di Atilio Boron
Si è tentato di farlo con tutti i mezzi ma niente ha dato risultati: né il colpo di stato, né la disoccupazione petrolifera, né le molestie diplomatiche, politiche e mediatiche hanno dato i loro frutti.
Sul terreno elettorale il predominio di Chávez era schiacciante: resisteva a piedi fermi alle pressioni ed il suo popolo lo seguiva con entusiasmo.
La Casa Bianca ha accelerato l’aggressione una volta scatenato il lento ma implacabile assassinio per tappe del Comandante. E dopo la sua morte l’offensiva ha assunto caratteristiche ancora più brutali. Ogni discrezione è stata lasciata da parte: bande mercenarie dell’uribismo (legate a Álvaro Uribe Vélez, ex presidente colombiano che si oppone al dialogo con le FARC, NdT) sono entrate seminando violenza e morte per tutto il paese, come oggi lo fanno i “mareros” che quotidianamente (sì, quotidianamente, secondo quello che riporta un’alta fonte ufficiale di El Salvador!) Obama rilascia dalle prigioni nordamericane per inviarli, con tutte le carte in regola, al rassegnato paese centroamericano affinché seminino il caos e la distruzione.
In mancanza di una risposta politica nella cornice elettorale i soldi fluivano copiosamente verso Caracas: partivano da Washington, via USAID o tramite la NED, volavano a Madrid da dove il ruffiano leccapiedi di George W. Bush, José M. Aznar, lo ridistribuiva tra i suoi complici in America Latina con la benedizione di quel colossale monumento al narcisismo chiamato Mario Vargas LLosa. Ma tutto era vano: come un redivivo Cid Campeador (eroe nazionale spagnolo) tropicale, anche dopo morto Chávez continuava a vincere le elezioni. Le vinceva con Nicolás Maduro nelle presidenziali dell’Aprile del 2013 e dopo, per sovrappiù, nelle municipali del dicembre di quello stesso anno.
La penuria programmata, l’accaparramento di articoli di prima necessità, la carestia, la feroce svalutazione della moneta, il contrabbando su grande scala, il terrorismo mediatico senza freno né misura, gli assassini selettivi e, agli inizi di 2014, il piano sedizioso materializzato nelle sinistre “guarimbas” (barricate per le strade), con un saldo di 43 morti, in maggioranza tra le forze di sicurezza del governo e simpatizzanti chavisti, e distruzione di veicoli, sedi di istituzioni governative, scuole, università ed ospedali valutate in centinaia di milioni di dollari.
I responsabili di tutto questo, in prigione, si lamentano che sono “prigionieri politici” quando i loro atti si inquadrano nel delitto di sedizione che in qualunque altro paese del mondo li avrebbe condannati alla prigione a vita. Nella “dittatura bolivariana”, invece, la giustizia ha operato con una sorprendente clemenza ed al capo di questi crimini ha imposto una sentenza di poco più di tredici anni. In Spagna o in Argentina sarebbe stato condannato all’ergastolo e negli Stati Uniti alla pena di morte. Ma così è la “dittatura” chavista.
L’Assemblea ha appena approvato una legge di amnistia che libererebbe tutti i condannati per i crimini commessi nell’episodio sedizioso all’inizio del 2014. Il Tribunale Superiore ha dichiarato l’incostituzionalità della legge ed il presidente Maduro ha dichiarato che non promulgherebbe mai una diavoleria simile che aprirebbe la porta alla violenza e all’impunità in Venezuela.
La situazione si avvicina ad uno scontro catastrofico di forze ma il chavismo, senza alcun dubbio ed oltre i suoi problemi e le sue titubanze, ha chiaramente dalla sua parte il popolo che sa con istinto preciso che la destra viene col coltello tra i denti ed è disposta ad applicare un monito esemplare. Le istruttive lezioni del macrismo in Argentina hanno persuaso delle terribili conseguenze di un ritorno della reazione anche quelli che prima dubitavano che potesse essere così.
Il giornale, solitamente considerato dai neoliberisti il modello della “stampa imparziale ed indipendente”, si lamenta che i paesi della regione non si assumono le loro responsabilità per preservare la democrazia in Venezuela nonostante il fatto che, assicura, per il modo in cui stanno le cose “probabilmente non tarderà molto a prodursi di un’esplosione”.
Il Washington Post non fa altro che ripetere quello che poco prima aveva esposto un documento del Comando Sud, denominato “Operazione Venezuela Freedom-2” e siglato il 25 febbraio del corrente anno con la firma del suo attuale capo, l’ammiraglio Kurt Tidd. In esso si legge che “sebbene (l’opposizione) stia seguendo la strada pacifica, legale ed elettorale (per provocare la destituzione di Maduro) è cresciuta la convinzione che sia necessario fare pressioni con mobilitazioni di strada, cercando di fermare e paralizzare gli importanti contingenti militari che saranno dedicati a mantenere l’ordine interno e la sicurezza del governo, situazione che diventerà insostenibile nella misura in cui si scatenino conflitti multipli e pressioni di ogni tipo”.
L’11 Aprile del 2002 c’è stato il colpo di stato contro Chávez, ed il 13 il paese lo reinstallò nel Palazzo di Miraflores. Non è casuale l’attacco del Washington Post proprio in questi giorni, né che una delle organizzazioni sediziose che distrussero il paese in passato, Volontà Popolare, abbia convocato una marcia il 19 di Aprile per esigere l’”uscita” del presidente Maduro. Non lo è neanche che il Segretario Generale dell’OSA, Luis “Giuda” Almagro, abbia dichiarato pochi giorni fa in un’intervista a El País di Spagna che è inammissibile mantenere la neutralità in Venezuela “quando ci sono prigionieri politici e la democrazia non sta funzionando.” Almagro ha ricevuto il chiaro ordine dei suoi capi a occuparsi solo di fustigare il Venezuela e di dimenticarsi dei massacri perpetrati in Honduras (Berta Cáceres), Messico (Ayotzinapa), Colombia (130 militanti di Marcia Patriottica assassinati nell’ultimo anno), e Paraguay (Curuguaty), per non menzionare nient’altro che i casi più emblematici. L’OSA ratifica la sua condizione di Ministero delle Colonie degli Stati Uniti, come opportunamente l’avevano definita Fidel ed il Che.
stefanoulliana
/ aprile 24, 2016L’ha ribloggato su My Blog.
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