da unciencia.unc.edu.ar
La seguente intervista rilasciata dall’antropologo e critico culturale argentino, Néstor García Canclini, anche se un po’ datata (2012), rimane tuttavia valida nel suo ragionamento. Egli s’interroga sul valore e sulla validità del diritto di cittadinanza nella società odierna e come i mezzi di comunicazione, insieme alle reti sociali, stiano mutando i rapporti tra i cittadini e, forse, indebolendo quella stessa cittadinanza. Ma, allo stesso tempo, ricorda Canclini che fortunatamente esistono ancora degli individui che vigilano e lavorano affinché non si snaturino quei principi che hanno consentito alle masse di raggiungere la democrazia.
Vincenzo Paglione
UNCiencia. Universidad Nacional de Córdoba.
Lo studioso e teorico argentino della cultura residente in Messico, Néstor García Canclini, recentemente ha visitato l’Universidad Nacional de Córdoba (UNC) per ricevere il Premio Universitario di Cultura “400 anni” e ha anche partecipato come conferenziere inaugurale del Terzo Congresso Internazionale dell’Asociación Argentina de Estudios de Cine y Audiovisual.
In questo contesto ha concesso una intervista al programma “Los invitados” (Gli invitati) organizzato dalla Prosecretaría de Comunicación Institucional dell’UNC. In questa intervista García Canclini ha affrontato argomenti come quello della spettacolarizzazione della cultura e la cittadinanza passibile di essere costruita in quel contesto. Questo articolo costituisce un estratto del dialogo tra il ricercatore Gustavo Blázquez e García Canclini.
Pensando al contesto latinoamericano ma anche a quello planetario così complesso e allo stesso tempo così tragico, le pratiche artistiche sono capaci di contribuire allo sviluppo sostenibile delle comunità? L’arte riesce a fare qualcosa in questo senso?
I problemi che soggiacciono sono molteplici. Che cosa vogliamo dire con arte e sostenibilità? Darò una risposta frettolosa. Se intendiamo per arte quello che la società o i diversi gruppi che la compongono definiscono come arti, al plurale, quello che alcuni (i giovani più riconosciuti o i settori più apprezzati nel campo delle arti contemporanee) considerano come arte, forse uno non sarebbe in grado di dire che il compito delle arti, compreso quella moderna e non solo la contemporanea, non è servito a promuovere la sostenibilità, bensì l’ha erosa, perturbata, dimostrare che esistono altre possibilità di vivere, sensibilità diverse. Anzi, il peggio è che qualcosa diventi troppo sostenibile. Spiegato questo punto, bisogna subito mettere in chiaro che dal punto di vista sociale la sostenibilità è necessaria perché implica sicurezza, conservazione della natura, delle relazioni storiche, poter confidare, allevare i figli, i nipoti, avere un futuro. Allora io penserei il rapporto d’innovazione e di sperimentazione artistica sostenibile come una tensione produttiva e non come un rapporto di collaborazione.
Quando l’arte vuole collaborare troppo con i processi sociali, finisce con subordinarsi ad essi, produrre logotipi, anziché esperienze. E credo che il compito più importante degli artisti, gli scrittori e i musicisti sia quello di produrre inquietudine.
Che posto occuperebbe la spettacolarizzazione della cultura alla quale ci hanno abituati i politici?
Da sempre lo spettacolo è stato costitutivo di una parte dei processi culturali. Le messe, gli antichi riti, erano dei grandi spettacoli e continuano a esserlo. E hanno una sottile coltura di questo senso della spettacolarizzazione, convocazione di massa, uniformare per allargarsi. Le città costituiscono uno dei fenomeni culturali più importanti che ci condizionano, ci fanno vivere in una certa maniera o se sono troppo congestionate, ci rendono difficile la nostra esistenza. Le città sono dei luoghi plurali, aperti, complessi e sono dei grandi spettacoli. Non si limitano a essere dei luoghi dell’intimità. A questo punto lo spettacolo in se stesso non ha nulla di male, è come una qualsiasi altra manifestazione culturale, qualcosa che può essere guidato in diverse direzioni che possono servire per sperimentare esperienze diverse.
Soffermandoci al caso più discusso che è stato additato come la scena per antonomasia dello spettacolo, ossia la televisione, il problema non radica nel fatto che si limiti a spettacolarizzare, ma che lo faccia in una sola direzione, senza dare le chiavi di lettura per problematizzare quello di cui sta parlando e il modo in cui lo racconta.
Lei pensa che la spettacolarizzazione della cultura – intesa come un grande show che ha bisogno di grandi star e uno star system – possa rendere invisibili e persino contribuire ad abortire i progetti locali di creazione?
Lo sta già facendo e mai come in quest’epoca si è verificata tanta interazione tra il colto, il popolare e il mediatico, dove tutto si può caricare in rete. Su Youtube troviamo i grandi show che si sono svolti ieri a Buenos Aires o a Londra, insieme a video amatoriali creati da migliaia e migliaia di giovani che vedono come comunicano quello che hanno appena improvvisato. È stato calcolato che quotidianamente si esegue l’upload di 65 mila video. Tutto interagisce con tutto.
Come ripensare, metterci in discussione, reimpostare e agire di fronte a questa triade cultura-Stato-cittadinanza?
Bisognerebbe aggiungere altri elementi a questa relazione. Tanto per cominciare, i mezzi che non si possono ridurre al solo campo della cultura, dello Stato o della cittadinanza. In un secondo momento le reti sociali. Cittadinanza e reti sociali hanno ridefinito quanto finora si era detto su di loro. È una situazione scomoda per quegli intellettuali che ancora aspirano avvalersi della parola “ragionata” e ipoteticamente più legittima. Da ormai molto tempo il posto di guida del gusto, della sensibilità e del pensiero è in mano ai mezzi di comunicazione. Ma ora si sono ancora più radicati nella rete. Chi è che governa Facebook o Twitter? Questi sistemi sono diventati così importanti che s’ingaggiano aziende transnazionali affinché inviino la loro fanteria –come sta avvenendo in questi giorni di preelezioni in Messico- in modo da produrre dei tweet per i candidati al fine di far aumentare la massa dei loro sostenitori. Allora qui scaturisce un altro elemento che è quello della simulazione, la quale è stata sempre importante in tutte le culture, rappresentare fingendo, immaginando in senso creativo, e che nell’attualità si sta moltiplicando in modo esponenziale.
E in questo vortice, cosa ne rimane della cittadinanza, cioè di quella cittadinanza così come la capiamo con i suoi valori democratici risalenti al XVIII e al XX secolo? Ci possiamo considerare ancora dei cittadini?
Continuiamo a esserlo se non ci limitiamo al solo voto. Il voto continua a essere importante, ma è forse tra i compiti meno importanti, meno influenti. Rivendico che le elezioni sono necessarie. Tuttavia esistono altri modi di fare cittadinanza. In questi anni, per esempio, in questi ultimi decenni di neoliberismo galoppante, sopraffattore, conosco a molti cittadini il cui compito consiste nel cercare di fare che le istituzioni funzionino. Che un ospedale svolga il suo compito, che una scuola si aggiorni nello studio e nella didattica, che altri possano fare del cinema e comunicarlo. Queste sono forme in cui si può esercitare la cittadinanza. Non si traducono in leggi, in regolamenti pubblici, in governo inteso nel suo senso tradizionale, né devono giungere in quella direzione.
FACEBOOK
È stata una delle reti sociali di maggiore successo e durata, ma conviene ricordare che quando sono sorte alcune di queste reti sembravano esplosive e, come Second Life, si sono esaurite nel giro di pochi anni.
Anche Facebook sta perdendo utenti. In particolare questo fenomeno sta avvenendo nell’emisfero Nord, dove si sono verificate delle esperienze molto terribili di spionaggio mediante questa rete. Le aziende che sorvegliano i loro impiegati, indagano sui loro gusti e possono licenziarli; genitori che sorvegliano i loro figli o viceversa, i mariti alle loro mogli e al contrario. Facebook è una rete complessa dal futuro imprevedibile. È possibile che possa essere rimpiazzata da altre più attraenti. Mi pare che in alcuni paesi è già in concorrenza con altre reti come Twitter, ad esempio. Anche perché la virtualità della comunicazione, sempre più estesa, delocalizzata e potenziata, apparentemente in modo infinito, sfugge su molti binari. Questa dinamica è più stabile, tra virgolette, che l’esistenza di raggruppamenti occasionali che si trovano sotto il nome di Facebook, Twitter e altri.
SOPA: Stop Online Privacy Act
È il punto più algido di una volontà composta d’ignoranza, di non volere riconoscere le nuove forme in cui si sviluppa la proprietà intellettuale nel mondo contemporaneo. Alcuni anni orsono abbiamo avuto una conversazione – pubblicata in seguito in un libro – con un economista della cultura del Messico, Ernesto Piedras. Come economista della cultura egli parlava degli effetti negativi della pirateria sull’economia e gli investimenti. Gli ho risposto come antropologo: se vedo che l’80% o l’85% della popolazione sviluppa un atteggiamento e lo vive con una certa naturalità, devo domandarmi perché lo fanno e come si organizzano per farlo. E forse il come mi darà maggiori risposte che il perché.
Ho l’impressione che stiamo assistendo a una possibilità di accesso molto ricca verso tutti i repertori culturali del mondo. Questo fatto è lodevole e ci fa chiedere perché le quattro grandi aziende, le major della musica, vogliono avere sotto controllo –come dieci anni fa- il 90% del mercato mondiale. Molte persone, tacitamente, si sono fatti questa domanda, hanno smesso di acquistare dischi e li scaricano dalla rete. Alcune aziende, le più astute, cercano di associarsi con questa utenza per condividere l’affare. Ma ormai non pretendono più portarsi 19 dollari di guadagno per ogni dollaro investito che è la cifra che spendono per produrre un disco. Siamo in un’altra fase. Si stanno legittimando forme per la condivisione della proprietà intellettuale e addirittura i beni comuni come sta facendo Creative Commons.
Ci sono riviste importanti appartenenti a organizzazioni internazionali come, ad esempio, la Fondazione Carolina, e ricordo questo aneddoto perché quattro anni fa sono stato a una riunione del Consiglio Editoriale, dove è stato deciso che tutte le pubblicazioni diventassero Creative Commons e si potessero scaricare liberamente senza dover pagare. Credo che la vecchia politica di stigmatizzare la pirateria, continuare a chiamarla in questo modo, senza virgolette, impedisca di pensare e impedisce di capire i comportamenti che oggi sono così comuni tra i giovani e nella maggioranza della popolazione. Bisogna pensare perché avvengono.
[Trad. dal castigliano per ALBAInformazione di Vincenzo Paglione]
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