Strategia della tensione in Ecuador: bomba contro ‘El Telegrafo’

5284-bomba-diario-telegrafo-ecuadordi Fabrizio Verde

Dopo le violenze in piazza, arrivano le bombe. La scorsa notte un’ordigno esplosivo è deflagrato all’esterno della sede del quotidiano di proprietà pubblica

Dopo le violenze in strada, le bombe. Continua l’attacco all’Ecuador. Intorno alle 23 di ieri una ordigno esplosivo è deflagrato all’esterno della sede del quotidiano ‘El Telegrafo’ nella città di Guayaquil. L’attentato è stato rivendicato da un fantomatico ‘Frente de Liberación Nacional’ che accusa di opportunismo la Revolución Ciudadana. «Il primo colpo è stato sparato – si legge nel documento di rivendicazione – continueremo rafforzando i quadri con giovani frustrati che vogliono lottare per un Ecuador migliore».

Il gruppo ha inoltre rivendicato l’attentato che ha colpito la sede del partito di governo Alianza Pais, sempre nella città di Guayaquil.

Documento di rivendicazione dell'attentato

Documento di rivendicazione dell’attentato

Il bersaglio dell’attacco esplosivo non è casuale: ‘El Telegrafo’ è infatti il più antico quotidiano ecuadoriano, nonché il primo quotidiano pubblico dell’Ecuador. Nel marzo del 2008, la testata informativa, dopo essere stata utilizzata a fini personali dalla vecchia proprietà solo per difendersi da accuse di peculato, fu rilevata e rilanciata dallo stato. Da quel momento il quotidiano è divenuto un esempio di buona informazione, vincendo il premio WAN IFRA 2012 (World Asssociation of Newspaper and News Publishers), e attestandosi tra i primi 8 organi d’informazione in America Latina nell’ambito della carta stampata.

Per il direttore, Orlando Pérez, ‘El Telegrafo’ viene colpito per «intimidire il lavoro responsabile ed etico dei media pubblici».

Attraverso il proprio account Twitter, il Vicepresidente della Repubblica Jorge Glas, ha immediatamente condannato l’atto di violenza: «Dobbiamo respingere la violenza! Il passato non tornerà».

Un passato fatto di povertà, violenza, instabilità. Dove l’Ecuador si trovava in una condizione semi-coloniale, costretto a subire i diktat di Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Un Ecuador dove gli Stati uniti d’America potevano disporre liberamente di basi militari sul territorio dello stato andino. Questo è il vero obiettivo della campagna di destabilizzazione iniziata con le proteste contro un progetto di legge sulla tassazione progressiva delle ricchezze, che avrebbe colpito solo il 2% della popolazione, ma in realtà volta a provocare il rovesciamento del governo Correa, che gode del sostegno pieno della maggioranza degli ecuadoriani che sono coscienti delle conquiste ottenute grazie a quel processo di trasformazione sociale chiamato Revolución Ciudadana.

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