trasformazione.

Il punto fondamentale è sempre e comunque la strategia, l’orizzonte ultimo a cui si ispira e si orienta l’agire politico ed economico.

Nella strutturazione della teoria dei vantaggi cooperativi centrale è la complementarità solidale, già  individuata come fattore cruciale per il conseguimento dello sviluppo da Prebisch negli anni’60. La complementarità promossa dalla CEPAL, però, era in funzione di una crescita dei mercati nazionali e non orientata, come nell’ALBA, a uno sviluppo equilibrato regionale.

Possiamo dire, allora, che l’aspetto più rivoluzionario dell’ALBA nel dibattito teorico sull’integrazione regionale – e che la differenzia dalle due grandi ondate di regionalismi  latinoamericani (quelli  promossi dalla CEPAL negli anni’60, e quelli di matrice neoliberista degli anni’90) – sia rappresentata dagli altri princìpi che accompagnano la complementarità? Mi riferisco in particolare al principio della”non reciprocità”[5], del “trattamento differenziato solidale”[6]e del “commercio compensato”[7].

L.V Sì, condivido e aggiungo che non mi meraviglia il fatto che l’ALBA si allontani dalla concezione “cepalina” dell’ integrazione regionale. Il pensiero della CEPAL aveva un’impostazione keynesiana e con connotati fortemente sviluppisti e quantitativi. L’ALBA, al contrario, propone un modello di sviluppo qualitativo e di produzione altro, differente dal modello sovietico, ma non per questo non definibile socialista.

I criteri che tu hai sottolineato sono fondamentali, perché  tutti insieme, formando la teoria dei vantaggi cooperativi o complementari, rappresentano la rottura non solo con esperienze antecedenti latinoamericane, ma anche con una concezione capitalistica dello sviluppo. La “non reciprocità” ne è un chiaro esempio: a determinare lo scambio tra i paesi non è ciò che può portare il libero commercio ad un singolo paese, bensì  si mettono a disposizione di un’area economica solidale, e animata da principi comuni, i punti di forza dell’economie nazionali, al di là di ciò che si ottiene in cambio e in funzione di una redistribuzione della ricchezza sociale.

Non potremmo spiegare lo scambio “medici per petrolio” se non comprendiamo questo: alle condizioni prima esposte, i medici offerti da Cuba valgono molto di più del petrolio con cui il Venezuela ricambia l’assistenza tecnica e sociale ricevuta, ma lo scambio non avviene seguendo i dettami del mercato capitalista. La grandezza, non economica, ma politica e morale dei due paesi è stata decisiva nel determinare che lo scambio fosse realizzato. Se dovessimo affidarci ai parametri quantitativi capitalisti, formare un medico o un insegnante cubano non sappiamo a quanto petrolio venezuelano equivarrebbe -probabilmente si arriverebbe a dedurre che lo scambio è svantaggioso per Cuba – ma, appunto, non è la reciprocità ciò che si cerca nelle relazioni all’interno dello schema bolivariano, ma l’appianamento delle diseguaglianze.

Per intendere ciò bisogna tenere bene a mente che il socialismo nel ventunesimo secolo in America Latina è la contaminazione tra la filosofia andina dei popoli originari del Buen Vivir e il marxismo, di cui una delle migliori e più attente espressioni sono gli scritti di  Álvaro García Linera, Vice presidente boliviano.

In questo incontro dialettico, i parametri, anche quantitativi, incontrano e si modellano non al benessere, al vivere meglio nelle diseguaglianze, ma al Vivir Bien e alla sua concezione multidimensionale e qualitativa dello sviluppo. Il risultato è un socialismo comunitario, per alcuni versi ancestrale – che parte dalle grandi tradizioni maya e azteche. Un socialismo fondato sulla cooperazione tra i popoli e sulla solidarietà, non in termini caritatevoli[8], ma di relazioni orizzontali tra gli Stati finalizzate a uno sviluppo equilibrato.

La grande sfida è orientare la cooperazione internazionale tra i paesi all’emancipazione delle classi sfruttate. Nell’ALBA è forte la partecipazione della comunità organizzata, passando non solo da una concezione “mercatocentrica” a una “statocentrica”, ma meglio assumendo una visione “sociocentrica”. La “garanzia” che le risorse messe a disposizione siano orientate al beneficio delle comunità con un debito sociale più grande potrebbe essere data proprio dal coinvolgimento e, appunto, dalla loro organizzazione.

La domanda è: come prende forma questo passaggio nella sfera prettamente economica del processo?

L.V Inizialmente, negli approcci ai diversi sistemi di pianificazione socialista dell’ALBA, laddove si sta applicando concretamente, ho trovato curiosamente delle difficoltà di analisi valutative sia in termini qualitativi sia anche negli stessi risultati quantitativi, perché i dati non rispondevano spesso alle differenti realtà economico–produttive e gli schemi teorici all’implementazione fattuale pratica. Nella teoria e nella prassi del socialismo, la pianificazione è sempre stata un’attività economica fortemente centralizzata. Nell’ALBA, e significativamente a Cuba in particolare – oggi la più grande esperienza di socialismo possibile e  realizzato -, è partita una sperimentazione di convivenza tra pianificazione centralizzata e decentralizzata. 

Perché questo fatto si ricollega con la tua riflessione sul ruolo delle comunità? C’è un piano centrale che stabilisce gli obiettivi e le risorse da mettere a disposizione, la distribuzione di queste, ma poi sono le comunità locali a determinare quali sono le possibilità concrete  per lo sviluppo locale. Questo è cruciale nel massimizzare l’efficacia e l’efficienza delle risorse a disposizione ed è una novità teorica e pratica nel socialismo. Un esempio sono le Sedi Universitarie Municipali a Cuba, dove i curricula e quindi la preparazione accademica fornita agli studenti, deve essere finalizzata alle potenzialità produttive di quel territorio. La strutturazione economica produttiva di Pinar del Rio, ad esempio, è diversa da quella di Santiago, per cui anche la formazione delle professionalità deve essere diversa, perché indirizzata a massimizzare la capacità produttiva. Questa è una novità assoluta nella storia del socialismo.

Abbiamo parlato della razionalità sociale della cooperazione tra i paesi dell’ALBA. Per la costruzione del Socialismo del – o come preferisce lei per e nel –  ventunesimo secolo, sarà naturalmente cruciale la razionalità sociale coniugata a quella  economica nel modello produttivo delle singole economie nazionali.  Analizzando l’Alianza Bolivariana possiamo comunque entrare nella sfera produttiva trattando la questione delle imprese “Grannacionales”.[9] Qual è il reale stato d’avanzamento di questa nuova impresa “multistatale”?

L.V Le imprese Grannacionales sono un progetto importantissimo, ma ancora in costruzione. C’è ancora molto da fare, come nel piano della diversificazione produttiva, nella costruzione dei distretti socialisti e nella sperimentazione di altre imprese di natura  pubblica e sociale, la maggior parte a struttura cooperativa.

Il fatto di convivere con l’economia di mercato, in questa che sarà una lunga fase di transizione, comporta dei grandi passi avanti ma anche delle difficoltà. Facciamo un esempio a riguardo: nella transizione, ovviamente, continua e spesso si inasprisce il conflitto di classe; oggi la rivoluzione bolivariana è sotto attacco imperialista attraverso la guerra economica e speculativa che ha scatenato e sta scatenando l’opposizione venezuelana e che ha provocato una forte inflazione speculativa. Sottraendo dal mercato nazionale le merci prodotte in Venezuela, per mandarle in Colombia e poi farle reimportare “dollarizzate” in Venezuela, si provocano effetti economici destabilizzanti dovuti in particolare alla conseguente creazione di un importante mercato nero del dollaro e alla formazione di altissimi prezzi dei prodotti. Lo scontento suscitato così da tale guerra economica tra la popolazione, inoltre, rende difficile anche l’avanzamento del processo socialista su alcuni campi cruciali, come per esempio quello produttivo. L’esempio serve per capire che il raggiungimento dell’obiettivo finale, ossia la socializzazione dei mezzi di produzione, richiede tempi lunghi e incerti. Non solamente a causa di ostacoli economici, ma anche a problematiche di natura differente, cioè alla dinamica dei rapporti di forza determinati da una dura fase della lotta di classe in cui l’opposizione oligarchica è lo strumento di intervento da parte dell’imperialismo.

Non possiamo fare previsioni sicure su questo: nelle fasi di transizione al socialismo persiste la lotta di classe, spesso con aspri e aperti conflitti. La riuscita, come la durata del  processo, il suo consolidamento rivoluzionario in fase avanzata e in chiave socialista della transizione, dipendono in buona parte dalla capacità di portarla avanti in maniera virtuosa, attenta, sviluppando tattiche intelligenti, sempre nella tenuta della strategia socialista e dalla forza reale delle soggettività rivoluzionarie in campo. Maduro in questi ultimi mesi ha ben agito e, con il coinvolgimento delle strutture del potere popolare, ha reagito in termini di potere di classe, ponendo la questione non solo sul consolidamento delle strutture di imprese statali, sociali, nazionalizzate o Gran Nazionali, ma lavorando affinché aumentasse il potere popolare nel controllo della produzione e della distribuzione. La vittoria del PSUV nelle ultime elezioni municipali l’8 Dicembre è frutto di questo intelligente e articolato percorso intrapreso che si è rivelato vincente.

E quanto sarà importante per il fronte antimperialista, insieme alla lotta per il controllo popolare, quella per l’egemonia culturale? Mi riferisco, in termini gramsciani, alla capacità delle alleanza socialiste al governo di imporre una coscienza anticapitalista a livello regionale.

L.V La questione dell’egemonia culturale è, e sarà, nei prossimi anni di primaria importanza per il rafforzamento dei processi rivoluzionari dei paesi dell’ALBA. Continuando con l’esempio del Venezuela, ritengo cruciale il rafforzamento ideologico del Partido Socialista Unido de Venezuela e la sua trasformazione in un partito rivoluzionario “fino in fondo”, cioè con capacità di esprimere dirigenti e corpo militante preparato ad affrontare le dinamiche a volte impreviste e contraddittorie del processo rivoluzionario portandolo sempre più in un contesto di forte e irreversibile caratterizzazione socialista. Questo significa formazione e battaglia culturale. Ma c’è un altro concetto che tu, richiamando Gramsci, poni: la questione del  blocco storico, che non è il blocco sociale. Il blocco sociale è un fronte di interessi tra soggetti di classe con bisogni e interessi socio-politici simili, invece, il blocco storico è la possibilità delle alleanze di contesto per il rafforzamento della transizione nel processo rivoluzionario.

È su tutto ciò che, per esempio, si vanno misurando esperienze in altre parti del mondo che si ispirano al processo bolivariano e in generale alle proposte e modalità attuative dei percorsi politici e socio-economici dell’ALBA. Come la nostra proposta di costruire un’area euro-afro mediterranea con la partecipazione dei movimenti sociali, il sindacalismo di base, i comitati in difesa dei beni comuni.

Un’alleanza internazionalista tra i movimenti sociali, operai e del mondo del lavoro e del lavoro negato, che sia in  grado di rompere con l’Unione Europea pone allo stesso modo la questione del blocco storico. Quali sono le alleanze da stringere? Guardiamo all’Italia: i precari, gli immigrati, la classe operaia, intesa in senso largo come classe dei lavoratori, sono sicuramente le componenti sociali che più stanno soffrendo la crisi economica. Ma allo stesso tempo c’è una parte consistente di piccola borghesia, di piccoli imprenditori, di partite IVA, lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che esce tritata dalla costruzione del polo imperialista europeo, progetto della potente borghesia centrale del Vecchio Continente. Alla luce di questo, possiamo affermare che la sfida è sì economica, ma la questione dell’egemonia culturale, con tutto ciò che abbraccia e comporta, è oggi di primaria importanza politica.

Luciano Vasapollo ha esposto le sue proposte per affrontare la crisi sistemica del capitalismo in un pamphlet scritto con J. Arriola[10] e Rita Martufi, “Il risveglio dei maiali, PIIGS”. Edito dalla Jaca Book nel 2011 e riaggiornato nel 2012, è diventato un manifesto politico tradotto in Grecia, Spagna e Portogallo.[11] Il libro presenta un’accurata descrizione di  una strategia politica per la periferia dell’Europa –  appunto i PIIGS-, di rottura con L’Unione Europea e costruzione di un modello alternativo di sviluppo condiviso.

Professor Vasapollo, quali sono le vostre tesi e le vostre proposte per la realizzazione di un processo politico nella periferia europea, che possa consentire alle classi lavoratrici l’emancipazione dalla condizione di estremo sfruttamento in cui versa?

L.V Il nostro è un manifesto proposta che da quasi tre anni sta attraversando in vari paesi europei il dibattito e l’iniziativa politica di molti movimenti sociali, sindacati conflittuali -come la USB in Italia, organizzazioni politiche comuniste e  anticapitaliste – come la Rete dei Comunisti – alcuni centri sociali. Dibattito sulla rottura dell’Eurozona, contro la costruzione e il rafforzamento dell’Europolo Imperialista. Dall’ampliamento degli spazi  partecipativi di decisione democratica, non solo in ambito politico, passando per un miglioramento sociale conseguito attraverso una redistribuzione della ricchezza. Fino ad arrivare  a una necessaria pianificazione socio-economica, che permetta un uso razionale delle risorse naturali, ma anche un orientamento delle innovazioni tecnologiche  al benessere dei popoli e non al profitto delle élites. La nostra analisi va oltre la sola uscita dall’Euro, proponendo una serie di misure di politica economica a breve e medio termine (come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e abbattendo ogni forma di precarietà, il reddito sociale garantito per i disoccupati, il diritto all’abitare con piani di edilizia popolare, investendo nel sociale ed eliminando lo sperpero in opere inutili come la TAV, recuperando risorse a partire dal non pagamento del debito e dalla tassazione dei capitali o da una seria lotta all’evasione fiscale). Politiche sociali che possano rendere il processo fattibile, con campagne di lotte per un nuovo accumulo delle forze dei movimenti del lavoro e del lavoro negato, attraverso un forte protagonismo di classe dal basso.

La convinzione di fondo, infatti, è che abbandonare l’euro è  sì necessario, ma per farlo abbiamo la necessità – tutta politica – di un’alternativa radicale di sistema, percorribile e realizzabile con programmi tattici ma sempre con l’orizzonte strategico della transizione al socialismo.

Un’alternativa antisistema e di sistema sociale altro, perché affronta i percorsi del tentare le forme del fare socialismo, che può divenire concreta, in primo luogo, attraverso la concertazione tra i paesi della periferia mediterranea e, in secondo luogo, mediante un processo politico ed economico imperniato su quattro elementi/momenti, senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro. Per primo, la determinazione di una nuova moneta comune, LIBERA dai vincoli comunitari imposti alla moneta Euro. Poi, la rideterminazione del debito della nuova Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale (ALIAS). Inoltre, il rifiuto e azzeramento almeno di una parte del debito, iniziando da quello contratto con banche e istituzioni finanziarie. Per ultimo, la necessaria nazionalizzazione delle banche, accompagnata da una stretta regolazione della fuoriuscita di capitali dall’Area e la nazionalizzazione delle imprese dei settori strategici dell’economia (trasporti, energetico, telecomunicazioni), rafforzando il paniere dei beni collettivi a totale gratuità e proprietà pubblica, come scuola, sanità, università, pensioni, abitare per chi ha difficoltà economiche, formazione, saperi, etc.

Perché la vostra voce stona e si distanzia dalle proposte di riforma interna all’Unione Europea portate avanti da alcuni settori della sinistra nostrana? Non ritenete attuabile un processo riformista in Europa? E che relazione c’è tra la vostra proposta e l’indebolimento della democrazia che stiamo vivendo nei nostri paesi?

L.V In un contesto storico ed economico come quello attuale, la vera utopia è credere nella possibilità di risolvere il problema della povertà e dell’esclusione attraverso la riforma del sistema capitalista. Tutte le proposte di rigenerazione del capitalismo – ad esempio per mezzo di un nuovo contratto sociale – rappresentano solamente il progetto delle classi medio-alte contro gli interessi della la classe dei lavoratori, intesa in senso largo e che quindi comprende ovviamente disoccupati, le mille forme di precarietà del lavoro e del sociale, i non garantiti a vario titolo etc…

Questi settori della borghesia si muovono per tagliare reddito e diritti, vita al nuovo blocco sociale proletario, e  aspirano alla sopravvivenza di un capitalismo in grado di garantire maggiore estorsione di profitti e rendite. O, nel caso di altri settori meno alti della borghesia, ad un loro un miglioramento del  livello di consumo, abbattendo le pur minime forme di protezione sociale universalista. Le loro proposte, infatti, non apportano nulla per integrare le masse sfruttate o per eliminare il dramma sociale della disoccupazione, anzi lo peggiorano con il classico “mors tua vita mia”.

È una realtà che si ripete, quando nel corso della storia si è riusciti a porre dei limiti allo sfruttamento – anche solo con il miglioramento di parti di classe medio alte -, lo si è potuto fare solamente contraendo e peggiorando le condizioni delle classi subalterne proletarie e in aree molto limitate del sistema, alimentando allo stesso tempo il sistema imperialista ai danni di altre aree periferiche mondiali, dove si generava un maggiore sfruttamento, in grado di compensare la riduzione dei profitti nel centro del sistema. Inoltre, questa volta sono entrati in gioco i grossi potentati europei, banche, finanziarie, multinazionali, poteri forti. La borghesia centrale europea, che ha agisce per rafforzare l’Europolo imperialista e l’area dell’euro nella competizione globale con l’imperialismo statunitense, per competere, non solo commercialmente, ma anche in ambito monetario con il dollaro.

La nostra proposta, invece, è un’alleanza tra paesi che si dotino di un percorso autodeterminato di democrazia partecipativa, con spazi produttivi e commerciali anticapitalisti, con modalità di sviluppo autodeterminato a sostenibilità socio-ambientali, in grado di sottrarsi e sconfiggere le spietate logiche capitaliste, rompendo la subalternità e accettazione dei dettami neoliberisti e antisociali della troika, BCE,  FMI e Commissione dell’Unione Europea.

Quando ci ispiriamo all’ALBA latino-americana, non diciamo che tale modello si possa esportare, ma ci riferiamo alle condizioni favorevoli per intraprendere il processo cui auspichiamo di costruzione di un’area d’interscambio solidale, complementare, che abbia le gambe per percorrere strade verso la transizione socialista.

Dobbiamo guardare a quei paesi che hanno delle caratteristiche in comune e complementari anche produttivamente, all’Europa mediterranea, all’Est europeo e all’Africa mediterranea, e comprendere che l’unica risposta alla crisi per le classi sfruttate è un’alternativa politica di sistema. Un’alternativa tutta politica che si opponga alla perdita della sovranità popolare autodeterminata e ai meccanismi di lento ma inesorabile strangolamento imposto dalle banche e dal potere economico di una nuova e potente borghesia centrale europea a guida tedesca. Una strada rivoluzionaria che sappia imporre con le lotte, con l’obiettivo del potere politico d’alternativa di sistema, la nazionalizzazione dei gangli vitali per le economie nazionali e allo stesso tempo disegni un’economia solidale, complementare con la possibilità, anche da subito,  di scambi fuori mercato o di mercato altro non sottoposto alle leggi del profitto. Un processo che sappia far fronte anche alla urgente  necessità della sostenibilità socio-ambientale.

 L’augurio che vi fate come autori alla fine del libro – ma soprattutto come intellettuali militanti marxisti – è che l’analisi e le proposte teoriche riportate possano servire a chi lotta nei movimenti sociali, nei sindacati conflittuali e indipendenti di classe, nelle organizzazioni comuniste, nell’ambito politico culturale di impostazione marxista. In altri termini, che questo pamphlet/manifesto-politico possa contribuire a una più forte e cosciente costruzione del conflitto sociale a livello transnazionale, in un rinnovato internazionalismo di classe. 

L.V Questo  che proponiamo è un processo rivoluzionario, un percorso di classe per  un’alternativa all’evoluzione intrapresa dal sistema capitalista mondiale, che sta conducendo verso un radicale indebolimento dei meccanismi democratici e di partecipazione sociale.

Se non voltiamo pagina decisamente, non solo la democrazia di base e partecipativa, ma la stessa strutturazione dei principi modernizzatori evolutivi della democrazia borghese continuerà a perdere la propria consistenza, il proprio valore emancipatore,  per trasformarsi in cappio sociale senza alternativa, come oggi sta già avvenendo, a causa una crisi del capitale che non ha via di ritorno. L’evoluzione aggressiva e rapace del modello di sviluppo capitalista ci ha condotto in una situazione dove le richieste democratiche appaiono come aspirazioni radicali. Creare nuovi strumenti di conflitto capitale-lavoro comporta il bisogno di una maggiore partecipazione alle istanze democratiche costruite nella lotta, nel conflitto. C’è l’urgenza di una ricomposizione di un blocco sociale ampio e forte, capace di agire in una condizione socio-economica in cui anche le richieste di maggiore democrazia e partecipazione diverranno conflittuali e anti-sistemiche.

È il momento di lanciare un’iniziativa politico-economica dal basso, per la realizzazione di un modello produttivo altro basato sulla distribuzione del lavoro, del reddito e dell’accumulazione del capitale, su un’economia del valore d’uso che possa diffondere e distribuire la ricchezza sociale che la classe dei lavoratori realizza, che produce.

Solo così si può concretamente realizzare la costruzione e il consolidamento del sistema post-capitalistico avviato alla transizione socialista, che noi abbiamo disegnato. È cruciale la partecipazione democratica dal basso – ripeto – non solo nella vita politica, ma anche economica e culturale.

Tutto ciò perché siamo fermamente convinti che da questa crisi non se ne esce con irrealizzabili e anacroniste proposte economiche liberiste, o keynesiane di sinistra che fossero. Il capitalismo giunto a questa fase di sviluppo, o meglio di regressione nella crisi sistemica, non ha più possibilità di essere riformato. Dalla crisi del capitale se ne esce con la politica, con una nuova politica rivoluzionaria, che ponga al centro i bisogni del mondo del lavoro, del non lavoro e del lavoro negato. Un percorso con molte tappe tattiche intermedie, lungo ma sempre nella strategia rivoluzionaria di fare e costruire da subito socialismo. Rimane centrale l’ammonimento della grande Rosa Luxemburg: “Socialismo o Barbarie !”. Tutto il resto sono chiacchiere inutili e compatibili al perpetuare di un sistema capitalista capace di distruggere non solo se stesso, ma l’intera umanità…

 

Nella scrittura cinese l’ideogramma “crisi” è composto da due segni: il primo rappresenta il “pericolo”, il secondo si legge come “opportunità”. Le riflessioni di Vasapollo, Arriola e Martufi danno gli strumenti per comprendere da dove viene quel grande pericolo che la crisi economica rappresenta per noi e, allo stesso tempo, anche per fare di questa crisi un’opportunità nella costruzione di una società più giusta, di liberi ed uguali.


[1] Luciano Vasapollo (1955), professore di  Metodi di Analisi dei Sistemi Economici alla « Sapienza» Università di Roma, Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali con i Paesi dell’ALBA; è anche professore all’Università de La Habana (Cuba) e all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río (Cuba). Direttore del Centro Studi CESTES e delle riviste PROTEO e NUESTRA AMÉRICA. Ha ottenuto nel 2011 la Laurea e dottorato Honoris Causa  in Scienze Economiche all’Università di Pinar del Rio (Cuba).   E’ “Miembro de honor” del Consiglio Accademico del Centro Studi del Ministero di Economia e Pianificazione della Repubblica di Cuba.   È medaglia per la Distincion «Por la Cultura Nacional» assegnata dal Ministero della Cultura della Repubblica di Cuba. «Miembro Distinguido» dell’ANEC (Asociación Nacional de Economistas y Contadores de Cuba). «Miembro pleno del Comité de Honor Científico» di SEPLA (Sociedad Latinoamericana de Economía Política y Pensamiento Crítico). «Miembro honorario Distinguido» de la Sociedad Mexicana de Economia Politica (SMEXEP). Vincitore del Concurso Internacional de Ensayo Pensar a Contracorriente . È autore o coautore di oltre 50 libri, molti dei quali tradotti anche in Europa, Stati Uniti e in America Latina.

[2] L’espressione “Nuestra America” deriva  saggio pubblicato  da Martì nel 1891, in cui  invitava i paesi dell’America Meridionale e dei Caraibi ad unirsi nella realizzazione di una Grande Patria.

[3] Ricercatrice socio-economica, membro del Comitato Scientifico del Centro Studi CESTES e del Comitato di Programmazione Scientifica della rivista PROTEO (rivista quadrimestrale di analisi delle dinamiche economico-produttive e di politiche del lavoro) e della rivista NUESTRA AMERICA (rivista quadrimestrale di analisi socio-politica e culturale sull’America Latina) delle quali è Direttrice Redazionale. E’ membro del Comitato Scientifico e del Direttivo Internazionale del Laboratorio per la Critica Sociale Europeo (LCS).

[4] Con l’entrata della Bolivia, si aggiunge all’acronimo ALBA la sigla TCP. La sigla  vuol dire “Tratado de Comercio de los Pueblos”, il modello  commerciale antagonista ai Trattati di Libero Commercio offerti dagli USA ai paesi del subcontinente,  voluto da Evo Morales, a cui si ispirano le relazioni commerciali tra i paesi dell’ALBA.

[5] La “non reciprocità” stabilisce che un  paese non debba obbligatoriamente concedere o  rendere reciproci  negli stessi termini gli accordi che gli sono concessi da altri paesi.

[6] Il “trattamento differenziato solidale” stabilisce che, nella scelta delle misure commerciali che si applicheranno possano essere considerate le condizioni sociali del paese in questione.

[7] Con il “commercio compensato” ci si riferisce alla possibilità concessa ai paesi importatori di pagare una parte del debito contratto con la compensazione in beni e servizi.

[8] Potremmo descrivere la differenza  tra il concetto di Solidarietà e  di Carità con le parole dell’intellettuale uruguaiano Eduardo Galeano: “A diferencia de la solidaridad, que es horizontal y se ejerce de igual a igual, la caridad se practica de arriba hacia abajo, humilla a quien la recibe y jamás altera ni un poquito las relaciones de poder”. Secondo Samora Moisés Machel (primo Presidente del Mozambico indipendente, 1975-1986) “la solidarietà, non è un atto di carità,  è un atto di unione tra alleati che combattono per gli stessi obiettivi in terreni differenti”.

[9] Nell’ ambito produttivo la ricerca dei vantaggi cooperativi consiste nella promozione congiunta da parte degli Stati di alcune imprese finalizzate a sfruttare le risorse materiali e immateriali di un singolo paese. Così i  punti di forza dell’economia di un paese vengono valorizzati e, senza limitare lo sviluppo del paese stesso, messi al servizio delle necessità della subregione. Queste imprese considerate strategiche sono appunto le Imprese Gran Nazionali.  Il concetto di Gran Nazionale, al momento attuale, non implica la creazione di una struttura sovranazionale, bensì  la definizione congiunta di grandi linee di azione politica comune. Le imprese Gran nazionali,  rispondono alla necessità di superare i confini nazionali nella pianificazione dello sviluppo produttivo, e di opporsi all’attività delle multinazionali che favoriscono gli  interessi dei grandi poteri economici. Queste imprese sono multi statali, ovvero di proprietà degli Stati. A questi  è affidata  una  centralità che consiste nell’attività di pianificazione, a monte garantendo alle imprese l’accesso alle risorse, e a valle  nel garantire l’accesso al consumo finale o industriale all’interno del mercato dell’ALBA. Nella fase di produzione e distribuzione, operano anche imprese miste, private e di natura sociale, come le cooperative e le unità di produzione sociale.

[10] Joaquin Arriola insegna Economia politica alla Universidad del Paìs Vasco/EHU a Bilbao. È membro del comitato scientifico di CESTES PROTEO.

[11] A Novembre del 2013 è uscito  per la casa editrice “L’ideAle” un fumetto liberamente tratto dal “Risveglio dei maiali. PIIGS”. Nel libro, intitolato “Vita da Pigs”, il Collettivo “Briganti Sempre” ha illustrato e raccontato la storia di un giovane comune, che metaforicamente rappresenta i drammi sociali causati dalla cristi sistemica che stiamo attraversando. Dal corso di quest’illuminante storiella fuoriesce anche la necessità di un protagonismo collettivo nelle lotte, che possa proiettarci strategicamente verso la costruzione, anche in Europa ma fuori dall’Unione Europea, di un’area a forte connotato solidale.

Un libro che non perde d’attualità: Talpe a Caracas

di David Lifodi,  danielebarbieri.wordpress.com

Il sottotitolo di Talpe a Caracas, il libro di Geraldina Colotti dedicato alla rivoluzione bolivariana, è semplice e al tempo stesso molto azzeccato: Cose viste in Venezuela. La giornalista del manifesto ha indagato di persona su tutti gli aspetti della realtà chavista, ha toccato con mano, ha parlato con le donne e gli uomini che credono nel sogno bolivariano, ha svolto cioè quel lavoro d’inchiesta che ogni giornalista dovrebbe condurre e invece, almeno nel caso del Venezuela, solo in pochi hanno fatto. Troppe le bugie e i titoli ad effetto sparati in prima pagina al solo scopo di delegittimare Hugo Chávez e la sua revolución, molto spesso anche ad opera della stampa che si proclama democratica.

Talpe a Caracas è uscito nell’agosto del 2012, ma il colpevole ritardo con cui scrivo questa recensione non significa che il volume abbia perso d’attualità: sotto la presidenza di Nicolás Maduro, almeno finora, proseguono tutti i progetti del proceso, l’appellativo con cui i venezuelani chiamano la rivoluzione bolivariana. Il primo merito del libro di Geraldina Colotti, innegabile anche agli occhi di un oppositore del movimento bolivariano purché imparziale, è quello di ripercorrere a tappe la storia del Venezuela, inframezzandola con i racconti dei prigionieri politici oggi deputati all’Assemblea Nazionale oppure operai delle fabbriche autogestite. Coloro che descrivono il Venezuela come il buco nero della democrazia e Hugo Chávez come un caudillo non ricordano, oppure fingono la loro smemoratezza, in merito al Patto di Punto Fijo del 1958 che ha sancito, fino all’avvento del presidente bolivariano, l’alternanza della grande coalizione adeco-copeiana: “Acción Democrática (Ad) e Comité de Organización Política Electoral Independiente (Copei) firmarono il famoso Patto di Punto Fijo con cui misero la camicia di forza alle aspirazioni dei settori popolari: qualunque progetto politico che ipotizzasse il superamento radicale dell’ordine esistente sarebbe stato considerato illegale e perseguito”. Geraldina Colotti ha viaggiato per il paese facendo emergere gli aspetti positivi e le contraddizioni del chavismo, ma soprattutto sottolineando il gioco sporco dei padroni. Parlando delle fabbriche autogestite, l’autrice dà la parola ad un delegato sindacale della fabbrica di birra Polar: nel settore privato, scrive Geraldina, il conflitto di classe è ancora molto duro. La Polar, racconta il delegato sindacale, “gestisce ancora dieci prodotti base del paniere, può creare inflazione truffando lo stato. Ritirano i prodotti dal mercato, li nascondono per creare allarme e dicono che Chávez non dà da mangiare al suo popolo.

Nel 2002, durante lo sciopero selvaggio dell’opposizione, non hanno voluto consegnare gli alimenti, però li distribuivano ai lavoratori della Polar che appoggiavano i padroni: per fargli capire l’aria”. È molto interessante anche il capitolo dedicato alla polizia. In tutta l’America Latina i militari sono automaticamente collegati alla repressione, si pensi alla violenza che contraddistingue le operazioni della polizia e dell’esercito in paesi che eppure sono politicamente distanti anni luce tra loro, la Colombia e il Brasile, o all’estrema violenza con cui agiscono gli agenti degli stati centroamericani. Al contrario, in relazione alle politiche di sicurezza, il governo ha inaugurato la Misión Seguridad, un piano che comprende la formazione della polizia, ma interessa anche la riforma del sistema penale, in base al quale sono allo studio misure alternative alla detenzione. Si tratta di misure coraggiose in un paese tra i più violenti del continente latinoamericano. Non solo si gioca su slogan positivi volti alla rieducazione dei detenuti, da malandros (malandrini) a bienandros, ma si lavora anche sulla trasformazione dei poliziotti in difensori dei diritti umani “nella prospettiva di uno stato socialista”. La polizia, secondo il progetto bolivariano, “deve ricevere una formazione continua per andare nelle strade e svolgere attività sociale di prevenzione”. Prima dell’arrivo del chavismo al palazzo presidenziale di Miraflores, la polizia venezuelana era rinomata per commettere ogni tipo di abuso nella più totale impunità: spesso gli agenti giungevano all’improvviso nei quartieri popolari e rastrellavano i giovani di leva per il reclutamento forzato. Allo stesso tempo, ad un progetto che, all’interno del carcere, mira al recupero del detenuto e al suo reintegro nella società , corrisponde anche un lavoro specifico sull’operato degli agenti penitenziari. Sulla questione carcere-sicurezza emerge lo sguardo particolare, e al tempo stesso delicato, dell’autrice, che ha scontato una condanna a 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse. Scrive infatti Geraldina: “Negli anni in cui il modo migliore per dare sostegno alle altre cause nel mondo era quello di cambiare le cose in casa propria, non c’era tempo per viaggiare, se non con la valigia leggera della clandestina. Dopo, mi sarebbe piaciuto <<andare a vedere>>, ma essendo ancora detenuta, potevo solo osservare a distanza, schivando le innumerevoli trappole della disinformazione”. E allora Geraldina ha scavato nel profondo di una società venezuelana probabilmente davvero polarizzata tra i chavisti e coloro che nutrono per il proceso un odio viscerale, ma raccontando, quasi l’unica tra i giornalisti italiani e occidentali, la rivoluzione bolivariana dall’interno, permettendo al tempo stesso a noi cultori dell’America Latina, di scoprire cose interessanti. Ad esempio, se è vero che le alte gerarchie ecclesiastiche hanno appoggiato il golpe del 2002 e che la Chiesa è in gran parte allineata con l’opposizione, esistono anche religiosi vicini al proceso, compresa una suora originaria di Reggio Emilia, Chiara, proveniente da un percorso nell’estrema sinistra italiana antecedente alla vocazione, ed un piccolo nucleo di suore italiane. Alcun sacerdoti di frontiera sono stati minacciati dal vescovo di riferimento per il loro legame con il chavismo, altri sono stati spediti in parrocchie di quartieri della classe medio alta a seguito dell’effimero golpe del 2002, che sembrava poter incoronare alla presidenza del paese l’imprenditore della Confindustria venezuelana Pedro Carmona Estanga. Anche in ambito religioso Geraldina Colotti smentisce un’altra grande balla utilizzata per gettare la croce addosso a Chávez: il presidente bolivariano, quello che tutta la stampa ha accusato per anni di voler imporre una Costituzione su misura, era contrario all’aborto e all’eutanasia e non ha mai negato i finanziamenti alle scuole private, eppure la Chiesa d’apparato ha continuato a descriverlo come il diavolo.

È vero, come scrive l’autrice, che in Venezuela si sta giocando la partita più importante delle attuali vicende bolivariane e in molti, quantomeno in Italia, non sembrano averlo capito. Del resto da noi il proceso bolivariano è praticamente sconosciuto e i pochi che ne hanno qualche infarinatura insistono a dire che, nel migliore dei casi, il Venezuela è nelle mani di un governo illiberale. Talpe a Caracas è un libro che ha un innegabile e dichiarato approccio militante, ma Geraldina Colotti ha indagato nel profondo del paese, per questo è un libro intellettualmente onesto che vale la pena di leggere.

Geraldina Colotti: Talpe a Caracas – Jaca Book, 2012, Milano

Italia: la riforma del “Punto Fijo”

Matteo Renzi, “canta” in omaggio a Silvio Berlusconi

di Vincenzo Basile, it.cubadebate.cu

Tra l’incertezza politica ed economica che affligge l’Italia, dopo nove anni di incessanti proteste cittadine contro l’attuale legge elettorale, formulata nel 2005 dall’allora Ministro per le Riforme, il leghista Roberto Calderoli, che successivamente la definì una “porcata”, oggi è approdato in Commissione per gli Affari Costituzionali della Camera dei Deputati un primo progetto-base per riformarla e per l’eliminazione del Senato della Repubblica (secondo ramo del Parlamento italiano).

 

Il progetto è il risultato di un paradossale accordo politico tra il giovane Matteo Renzi, Segretario Generale del Partito democratico (centro-sinistra), sindaco di Firenze e presentato con il volto del «rottamatore» della vecchia guardia politica, e Silvio Berlusconi, leader del ricostituito Forza Italia (centro-destra), recentemente espulso dal Senato a causa di una condanna penale definitiva per evasione fiscale, ed esponente di quella stessa vecchia guardia che Renzi aveva promesso di «rottamare».

 

Nel dettaglio, la nuova riforma prevede l’esistenza di due soglie di sbarramento per partiti e coalizioni di partiti, la cui legittimazione sarà garantita se otterranno rispettivamente l’8 e il 5% dei voti nazionali; introduce la possibilità di una seconda tornata elettorale se alle prime elezioni nessun partito o coalizione di partito ottiene almeno il 35% dei voti; riconosce un premio di maggioranza e la possibilità di controllare la Camera, nominando tra il 53 e il 55% dei deputati, al partito (o coalizione) che ottiene il 35% dei voti.

 

Stabilisce inoltre che i deputati non saranno eletti direttamente dai cittadini in quanto si conferma la presenza di liste bloccate, e quindi, la formazione, da parte del segretariato di ogni partito, di liste di candidati in ogni circoscrizione elettorale, ai quali gli elettori potranno solamente concedere – votando a favore di un partito – un tacito voto di approvazione, senza possibilità di fare proposte o esprimere preferenze alternative.

 

Restano quindi – almeno per il momento – completamente disattese le numerose manifestazioni popolari che negli ultimi anni sono state dirette, tra gli altri mali, contro due aspetti dell’attuale legge elettorale e sostanzialmente confermati in questa riforma.

 

In primo luogo, il premio di maggioranza, che dà il controllo del Parlamento e la possibilità di formare un Governo a un partito che ottiene poco più di un terzo dei voti (in un paese dove alle ultime elezioni l’astensione è stata del 25%).

 

E in secondo luogo, le liste bloccate, che espongono i deputati a ogni tipo di pressione politica e coercizione da parte del partito che li nomina discrezionalmente (spesso scegliendoli tra pregiudicati e altri personaggi con dei trascorsi poco puliti) e dalla cui decisione dipendono concretamente le loro future carriere politiche, il che di fatto li trasforma in delegati di partito e non in mandatari dei cittadini.

 

Di questo progetto – che sarà sottoposto ad un lungo periodo di discussioni parlamentari e modifiche – si prevede che il grande vincitore sarà il sistema bipolare, con due grandi partiti o coalizioni (centrosinistra e centrodestra) che con minime o quasi nulle differenze ideologiche e programmatiche si alterneranno al potere, lasciando fuori dalla scena politica i partiti più o meno minori e ignorando le speranze di legittimazione di un organo legislativo sempre più criticato per la sua mancanza di rappresentatività.

 

Nonostante tutti i cambiamenti che si potranno apportare durante il complesso iter parlamentare, il progetto di riforma già si identifica di per sé: una ratifica non troppo camuffata di vecchi schemi, stile il Pacto de Punto Fijo venezuelano, dove il diritto politico di un cittadino nasce, si sviluppa e finisce con una «X» su un simbolo vuoto che formalmente conferisce legittimità a una casta politica alienata e perpetratasi nel potere, e che – con modifiche di facciata e alleanze tra «rottamatori» e «rottamati» – è riuscita a imporre nella società l’idea che più partiti politici sono non solo condizione necessaria ma anche condizione sufficiente per far parte del cosiddetto mondo democratico.

Samán: «I nemici sono le corporazioni»

da correodelorinoco.gob.ve

«Il nemico non è il proprietario della salumeria sotto casa, il nemico sono le corporazioni e le catene (del settore alimentare). Il popolo deve essere cosciente di ciò» ha affermato il presidente dell’Istituto per la Difesa delle Persone nell’Accesso ai Beni e ai Servizi (Indepabis), Eduardo Samán.

Intervistato nel programma “En contexto”, trasmesso da ANTV, l’alto funzionario ha illustrato al pubblico venezuelano l’importanza di continuare a identificare i responsabili della Guerra Economica.

«Non possiamo confonderci di nemico in questa guerra. Se non capiamo chi è il nostro nemico siamo perduti. Chi sono i nostri nemici in questa guerra? In primo luogo, l’imperialismo; in secondo luogo Fedecamaras, Consecomercio, Venamcham; in terzo luogo, i loro partiti di opposizione, che fanno da lacchè», ha fatto notare.

Sui problemi nella distribuzione di generi alimentari, Samán ha criticato l’ubicazione geografica dei grandi supermercati a Caracas. «Le ispezioni continuano perché non possiamo abbassare la guardia», ha detto.

Il Presidente della Repubblica Nicolás Maduro ha annunciato la fusione di Indepabis e della Sovrintendenza ai Costi e ai Prezzi (Sundecop) per formare la Sovrintendenza ai Costi, Guadagni e Prezzi Giusti.

Infine, Eduardo Samán ha precisato: «La lotta contro la Guerra Economica deve continuare perché la borghesia ha sete di potere».

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Pier Paolo Palermo]

Assad all’AFP: la Conferenza di Ginevra deve portare a evidenti risultati nella lotta contro il terrorismo

SAFP: Signor Presidente, L’Agence France Presse vi ringrazia molto per questa intervista, di certo molto importante perché avviene prima della conferenza di Ginevra. – Cosa si aspetta da questa conferenza?

Tramite Sana.Sy

Assad: “La cosa più ovvia è che continuiamo a parlare della Conferenza di Ginevra che dovrebbe portare a evidenti risultati nella lotta contro il terrorismo in Siria e l’invio di terroristi, così come quello di denaro e le armi alle organizzazioni terroristiche, notoriamente dall’Arabia Saudita e la Turchia, e naturalmente dai paesi occidentali che forniscono copertura politica per queste organizzazioni. Questa sarebbe la decisione o il risultato più importante della conferenza di Ginevra. Qualsiasi risultato politico, senza la lotta contro il terrorismo non avrà alcun valore. Non è possibile avere una azione politica con il terrorismo che si diffonde ovunque, non solo in Siria, ma nei paesi vicini. Sul fronte politico, la Conferenza potrebbe essere un catalizzatore per il processo di dialogo tra gli stessi siriani. Se ci deve essere un intervento siriano si deve verificare all’interno della Siria, e Ginevra potrebbe essere un catalizzatore, ma non alternativo all’azione politica che si verifica tra i siriani all’interno Siria.

AFP: Signor Presidente, dopo tre anni di guerra distruttiva in Siria e la sfida della ricostruzione del paese, sarebbe possibile che nessun si candidi alle prossime elezioni presidenziali?

ASSAD: Dipende da due cose: la mia volontà o la mia decisione personale e l’opinione pubblica in Siria. Nel mio caso, credo che niente impedisca che mi possa candidare, quanto all’opinione pubblica in Siria, abbiamo ancora circa 4 mesi prima dell’annuncio della data delle elezioni . Nel frattempo, se c’è una volontà popolare, se il popolo mi vuole come candidato, non esiterei un secondo per farlo. In breve, possiamo dire che c’è una buona probabilità che mi possa candidare.

AFP:Ha pensato, anche per un momento negli ultimi anni, di perdere la battaglia? Ha preso in considerazione uno scenario alternativo per lei e per la tua famiglia?

ASSAD: In ogni battaglia, le possibilità di vittoria e la perdita sono sempre presenti, ma quando difendiamo il nostro paese, c’era una sola alternativa, quella di vincere. Perché se la Siria s perde la battaglia, significherà il caos per tutto il Medio Oriente. Non è solo la Siria . Non è una rivolta popolare contro un regime che opprime il suo popolo, o una rivoluzione per la democrazia e la libertà, come è stata presentata dai media occidentali. Tutte queste bugie sono ormai chiare a tutti . Una rivoluzione popolare non dura 3 anni e poi fallisce. Una rivoluzione non risponde alle agende esterne. Per quanto riguarda gli scenari ho messo in questo tipo di battaglia ci sono ovviamente molti, e si può andare da uno scenario a dieci. Ma tutti questi scenari sono per difendere la patria e non fuggire. La fuga non è un’opzione in questo caso. Devo essere in prima linea come difensore della patria. Questi sono gli unici scenari dal primo giorno della crisi finora.

AFP: Signor Presidente pensi di aver vinto la guerra?

ASSAD: Questa guerra non è mia, perché ho vinto. Questa è la nostra guerra a tutti i siriani . Penso che ci fossero due fasi di questa guerra che erano previsto all’inizio, cioè sovvertire lo stato siriano in poche settimane o mesi , e ora, dopo tre anni, possiamo dire che questo passo è destinato al fallimento, vale a dire che il popolo siriano ha vinto questa fase attraverso la quale alcuni paesi volevano attaccare lo Stato per raggiungere la divisione della Siria in piccoli mini-stati. Questa strategia è fallita e il popolo siriano ha vinto. Ma c’è un’altra fase della battaglia, ossia la lotta contro il terrorismo, che viviamo quotidianamente. E’ ancora in corso, e non si può parlare di vittoria in questo momento, senza aver eliminato definitivamente i terroristi. Possiamo dire che stiamo facendo progressi in questa direzione. Stiamo andando dritti al nostro obiettivo, ma non significa che la vittoria è imminente. Questo tipo di battaglia è complicata. Non è facile e richiede tempo. Ma ho detto e lo ripeto che stiamo facendo progressi, senza poter dire ora che abbiamo vinto.

AFP: Signor Presidente, tornando a Ginevra, voi supporterete un appello dalla conferenza affinché tutti i combattenti stranieri lascino la Siria, comprese quelli di Hezbollah?

ASSAD: E’ ovvio che la missione della difesa della Siria incombe sui siriani stessi, le loro istituzioni, tra cui l’esercito siriano. Nessun combattente non siriana sarebbe venuto se non ci fossero combattenti di decine di nazionalità dall’estero che hanno attaccato Hezbollah e i civili in Libano al confine siriano: quando parliamo di partenza di combattenti, è imperativo che questa sia una parte di un pacchetto per garantire che tutti i combattenti siano fuori e consegnino le armi al governo siriano, compresi i siriani . Occorre pertanto permettere la stabilità. La mia risposta ovvia sarebbe: Sì, non voglio dire che la partenza di una persona siriano non sia un obiettivo, ma è una parte della soluzione in Siria.

AFP: Signor Presidente, sullo scambio di prigionieri e il cessate il fuoco ad Aleppo, quali sono le iniziative che si è disposti a presentare a Ginevra 2?

ASSAD: L’iniziativa siriana è stata lanciata lì solo un anno fa, nel gennaio dello scorso anno. È un’iniziativa integrata da un punto di vista politico e della sicurezza con tutti i punti che conducono alla stabilità. Tutti questi dettagli fanno parte dell’iniziativa già avviata dalla Siria. Ma qualsiasi iniziativa, se questo o un’altra deve assolutamente essere il risultato di un dialogo tra siriani stessi. Tutto ciò che proponiamo richiede uno sfondo siriano a valle, a partire dalla questione della soluzione della crisi e la lotta contro il terrorismo e per completare la visione del siriano futuro politico della Siria e del sistema politico Siria. Inoltre, la nostra iniziativa è stata un facilitatore del dialogo e non un punto di vista del governo siriano. La nostra visione è sempre stata che qualsiasi iniziativa deve essere collettiva e provenire da tutte le forze politiche presenti in Siria e il popolo siriano in generale.

AFP : L’opposizione è divisa sulla partecipazione a Ginevra. Diverse fazioni sul terreno affermano che lei non rappresenti. Se entrambe le parti raggiungono un accordo, come potrebbe essere applicato sul terreno?

ASSAD: E’ proprio questa la domanda che ci poniamo come governo. Quando negozio con chi lo faccio! A Ginevra, ci dovrebbe essere più parti. Non sappiamo chi verrà. Ci dovrebbe essere più parti oltre il governo siriano. Tutti sanno ormai che alcuni dei soggetti con i quali si potrebbe negoziare erano inesistenti e che è apparso durante la crisi attraverso i servizi di intelligence stranieri, sia in Qatar, Arabia Saudita, Francia, Stati Uniti o in altri paesi. Quando mi siedo con la gente, vuol dire che negoziare con questi paesi. E’ logico che la Francia è parte della soluzione in Siria così come Qatar, Stati Uniti, Arabia Saudita e Turchia, per esempio? Questa è una follia. Quando negoziamo con queste forze , stiamo negoziando con i paesi che sostengono il terrorismo, e che lo supportano in Siria. Ma ci sono altre forze di opposizione siriane, con un ordine del giorno nazionale. È possibile negoziare con loro, come ho detto, sulla visione del futuro della Siria. Essi possono aiutarci a gestire lo stato siriano, nel governo e nelle varie istituzioni. Ma qualsiasi accordo con qualsiasi parte, sia a Ginevra o in Siria, deve assolutamente ottenere l’approvazione del popolo e attraverso un referendum generale al quale partecipa il cittadino siriano.

AFP: In questo contesto, gli accordi sul cessate il fuoco a Barza Mouaddamieh possono essere un’alternativa a Ginevra?

ASSAD: In realtà, questo potrebbe essere più importante di Ginevra. Questo è vero. Poiché la maggior parte delle forze ribelli che commettono atti terroristici non hanno alcuna agenda politica. Alcuni di loro sono bande di briganti, altri – come sapete sono organizzazioni takfiriste che mirano a stabilire Emirati estremisti islamici o qualcosa del genere. Tutte queste forze non sono in alcun modo limitate da Ginevra. Ecco perché lavorando a stretto contatto con queste forze è stato realizzata questa tregua a Mouaddamiyeh, Barza e in altre parti della Siria e si è dimostrata utile in quelle regioni. Ma è diverso dal punto di vista politico per quanto riguarda il futuro politico della Siria. Queste riconciliazioni contribuiscono a ripristinare la stabilità e ridurre lo spargimento di sangue in Siria. Ma questo è l’inizio di un dialogo politico che ho appena citato.

AFP: Signor Presidente, siete pronti ad un futuro governo di transizione con un premier dell’opposizione?

ASSAD: Dipende da cosa sia questa opposizione. Quando si rappresenta la maggioranza, dire una maggioranza parlamentare per esempio, è opportuno che presieda il governo. Tuttavia, avendo un primo ministro dell’opposizione che non ha la maggioranza, sarebbe contrario alla logica della politica in tutti i paesi del mondo. Nel vostro paese o in paesi come il Regno Unito, il primo ministro non può appartenere a una minoranza parlamentare. Quindi dipende dalle prossime elezioni siriane che determineranno il vero volume delle varie forze di opposizione. Per quanto riguarda la sua partecipazione, noi siamo per ciò che è nuovo.

AFP: Per esempio si è pronti ad avere come primo ministro Ahmad Al- Jarbe o Mouaz El- Khatib?

ASSAD: Si torna alla domanda precedente. Rappresentano il popolo siriano o anche una parte del popolo siriano? Hanno rappresentano la propria opinione, o meglio lo Stato che li hanno prodotti? Se partecipano, vuol dire che questi Stati partecipano al governo siriano! Delle due una: Supponiamo che accettassimo che queste persone partecipino al Governo. Sappiate che non osano farlo. L’anno scorso, hanno sostenuto di avere in pugno il 70% della Siria. Ma essi non osano venire con il 70% del terreno presumibilmente conquistato. Sono arrivati alla frontiera per una mezz’ora e poi sono fuggiti. Come possono diventare membri del governo? È un ministro può esercitare le sue funzioni al di fuori? Tali idee sono del tutto irrealistiche. Esse possono essere considerate come uno scherzo.

AFP: Signor Presidente, lei dice che dipende dalle elezioni. Ma come si possono svolgere le elezioni, mentre una parte del paese è nelle mani dei ribelli?

ASSAD: Durante questa crisi, dopo lo scoppio di disordini nella sicurezza in Siria, abbiamo condotto le elezioni due volte: prime elezioni comunali, e le seconde elezioni parlamentari. Ovviamente le elezioni non possono essere simili a quelli che si verificano in condizioni normali. Ma le strade sono percorribili in entrata da diverse regioni della Siria, tutti possono spostarsi da una regione all’altra. Pertanto, le persone che si trovano nelle regioni di tensione possono provenire da regioni limitrofe per partecipare alle elezioni. Ci saranno sfide, naturalmente, ma non sarà impossibile. Non c’è davvero nessun problema a riguardo.

AFP: Dal momento che ora i ribelli che combattono i jihadisti come si fa a distinguere tra i due?

ASSAD: Ho potuto dare una risposta nei primi eventi o anche prima della crisi. Ma oggi posso dire che la risposta a questa domanda è totalmente diverso perché non è presente in entrambi i gruppi. Tutti sanno che fino a pochi mesi fa, le organizzazioni terroristiche estremiste in Siria hanno preso il sopravvento sulle forze del passato che l’Occidente ha voluto presentare come moderata, o chiamandole “forze moderate” o “laico” o il cosiddetto “esercito libero”. Non esistono queste forze. Ora siamo in un partito, vale a dire le forze estremiste che sono gruppi diversi. Per quanto riguarda i combattenti che erano sul lato delle cosiddette forze “moderati”, secondo la logica occidentale, la maggior parte di loro sono stati costretti ad aderire alle organizzazioni estremiste, o per paura o per soldi. Dato che queste organizzazioni hanno enormi risorse finanziarie. In breve, ora combattiamo una parte, vale a dire gli estremisti indipendentemente dai nomi che i media occidentali danno a queste organizzazioni terroristiche.

AFP: E’ impossibile che l’esercito e i ribelli combattano contro i jihadisti?

ASSAD: Lavoriamo con chiunque voglia entrare nell’esercito per combattere i terroristi. Questo si è già verificato, come molte persone armate hanno lasciato queste organizzazioni e si sono unite all’esercito. E’ possibile, ma questi sono casi individuali e non possiamo dire che l’esercito è alleato con le forze moderate contro le forze terroristiche. Questa immagine è irreale. E’ illusoria. L’Occidente attualmente utilizza solo per giustificare il suo appoggio al terrorismo in Siria. Vuole sostenere un terrorista travestito da moderato per combattere il terrorismo estremista. E’ completamente illogico e falso.

AFP: I ribelli vi accusano di usare i civili come scudi umani in alcune zone che controllano. Ma non pensate che quando l’esercito ha bombardato queste aree poteva uccidere persone innocenti?

ASSAD: L’esercito non bombardare regioni colpisce i luoghi dove ci sono terroristi. In generale e nella maggior parte dei casi, quando i terroristi entrano in una regione, i civili vanno via. Altrimenti perché ci siamo spostati? La maggior parte degli sfollati in Siria, si contano a milioni, hanno lasciato le loro regioni quando i terroristi sono entrati. E’ quindi impossibile che ci siano civili dove ci sono gruppi armati. Altrimenti non sarebbe stato così spostato. L’esercito sta combattendo terroristi armati. Ci sono stati casi in cui i terroristi hanno usato i civili come scudi umani. Per quanto riguarda le vittime civili, purtroppo questo accade in tutte le guerre. Non esistono guerre pulite che non fanno vittime tra i civili. È nella natura della guerra. La soluzione è quella di fermare la guerra, nessun altra.

ASSAD: Signor Presidente, ci sono organizzazioni internazionali che hanno accusato sia i ribelli e l’esercito di abusi. Alla fine della guerra accetterete che si indaghi sulle violazioni in Siria?

ASSAD: Con quale logica si può immaginare che il governo siriano stia uccidendo la sua gente, come dicono queste organizzazioni, mentre decine di paesi tramano contro la Siria e nonostante tutto questo lo Stato ha resistito per tre anni. E’ totalmente illogico. Se uccidi il tuo popolo, il popolo si solleverà contro di te e lo Stato non può sopportarlo che per pochi mesi. Cadrà per forza. Se si resiste per tre anni è grazie al sostegno del popolo.

E’ possibile che il popolo sta al nostro fianco quando lo uccidiamo? Non solo è illogico, ma è anche contro natura. Ciò che queste organizzazioni dicono riflette la loro ignoranza di ciò che sta accadendo in Siria, o almeno per alcuni di loro, è un discorso che serve all’agenda politica dei loro paesi che gli chiedono di parlare così. Tuttavia, il governo siriano difende sempre i civili. I clip video e le foto confermano che si tratta di terroristi che commettono massacri, uccidendo tutti i civili. Abbiamo documenti che confermano, anche se queste organizzazioni non hanno alcun documento che provi che il governo siriano ha commesso un massacro contro i civili ovunque, dall’inizio della crisi fino ad ora.

AFP: Signor Presidente sappiamo che ci sono giornalisti stranieri che si trovano nelle mani di organizzazioni ribelli o di organizzazioni terroristiche. Ci sono giornalisti stranieri nelle carceri statali?

ASSAD: E’ meglio chiedere agli organismi interessati e specializzati. Vi daranno la risposta.

AFP: La riconciliazione è possibile un giorno tra la Siria da un lato, l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia dall’altro?

ASSAD: La politica è sempre in evoluzione, ma cambia a seconda di due cose: i principi e gli interessi. Noi non condividiamo gli stessi principi con tali paesi. Essi sostengono il terrorismo ed hanno contribuito allo spargimento di sangue siriano. Sugli interessi c’è un’altra domanda: il popolo siriano è d’accordo con questi paesi sul condividere gli stessi interessi, dopo tutto quello che è successo… dopo tutto il sangue che è scorso in Siria? Io non risponderò per il popolo siriano. Se la gente crede di avere interessi con questi paesi, se cambiano le loro politiche e smettono di sostenere il terrorismo, il popolo siriano potrebbe quindi accettare di ripristinare i suoi rapporti con loro. Ma non posso da solo, e come presidente, rispondere a questa domanda. E’ il popolo a decidere.

AFP: Signor Presidente, lei è stato accolto in Francia, ricevuto all’Eliseo e presentato come la nuova speranza araba. Come vi ha sorpreso la posizione della Francia e pensa che la Francia possa tornare un giorno in Siria?

ASSAD: No, io non sono né deluso né sorpreso, perché questo passaggio tra il 2008 e l’inizio del 2011 è stato un tentativo di assimilare e disegnare il ruolo della Siria e la sua politica. La Francia è stato accusato dagli Stati Uniti di svolgere questo ruolo, quando Sarkozy è venuto alla presidenza della repubblica. C’è stato un accordo tra la Francia e l’amministrazione Bush su questo tema, dato che la Francia è un vecchio amico di arabo e la Siria e più adatto per questo ruolo in questo momento, volevano utilizzare la Siria contro l’Iran e Hezbollah e tenerla lontana dall’idea di sostenere le organizzazioni della resistenza nella nostra regione. La politica francese però non si era ancora svelata. Poi si è verificato la cosiddetta primavera araba e la Francia si è rivolta contro la Siria dopo che non è riuscito a mantenere le sue promesse verso gli Stati Uniti. Ecco perché l’atteggiamento della Francia, al momento, e il suo sconvolgimento nel 2011. Informazioni sul ruolo futuro della Francia… parlo con franchezza. Almeno dal 2001, non c’è stata una politica europea, come prima a partire dagli anni ’90. Ma dopo il 2001 e gli attacchi terroristici dell’11 settembre a New York, non esiste una politica europea, c’è solo una politica degli Stati Uniti in Occidente, e alcuni paesi europei agiscono in questa funzione. Questo è stato il caso durante l’ultimo decennio nei confronti di tutte le questioni riguardanti la nostra regione. Ora vediamo la stessa cosa: i Paesi europei prendono ordini dagli Stati Uniti, o quando gli Stati Uniti appoggiano i paesi europei ad attuare le loro politiche. Non credo che l’Europa, specialmente in Francia, che una volta ha guidato l’Unione europea, sia in grado di svolgere un ruolo in Siria nella politica futura. E forse anche nei paesi limitrofi. Inoltre, i funzionari occidentali hanno perso la loro credibilità. Sono incaricati di seguire una politica non solo con un doppio standard, ma direi triplo se non quadruplo… hanno tutti i tipi di soluzioni che variano a seconda dei casi. Hanno perso ogni credibilità e rinunciato ai principi contro gli interessi. Quindi è impossibile costruire con loro una politica coerente. Ora sono l’opposto di quello di quello che potrebbero fare domani. Quindi non credo che la Francia avrà un ruolo da svolgere nel prossimo futuro, a meno che non cambi completamente e fondamentalmente politica e diviene uno stato indipendente nelle sue posizioni, come è stato in passato.

AFP: Signor Presidente la Siria libera dalle armi chimiche, quanto tempo ci vuole per questo?

ASSAD: Dipende dalla capacità dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche di fornire l’attrezzatura necessaria alla Siria per farlo. Da un lato, questo processo è lento. D’altra parte, lo smantellamento delle armi chimiche non avviene in Siria, come sapete, né da parte dello Stato siriano. Ma ci sono paesi in diverse regioni del mondo che volontariamente eseguiranno l’operazione. Alcuni paesi accettano di procedere con i prodotti a basso rischio, altri si rifiutano di farlo completamente. Così la tempistica dipende da questi due fattori: il primo dipende dal’organizzazione, la seconda dal paese che è disposto a smantellare tali prodotti nei loro territori. La Siria non può quindi fissare scadenze in questo senso. Ha completato il suo dovere nella preparazione dei dati e gli ispettori hanno controllato i dati e recensito i prodotti chimici nei depositi. Il resto, come ho detto, non dipende dalla Siria, ma da altri paesi.

AFP: Signor Presidente, che cosa è cambiato nella sua vita per voi e la vostra famiglia. I vostri bambino capiscono che cosa sta succedendo? Ne parlate in famiglia?

ASSAD: Alcune cose non sono cambiate. Vado a lavorare come al solito e viviano a casa nostra come prima. I bambini vanno a scuola. Queste cose non sono cambiate. In aggiunta, ci sono cose che hanno raggiunto ogni casa siriano, compreso la nostra. La tristezza che noi viviamo nella nostra vita ogni ora del giorno, a causa di ciò che vediamo e troviamo, attraverso la sofferenza, le vittime che cadono ovunque e angosciano ogni famiglia, la distruzione delle infrastrutture, degli interessi e dell’economia. Tutto questo ci ha colpito. E’ovvio che in tali circostanze, i bambini sono più colpiti rispetto agli adulti. Ci può essere una maturità precoce di questa generazione la cui coscienza è cresciuta durante la crisi. I bambini fanno domande che non si sentono in circostanze normali. Compresi: perché noi vediamo queste cose? Perché ci sono persone cattive? Perché ci sono morti? Non è facile spiegare queste cose ai bambini. Tuttavia, questi sono i problemi di tutti i giorni, affrontati nelle conversazioni quotidiane tra genitori e figli. Siamo parte di queste famiglie che discutono di questi problemi.

AFP: Qual è stata la situazione più difficile che ha conosciuto in questi anni?

ASSAD: Potrebbe non essere necessariamente una situazione, ma un dato di fatto. Ci sono molti che erano e sono sempre difficile da capire. In primo luogo, penso che sia il terrorismo. Il livello di barbarie raggiunto dai terroristi e che ci ricorda di storie sul Medioevo dell’ Europa del V secolo. Nei tempi moderni, si ricordano i massacri commessi dagli Ottomani che hanno ucciso un milione e mezzo di armeni e mezzo milione siro-ortodossi in Siria e Turchia. Un’altra cosa che è difficile da capire è la superficialità che abbiamo trovato tra i leader occidentali che non capiscono quello che è successo nella regione, e che quindi non sono in grado di vedere il presente e il futuro. Hanno sempre visto cose molto tardi rispetto agli eventi e, quindi, sono stati sempre superati dal tempo. In terzo luogo, è difficile capire l’influenza dei petrodollari sul cambiamento dei ruoli sulla scena internazionale. Ad esempio, il Qatar Stato marginale, si trasforma in una grande potenza. Francia, diventa uno stato che segue il Qatar ed esegue la sua politica, ma è anche ciò che vediamo tra Francia e Arabia Saudita Come possono i petrodollari trasformare alcuni funzionari occidentali, soprattutto in Francia e portarli a vendere i principi della rivoluzione francese, in cambio di un paio di miliardi di dollari. Sono un paio di esempi, ci sono molti altri simili è difficile da capire e da accettare.

AFP: Il processo per l’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri è iniziato. Pensa che sarà giusto?

ASSAD: Stiamo parlando di un Tribunale datato di 9 anni. Sarà giusto? Ogni volta, hanno accusato una parte per ragioni politiche. Anche durante gli ultimi giorni, abbiamo visto alcun progresso per le parti coinvolte in questo caso per trovare prove tangibili. Un’altra domanda rimane: perché questa tempistica? Penso che tutto quello che accade è correlato e mira a mettere pressione su Hezbollah in Libano, come la Siria in passato, subito dopo l’assassinio di Hariri.

ASSAD: Lei ha detto che la guerra finirà quando sarà eliminato il terrorismo. Ma i siriani, tutti, vogliono sapere quando la guerra finirà, in un mese, in un anno, in pochi anni?

ASSAD: Speriamo che la conferenza di Ginevra fornisca una risposta a una parte della questione, mettendo pressioni su questi paesi. Questa parte non dipende dalla Siria, altrimenti avremmo messo dal primo giorno pressione su questi paesi e avrebbero impedito l’infiltrazione di terroristi. Nel nostro caso, quando il terrorismo continua a infiltrarsi, ci vorrà qualche mese in più.

AFP: Sembra che i servizi di intelligence occidentali vogliano ripristinare i canali di comunicazione con Damasco e chiedere il vostro aiuto nella lotta contro il terrorismo. Siete pronti per questo?

ASSAD: Diversi incontri si sono svolti con più di un servizio di intelligence in più di un paese. La nostra risposta è stata che la collaborazione nel campo della sicurezza è indissolubilmente legata alla cooperazione politica e questo può avvenire solo quando i paesi non adottano politiche ostili alle posizioni Siria. Questo è stata la nostra chiara e precisa risposta.

AFP: Lei ha detto in passato che lo Stato aveva commesso alcuni errori. Quali avrebbero potuto essere evitati secondo lei?

ASSAd: mi ha detto che ci potrebbero essere degli errori di qualsiasi azione, ma non mi ha specificato quali tali errori. Essi non possono essere valutati obiettivamente se non quando si supererà la crisi e si rivaluterà tutto ciò che abbiamo fatto passato. Solo allora possiamo vedere obiettivamente. Ma quando sei nel cuore della crisi, la nostra valutazione è incompleta.

AFP: Signor Presidente senza l’aiuto della Russia, Iran e Cina, si potrebbe resistere ad una così forte pressione internazionale?

ASSAD: E’ una questione virtuale non possiamo rispondere perché non abbiamo la controprova. Secondo le evidenze attuali gli aiuti russi, cinesi e iraniani sono stati importanti e hanno contribuito a resistere in questo periodo. Senza questo aiuto, le cose avrebbero potuto essere molto più difficili. Ma come sempre… è difficile immaginare ora qualcosa di virtuale.

AFP: Dopo tutto quello che è successo si può immaginare un altro presidente a guidare il processo di ricostruzione del paese?

ASSAD: Quando il popolo siriano vuole una cosa del genere, non ci sarà alcun problema. Io non sono il tipo che si aggrappa al potere. In ogni caso, se il popolo siriano non vuole che io rimanga Presidente è chiaro che ci sarà un altro presidente. Non ho alcun problema psicologico in questo senso.

[Trad. dal francese per ALBAinformazione a cura di Francesco Guadagni]

Siria, Yarmouk: dopo 200 giorni di assedio dei terroristi, consegnati gli aiuti umanitari

di Francesco Guadagni

Dopo quasi 200 giorni di assedio dei terroristi e di terribili sofferenze, i Palestinesi del Quartiere di Yarmouk, a Damasco, hanno ricevuto un carico di aiuti umanitari. I primi aiuti sono stati consegnati a bambini, anziani e ammalati. Sono stati portati fuori da Yarmouk, diverse persone bisognose di cure specifiche.

L’operazione è stata realizzata grazie alla collaborazione fra le autorità della Repubblica Araba di Siria, l’Unrwa e la fazioni Palestinesi.
La consegna degli aiuti è stata coordinata dal Segretario Generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando Generale, Ahmed Jibril.
Prezioso è stato anche il lavoro dei compagni del FPLP-CG, conosciuti come gli irriducibili guardiani del campo.

Sono utili alcune precisazioni su Yarmouk. Dai massacri della Nakba dei sionisti contro i palestinesi nel 1948 fino ai giorni nostri, la Siria ha ricevuto milioni di rifugiati palestinesi a braccia aperte. Il paese ha ospitato la più grande popolazione palestinese in esilio in tutto il territorio.

Una delle più grandi comunità palestinesi in Siria è al campo profughi di Yarmouk vicino Damasco, dove oggi vivono circa 20.000 palestinesi. Ma, come sottolinea l’analista politico Christof Lehmann, il termine “campo profughi” è fuorviante. Questo perché ai residenti palestinesi sono sempre stati concessi la cittadinanza siriana piena e i diritti civili. “Yarmouk è più di un sobborgo ordinario di Damasco, osserva Lehmann”, ma ha uno status tecnico del campo profughi ai sensi del diritto siriano e internazionale. Questa è una misura della tradizionale ospitalità concessa sulla diaspora palestinese all’interno della Siria.

Dallo scoppio del conflitto siriano nel 2011, le fazioni palestinesi nel quartiere Yarmouk hanno permesso agli estremisti di Jabhat al Nusra ed altri di infiltrarsi, occupandone ampie fasce.

(VIDEO) In viaggio con Claudio Abbado tra Caracas e la Havana

Oggi vogliamo ricordare il Maestro Claudio Abbado con questa sua testimonianza di solidarietà internazionale e con questo documentario:

(VIDEO) “El Sistema” rende omaggio a Claudio Abbado

El Sistema omaggia il maestro Claudio Abbado
Il primo saggio della opera che la Sinfonica “Simón Bolívar” del Venezuela, la Orchestra Radio France, diretta dal maestro Gustavo Dudamel, nella Cattedrale di Notre Dame, è iniziato con un minuto di silenzio in omaggio al direttore mondiale Claudio Abbado, che è stato uno dei maggiori sostenitori e promotori del “Sistema de Orquestas y Coros Juveniles e Infantiles de Venezuela” in tutto il mondo.

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